ALCUNE CONSIDERAZIONI SUL CONFLITTO MEDIORIENTALE

SIRIA-DEFINITIVALa lettura dell’escalation politico-militare in atto in Medio Oriente fornita da tutti gli analisti di geopolitica, soprattutto da quelli specializzati in “trame” mediorientali, è sostanzialmente univoca e, a mio avviso, sostanzialmente corretta – rimanendo, beninteso, sul puro terreno della dialettica geopolitica. Si tratta, in primo luogo, dell’acuirsi di una tensione direttamente connessa alla lotta egemonica fra le due maggiori potenze regionali da sempre in irriducibile contrasto: Arabia Saudita e Iran. Siria, Iraq, Yemen: sono almeno tre i conflitti in corso nella regione mediorientale che vedono contrapposti, in modo sempre più scoperto, l’Iran e l’Arabia Saudita.

«Precipita la situazione tra l’Iran e l’Arabia Saudita a seguito dell’esecuzione della condanna a morte dell’ayatollah Nimr al-Nimr: gli aerei di Riyad hanno bombardato l’ambasciata iraniana a Sanaa, nello Yemen, paese dilaniato dalla guerra dopo il golpe degli sciiti houthi che ha portato al rovesciamento del presidente Abd Rabbo Mansour Hadi. Per Rohani i sauditi “Non vogliono la stabilità e la pace nella regione per coprire i problemi interni e le politiche regionali fallimentari”. Difficilmente gli si potrebbe dare torto, se si pensa che dietro al conflitto siriano ci sono in primis le monarchie del Golfo, ma anche altri attori, che hanno tentato di strappare la zona di influenza ad Iran e Russia sostenendo anche economicamente non solo le opposizioni, ma anche i gruppi jihadisti cominciando da Jabat al-Nusra (diramazione di al-Qaeda in Siria) per arrivare all’Isis. Per lo Yemen la musica non cambia, salvo il fatto che lì le parti sono invertite, con le monarchie del Golfo in sostegno all’ancien régime, mentre gli iraniani stanno con gli insorti» (E. Oliari, Notizie geopolitiche).

La mattanza mandata in scena il 2 gennaio dal regime “moderato” saudita, aggravata dall’uccisione dell’ayatollah sciita Nimr Baqr al-Nimr, un «pio fedele» molto amato nel mondo sciita (è sciita il10-15% della popolazione saudita), ha certamente avuto il significato inequivocabile di una provocazione orchestrata da Riyadh contro gli alleati americani (in primis), gli europei (ai quali, come sempre, piace praticare anche in Medio oriente la politica dei “due – se non dei tre o quattro – forni”) e i russi, alleati di ferro di Teheran almeno dal crollo dell’ex unione Sovietica; ma si spiega anche con la necessità del regime di rafforzare il nazionalismo religioso saudita in un momento di acutissima, e potenzialmente devastante (per la monarchia regnante), crisi economica. Scrive Toby Matthiesen: «In tempi di crisi, la “minaccia sciita” viene usata per compattare attorno alla famiglia regnante il resto della popolazione, per la maggior parte composta da sunniti di diverse credenze» (Limes). Un classico nella gestione del conflitto sociale in ogni parte del mondo, a cominciare naturalmente dal civilissimo Occidente, il quale in fatto di intossicazione nazionalistica delle masse e di ricerca del capro espiatorio buono per l’occasione non ha mai avuto rivali. Il nazionalismo, a sfondo laico o religioso, è da sempre un veleno per le classi dominate e un’eccezionale riserva di stabilità sociale per le classi dominanti. «Fra tutte le forme di superbia», scriveva A. Schopenhauer, «quella più a buon mercato è l’orgoglio nazionale [o religioso, potremmo aggiungere]. Ogni povero diavolo, che non ha niente di cui andare superbo, si afferra all’unico pretesto che gli è offerto: essere orgoglioso della nazione [o della religione] alla quale ha la ventura di appartenere. Ciò lo conforta; e in segno di gratitudine egli è pronto a difendere πύξ κάì λάξ [a pugni e calci, con le unghie e coi denti] tutti i suoi difetti e tutte le sue stoltezze» (Il giudizio degli altri, RCS).

Necessariamente lo scontro di enormi interessi strategici sopra evocato e lo stesso conflitto sociale interno ai Paesi del Medio e del Vicino Oriente devono assumere una parvenza religiosa, considerato il ruolo politico-ideologico che in tutta l’area geopolitica in questione ha da sempre giocato la religione. Ma non bisogna certo essere fan sfegatati di Carlo Marx per comprendere che la «guerra settaria» tra sunniti e sciiti da sempre esprime, copre, veicola e potenzia una lotta di potere “a 360 gradi”: dalla supremazia economica a quella politica, dall’egemonia ideologica a quella militare (vedi anche alla voce “guerre per procura”, con annesso  terrorismo)*. Scriveva Olivier Roy, studioso dell’Islam, dopo gli attentati terroristici di novembre a Parigi: «In breve, questa non è la “rivolta dell’islam” o dei “musulmani”, ma un problema preciso che concerne due categorie di giovani, in maggioranza originari dell’immigrazione ma anche francesi “di ceppo”. Non è la radicalizzazione dell’islam ma l’islamizzazione della radicalità» (La Repubblica). Della cieca “radicalità”, della “radicalità” che non ha coscienza della radice sociale del problema, mi permetto di aggiungere. Per questo altre volte ho scritto che la religione non spiega nulla di fondamentale, mentre è essenziale capire l’uso politico-ideologico che se ne fa.

Secondo quanto scriveva il generale Carlo Jean nel 2001, «L’obiettivo principale di bin Laden non è quello di colpire l’America in quanto tale o per punirla per i torti fatti all’islam o in Palestina […] L’obiettivo principale è quello di sfruttare le frustrazioni delle masse islamiche, escluse dal benessere e dal potere politico nei loro paesi, per farle rivoltare contro i loro governi, amici dell’Occidente e prenderne il posto» (Limes, n. 4/2001). Esattamente questo significa usare la religione, o qualsiasi altra ideologia, a fini di potere. È facile vendere il Paradiso (peraltro popolato, a quanto pare, da vergini bellissime) a giovani che non hanno da perdere nulla (se non le famose catene) e che vivono in una condizione di tale disperazione, che la loro stessa vita è sottoposta a un forte processo di svalutazione, al punto che molti di essi gridano di non aver paura della morte, al contrario di noi occidentali, così attaccati ai beni materiali: «Noi amiamo la morte così come voi amate la vita, ecco perché non temiamo di trasformarci in bombe umane per colpire i miscredenti. Se il misericordioso Allah vuole, la vittoria è certa». (Forse, aggiunge il miscredente occidentale, il cui “scetticismo cosmico” fa peraltro inorridire anche i cosiddetti atei devoti e i teorici della morte dell’Occidente – molti dei quali tifano per il virile Vladimir Putin). L’etica del kamikaze è radicata nella cieca disperazione. Scriveva Hosokawa Hachiro, uno dei pochi piloti giapponesi sopravvissuti del «gruppo speciale d’attacco» (tokkotai) creato nell’ottobre del 1944: «Si trattava di veri e propri atti di disperazione militare. In varie situazioni di guerra gli uomini compiono azioni eroiche e disperate, sperando di ribaltare le sorti del conflitto. Di solito però sono azioni individuali. Ecco, forse per la prima volta nella storia militare la disperazione è stata organizzata in gruppo». Com’è noto, circa quattromila giovanissimi piloti giapponesi partirono per un viaggio di sola andata su aerei spinti più dai «venti divini» che dal carburante. Le classi dominanti hanno imparato bene a organizzare anche sul piano militare la disperazione delle masse giovanili.

Storicamente per la Persia lo sciismo, diventato religione ufficiale nel XVI secolo con l’Impero dei Safavidi, ha espresso la volontà del Paese, invaso nel VII secolo dopo Cristo dagli arabi islamizzati, di mantenere la propria autonomia nei confronti del mondo arabo sunnita e della Turchia ottomana.  «L’elemento caratterizzante dell’era safavide va piuttosto ricercato nel risorgimento nazionale del concetto di Iran, e quindi nella formazione di uno Stato che grosso modo corrisponde ancor oggi alla “moderna” nazione persiana, connotato fin dal principio da una sua caratterizzazione religiosa specifica – quella sciita duodecimana – e in netta contrapposizione con altri grandi Stati che caratterizzeranno il mondo islamico orientale sino ad epoche molto recenti, a iniziare a Occidente con l’impero ottomano, sino a Oriente, dove gli Uzbechi in Transoxiana e i Moghul in India produssero anch’essi questa “definitiva” delimitazione del proprio ambito “nazionale” » (M. Bernardini, Storia del mondo islamico (VII-XVI): il mondo iranico e turco, Torino, Einaudi). Secondo Alberto Zanconato, «Il conflitto attuale parte dall’Iraq, il Paese che nel 1980, ai tempi del regime di Saddam Hussein, attaccò l’Iran dell’ayatollah Khomeini in quella che molti a Teheran videro come una seconda invasione araba dopo quella del VII secolo.  Proprio il ricompattarsi del Paese contro questa minaccia consentì al nuovo regime, insediatosi solo da un anno e mezzo, di consolidare la sua presa sul potere. E a partire dal 2003, grazie all’attacco anglo-americano che abbatté il regime di Saddam, l’Iran ha guadagnato una forte influenza nel Paese vicino, grazie alla vicinanza con i nuovi governi sciiti a Baghdad e l’istituzione di forze paramilitari sciite coordinate da Teheran. In questo modo, grazie a George W. Bush, la Repubblica islamica è stata in grado di realizzare un sogno secolare, quello di stabilire una continuità geografica tra forze sciite sue alleate dal proprio territorio fino al Libano, attraverso l’Iraq e la Siria. Uno scenario che non può che inquietare lo schieramento a guida saudita e nel quale sono nate le guerre che stanno sconvolgendo la regione» (Ansa.it). Non c’è dubbio.

Le ultime mosse di Riyadh sembrano davvero dettate da uno stato di estrema debolezza e insicurezza del Paese, tanto sul fronte esterno quanto su quello interno. Sul fronte esterno: la Russia incrementa la sua presenza in Siria e rafforza la sua alleanza con l’Iran, potenza regionale sempre più in ascesa, mentre gli americani, che dal 1945 puntellano in ogni modo il regime saudita (nonostante la propaganda ufficiale “antiamericana” della monarchia saudita a uso interno e regionale), sembrano praticare una politica di appeasement nei confronti dell’odiato nemico persiano, come si è visto a proposito del programma nucleare iraniano. Da parte sua, Washington non fa niente per nascondere la sua irritazione per il “terrorismo petrolifero” organizzato dell’Arabia Saudita allo scopo di affogare nel petrolio lo shale oil a stelle e strisce. «L’Arabia Saudita, infatti, ha continuato a pompare petrolio ferocemente. Lo scopo della strategia del cartello OPEC è, ovviamente, quello di fare guerra agli Stati Uniti, sperando che il crollo dei prezzi del petrolio spinga questi ultimi fuori dal mercato, in modo tale da recuperare le quote di mercato perdute. […] La strategia di Ryad sta costando parecchio al Paese mediorientale. Secondo quanto riportato da Il Sole 24 Ore,  “Soltanto nel 2015 con la guerra dei prezzi sono stati bruciati dal Paese 150 miliardi di dollari”. Il deficit di bilancio dell’Arabia Saudita è salito a 98 miliardi di dollari, secondo quanto riportato dalla BBC» (V. D’Onofrio, Notizie geopolitiche). Di qui, una spending review del bilancio statale saudita che rischia di mordere anche la media borghesia del Paese, peraltro piuttosto attiva nella timida “primavera” del 2011; allora il regime rispose somministrando agli oppositori l’esilio, il carcere e la pena di morte. Insomma, lo stesso trattamento che l’odiata Repubblica Islamica dell’Iran riserva ai suoi oppositori “terroristi”: tutto l’Islam è Paese, potremmo dire con un certo occidentalismo caro alle “destre” basate di qua e di là dell’Atlantico. Per non parlare del regime siriano, che nel marzo del 2011 decise di usare il pugno di ferro militare solo dopo alcune manifestazioni pacifiche di protesta, avviando una escalation di violenza che ha provocato circa 300 mila morti e milioni di profughi e sfollati. A tal riguardo, e solo en passant, occorre ricordare che il Califfato Nero, che nel 2010 appariva in ritirata sul fronte irakeno, approfittò proprio della violenza e del caos in Siria per riprendere l’iniziativa, sempre con il supporto finanziario e militare dell’Arabia saudita e del fronte sunnita nel suo complesso, Turchia compresa.

Scriveva Eleonora Ardemagni nel novembre 2013: «Le manifestazioni dei lavoratori stranieri in Arabia Saudita permettono di aprire una finestra su uno spaccato della Penisola arabica spesso trascurato: il rapporto fra i rentier-state e le comunità immigrate. […] La revisione della legge sul lavoro ha un obiettivo specifico: diminuire il tasso di disoccupazione fra i cittadini sauditi, stimato oggi al 12%. Nove dei 27 milioni di abitanti dell’Arabia Saudita sono infatti stranieri, soprattutto africani del Corno, yemeniti e asiatici (pachistani e indiani su tutti). Il tentativo di “saudizzazione del lavoro privato”, a fronte di un settore pubblico ormai saturo, va incontro, però, ad almeno tre ostacoli. Innanzitutto, la riformulazione della normativa sta già producendo l’aumento del costo del lavoro, perché un lavoratore saudita costa più di un asiatico o di un africano.

Le nuove politiche del lavoro di casa Al-Sa‘ud potrebbero avere pesanti ricadute regionali. Il provvedimento sta infatti irrigidendo i rapporti fra il regno e  il vicino Yemen: lavorano in Arabia Saudita tra gli 800 mila e il milione di yemeniti. Le rimesse dei lavoratori provenienti dalla repubblica arabica rappresentano un’ancora di salvezza per la fragile economia di Sana’a. Anche se vi sono dati discordanti, gli yemeniti toccati dal provvedimento si attesterebbero fra i 300 mila e i 500 mila; solo negli ultimi dieci giorni 30 mila persone avrebbero oltrepassato la frontiera tra i due paesi per fare ritorno in Yemen. Manifestazioni di protesta si sono svolte già quest’estate a Sana’a e in altre città yemenite» (ISPI). Il conflitto in corso in Yemen va visto anche da questa prospettiva.

Per valutare i movimenti nella politica interna ed estera dell’Arabia Saudita non bisogna nemmeno sottovalutare lo scontro tutto interno al Consiglio per la cooperazione del Golfo (Ccg), che comprende, oltre quel Paese, che ne costituisce il centro motore (un po’ come la Germania nei confronti dell’Unione europea), il Bahrain, l’Oman, il Qatar, gli Emirati Arabi Uniti e il Kuwait. Ebbene, il Qatar è sempre meno disposto ad accettare l’egemonia dell’Arabia Saudita, e la cosa si è manifestata da ultimo anche nella tempistica della rottura delle relazioni diplomatiche con l’Iran decisa Doha, ultima delle capitali del Consiglio a farlo. Gli attacchi di Riyadh ai «media ostili» stranieri (leggi Al-Jazeera) non si contano più. Scriveva la già citata Eleonora Ardemagni nel marzo 2014 (questa volta su Limes): «Il vincolo di solidarietà fra le monarchie della Penisola arretra dinanzi alla competizione per il rango politico, sia dentro l’organizzazione sia, più in generale, nella regione. I concetti di sovranità e di interesse nazionale tornano così in primo piano. Il tema della sovranità, oggi riproposto con forza dal Qatar, è in antitesi con il regionalismo monarchico a trazione saudita, che ha fin qui animato il processo decisionale del Ccg, inevitabilmente egemonizzato da Riyad. […] L’Arabia Saudita, con l’appoggio di Bahrein ed Emirati, ha avviato un’escalation diplomatica contro il Qatar, accusato di finanziare la Fratellanza Musulmana non solo in Egitto e Siria, ma anche all’interno della stessa Penisola».

L’Arabia Saudita è una monarchia assoluta governata dalla famiglia al-Saud, al potere dal 1932. Salman bin Abdul Aziz al-Saud è salito sul trono nel gennaio 2015, in seguito alla morte del fratello Abdullah. Il Paese è il maggiore produttore ed esportatore di greggio al mondo; le esportazioni petrolifere costituiscono l’80-90% delle entrate statali, il 48% del pil della nazione e l’85% dei proventi delle esportazioni. Come accade per gli altri Paesi legati alla rendita petrolifera (dal Venezuela alla Russia), anche in Arabia Saudita la spesa pubblica è pianificata sulle stime degli introiti petroliferi, soprattutto nel settore pubblico, che ancora oggi gestisce quasi in monopolio l’industria petrolifera – attraverso la Saudi Aramco, la più grande impresa del Paese. Per superare la debolezza strutturale derivante dalla dipendenza dal prezzo del petrolio sul mercato mondiale, il governo saudita da qualche anno sta cercando di attuare politiche di privatizzazione e di diversificazione economica, soprattutto in campo energetico: produzione dei cosiddetti idrocarburi non convenzionali (shale gas/oil), costruzione di centrali atomiche in cooperazione con società statunitensi e giapponesi, realizzazione di “campi” idonei a catturare l’energia solare. Si parla anche della costruzione delle «economic cities», di «città integrate» realizzate con le infrastrutture tecnologicamente più avanzate del pianeta che dovranno svolgere la funzione di poli di sviluppo per l’insieme del Paese. Naturalmente la «modernizzazione capitalistica» non è ben vista da una parte della classe dominante del Paese e da settori interni alla stessa monarchia saudita, ossia da tutti quelli che temono di perdere potere sociale a beneficio di una borghesia più dinamica e moderna. È una dialettica interna a tutti i Paesi arabi e in parte anche all’Iran. Dall’Egitto alla Siria, la cosiddetta Primavera Araba ha mosso i suoi primi passi quando la lenta transizione dell’area del medio e del Vicino Oriente verso un’economia meno statalista, meno parassitaria, meno infiltrata dalla corruzione e più aperta ai flussi capitalistici internazionali ha iniziato a dare i suoi primi frutti sul terreno politico (timide aperture in direzione di riforme istituzionali di stampo “democratico”) e su quello delle contraddizioni sociali – la “modernizzazione capitalistica” non è un pranzo di gala! Ma mentre i progetti per una “rivoluzione economica” rimangono in gran parte ancora da implementare, ciò che ha avuto modo di concretizzarsi, almeno negli ultimi cinque anni, è stato un forte aumento della spesa militare; con una spesa pari a circa il 9% del Pil, secondo l’International Institute for Strategic Studies l’Arabia Saudita è il quarto Paese al mondo per spesa militare. Solo nel 2010 gli Stati Uniti e l’Arabia Saudita hanno sottoscritto un contratto per la fornitura di armi Made in Usa per un valore di oltre 60 miliardi. Anche Regno Unito e Francia fanno lucrosi affari con i “moderati” leader di Riyadh.

«Il Comitato No Guerra No Nato ricorda la guerra del Golfo di 25 anni fa, nel massimo spirito unitario e allo stesso tempo nella massima chiarezza sul significato di tale ricorrenza, chiamando a intensificare la campagna per l’uscita dell’Italia dalla Nato, per una Italia sovrana e neutrale, per la formazione del più ampio fronte interno e internazionale contro il sistema di guerra, per la piena sovranità e indipendenza dei popoli. Noi non mettiamo tutti sullo stesso piano. Questa guerra viene dall’Occidente. Il terrorismo viene dall’Occidente. La crisi mondiale viene dall’Occidente». Mi viene un malizioso sospetto leggendo una prosa che tanto ricorda la propaganda dei Partigiani della pace: per il Comitato di cui sopra la Russia e la Cina* (tanto per fare dei nomi) non fanno parte dell’odierno «sistema di guerra»? Per me sì. Che significa poi non mettere «tutti sullo stesso piano»? Per me, ad esempio, significa che, in quanto proletario italiano, debbo oppormi in primo luogo all’imperialismo italiano (trattasi dell’ABC in fatto di “internazionalismo proletario”, mi pare), cosa che ovviamente non mi impedisce di condannare tutti gli imperialismi del mondo, grandi, medi o piccoli che siano – vedi il concetto di imperialismo unitario**. Secondo Franco Venturini (vedi Il Corriere della Sera di oggi) l’orologio si è messo a correre sul fronte libico e l’Italia non deve perdere il treno, anche perché tutti i Paesi della coalizione anti-Isis le riconoscono una leadership naturale nell’ex colonia africana. Bisogna rendere operativa ed efficace questa leadership, prima che sia troppo tardi. Ne va, conclude Venturini, del successo o dell’insuccesso della politica estera italiana. Ecco, per me si tratta innanzitutto di opporsi agli interessi dell’imperialismo italiano in Libia e ovunque, ossia di contrastare la politica estera italiana – anche quella praticata da sempre dall’Eni.

Anche io sono contro la Nato (a tal riguardo posso “vantare” diverse manifestazioni e molti “campeggi antimilitaristi”, a partire da Comiso 1983), ma non certo nella prospettiva ultrareazionaria, quanto chimerica, di un’Italia «sovrana e indipendente» –  e magari pure “socialista”, come dicevano un tempo gli stalinisti d’ogni tendenza che egemonizzavano l’evocato movimento dei Partigiani della pace.

Scrive Fulvio Grimaldi: «Molte guerre vengono dimenticate: Jugoslavia, Afghanistan, Ucraina, le aggressioni israeliane a Libano e Gaza, addirittura qualcuno s’è scordato della Siria. La nonviolenza assurta a imperativo categorico e dogmatico getta indecenti ombre sulla resistenza di popolo in Siria, Iraq, ovunque si eserciti la criminalità imperialista». Anche qui è d’uopo la maliziosa domanda: Russia e Cina sono escluse dalla «criminalità imperialista»? E poi, che cosa si intende esattamente per resistenza del popolo siriano? Si allude forse al regime, supportato da Russia e Iran, del macellaio di Damasco, in arte Bashar al-Assad? In caso di risposta affermativa, l’allusione non sarebbe indecente ma escrementizia. A volte occorre abbandonare ogni eufemismo e ogni accortezza diplomatica.

* In questi giorni diventa operativa in Cina la “Legge Antiterrorista” emanata il 28 dicembre dall’Assemblea Popolare Nazionale, che prevede, fra l’altro, la possibilità per Pechino di inviare forze speciali in Siria per combattere lo Stato Islamico e le altre «organizzazioni terroristiche» (cioè tutti gli oppositori di al-Assad?). L’obiettivo è, secondo l’agenzia di regime Xinhua, quello di salvaguardare la sicurezza mondiale compromessa dai numerosi attentati in diverse parti del mondo. Non c’è dubbio: con L’esercito Popolare di Liberazione in giro per il mondo la “pace” è più sicura. Inutile dire che gli Stati Uniti non gradiscono nemmeno un poco l’attivismo “antiterroristico” cinese in Medio oriente: essi pretendono di operare in regime di monopolio in materia di “lotta al terrorismo”. Che pretese!

** Quando parlo di Imperialismo unitario intendo riferirmi al sistema mondiale dell’imperialismo, o, detto in altri e più “dinamici” termini, alla competizione capitalistico-imperialista per il potere (economico, scientifico, tecnologico, ideologico, militare, in una sola parola: sociale) che nel XXI secolo vede la partecipazione agonistica di alleanze politico-militari grandi e piccole, internazionali e regionali, di Paesi grandi e piccoli, di multinazionali grandi e piccole, di aree continentali in reciproca competizione sistemica, di gruppi politici ed economici anche “non convenzionali”, ossia non riconducibili immediatamente agli Stati nazionali e alle istituzioni economico-finanziarie “tradizionali”. Per quanto riguarda quest’ultimo aspetto, assai significativi mi appaiono i passi che seguono tratti dal saggio La funzione rivoluzionaria del diritto e lo stato scritto dal bolscevico Pëtr Ivanovic Stučka nel 1921: «Circa la sfera che il diritto abbraccia si ritiene che l’obiezione più pericolosa [al punto di vista classista-rivoluzionario] sia quella relativa al diritto internazionale. Vedremo però che il diritto internazionale – in quanto è in generale diritto – è pienamente conforme alla nostra definizione; e su ciò l’imperialismo contemporaneo, e particolarmente la guerra mondiale e le sue conseguenze, ha fatto aprire gli occhi a tutti. Noi parliamo infatti di un’autorità organizzata da una classe, senza denominarla Stato, proprio per abbracciare una sfera giuridica più larga» (in Teorie sovietiche del diritto, pp. 16-17, Giuffrè, 1964).

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