ULTERIORI RIFLESSIONI SULLA BREXIT

churchill__700Allo scozzese Angus Deaton, docente a Princeton e Nobel per l’economia nel 2015, la Brexit non va proprio giù: «Quello che non riesco a spiegarmi, che non mi dà pace, è che a favore della conservazione più retriva, da Farage a Trump, si siano schierate le fasce più svantaggiate, dagli abitanti di Tower Hamlets, il distretto degli immigrati di Londra dove il 30% dei bambini vive sotto la soglia di povertà, a quelli di Sunderland, una cittadina che grazie alla globalizzazione vive quasi esclusivamente in virtù di una fabbrica della Honda» (La Repubblica). Eppure non è poi così difficile capire perché proprio fra gli strati sociali più esposti alle intemperie della globalizzazione capitalistica e della crisi, due facce della stessa medaglia, più facilmente si insinua il veleno del nazionalismo e l’illusione del pezzo di pane e della minestra calda assicurata tutti i giorni dal Leviatano. Scrivevo giusto un anno fa: «In effetti, ciò che spontaneamente conquista i cuori dei salariati, i quali sono abituati a delegare sempre ad altri (dalla culla alla tomba, passando per scuole, uffici, ospedali, ecc.) le decisioni fondamentali che li riguardano, è un maligno connubio di nazionalismo e statalismo, ossia il desiderio di vivere un’esistenza magari modesta ma sicura e protetta nel seno del Paese che li ospita fin dalla nascita, cioè a dire nella società capitalistica concepita come la sola comunità possibile. Questa condizione disumana mi ricorda i passi di Furore(J.Steinbeck, 1939) a proposito del carcere McAlester: «”E come ti trattavano a McAlester?” chiese Casy. “Mica male. Pasti regolari, biancheria di ricambio, ci sono perfino dei locali per fare il bagno. Per certi versi non si sta malaccio. L’unica cosa, si sente la mancanza di donne”. Scoppiò a ridere. “Ho conosciuto uno, anche lui in libertà vigilata, che s’è fatto rificcar dentro. […] Aveva deciso di rientrar dentro dove almeno non c’era il rischio di saltare i pasti e dove c’erano anche certe comodità. Disse che fuori di lì si sentiva sperduto, dovendo oltretutto pensare sempre al domani”». Soprattutto per i dominati vale sempre e immancabilmente il noto detto: del domani non c’è certezza!

L’invito marxiano a unirsi rivolto ai proletari di tutto il mondo non aveva – e non ha – nulla di ideologico; esso prende atto piuttosto della dimensione necessariamente antagonista e mondiale del Capitalismo, la cui natura concorrenziale investe anche i lavoratori. Scriveva Engels nel 1845: «Il potere della borghesia poggia unicamente sulla concorrenza degli operai tra di loro, cioè sulla divisione del proletariato e sul reciproco contrapporsi di singoli gruppi di operai. […] La concorrenza è l’espressione più completa della guerra di tutti contro tutti, che domina tutta la moderna società borghese» (La situazione della classe operaia in Inghilterra). Come avevano già capito gli autori del Manifesto del 1847, solo se conquista un punto di vista radicalmente rivoluzionario la classe dei senza riserve si trasforma in un soggetto sociale capace di produrre nuova storia portando l’intera umanità fuori dalla disumana dimensione classista. Viceversa, quella classe è tale solo in senso economico-sociologico, e rimane oggetto/ostaggio del dominio capitalistico. Da questa prospettiva radicalmente anticapitalista appaiono politicamente miserabili tanto coloro che esaltano, non importa se “da destra” o “da sinistra”, «la libera volontà del popolo», soprattutto quando si tratta di “democrazia diretta” (com’è il caso di specie: «Il popolo britannico ha parlato!»), quanto chi ne denuncia invece l’incapacità di offrire alla società complessa del XXI secolo scelte appropriate su questioni di fondamentale importanza: «Paghiamo politici e scienziati proprio perché essi risolvano problemi complessi». “Populismo” e “antipopulismo” sono le due facce della stessa escrementizia medaglia appesa al collo dell’impotenza sociale dei dominati.

Continua Deaton: «Sono i ricchi a fare le leggi, a loro beneficio». In regime capitalistico comandano i capitalisti: che scandalo! Come si permettono?! «Si innescano reazioni a catena, e la stessa democrazia finisce col soffrirne perché si diffonde la sensazione che il proprio voto non conti nulla per modificare la situazione». La «sensazione», certo… Scrive a tal proposito Alessandro Pansa: «Investitori e azionisti possono “votare” ogni giorno, spostando capitali e vendendo azioni. Gli elettori invece decidono solo quando vengono chiamati a farlo» (Limes). In effetti, ogni tot anni ai subalterni viene gentilmente concesso il privilegio di scegliere l’albero a cui desiderano impiccarsi, la frusta da cui preferiscono farsi accarezzare, i funzionari della classe dominante a cui concedere il loro consenso in cambio di una vita sicura e tranquilla. Sicura? Tranquilla? Si spera! Si spera anche che la frusta sia onesta, perché c’è più gusto nel farsi maltrattare da un padrone che non ruba!

È questa la democrazia, bellezza, e tu non puoi farci niente, salvo infiocchettare pie quanto risibili illusioni circa la “vera libertà di scelta”: nella società classista la cosiddetta libertà di scelta ha molto a che fare con i confini di un carcere. Il metodo democratico nasconde in modo eccellente questa realtà, salvo entrare in crisi quando le potenze capitalistiche che modellano e rimodellano sempre di nuovo l’edificio sociale rendono evidente l’impotenza strutturale del “gioco democratico”. A quel punto inizia il pianto greco sulla democrazia andata a male, sulla politica che lascia sempre più l’iniziativa nelle mani delle “oscure forze del mercato”, e così via; entrano quindi in scena i paladini della “volontà popolare”, la quale ha sempre ragione (come il cliente), e i salvatori della democrazia liberale/occidentale, la quale non può fare a meno della mediazione politica e dei “corpi intermedi” – partiti, sindacati, associazionismo di vario genere prodotto dalla mitica “società civile”. “Populisti” e “antipopulisti” naturalmente ritengono di possedere in esclusiva la ricetta giusta per salvare la democrazia e la politica.

Ma ritorniamo al nostro premio Nobel: «Se a dominare il quadro restano i ricchi, finisce che lo stesso welfare state ne soffre perché ai ricchi non interessa la copertura assicurativa pubblica». Come si permettono i ricchi di difendere la loro invidiabile – e invidiata – ricchezza? Quasi mi indigno, quasi, giusto un poco. «Il pericolo è quello di tornare a un’Europa divisa e preda dei nazionalismi come all’inizio del Novecento. Roba da rabbrividire. Stiamo qui a parlare di scenari di guerra, mentre l’Europa è nata dalla pace e per la pace». Sbagliato! L’Europa è nata dalla guerra, e precisamente dal Secondo macello mondiale (per non parlare del Primo): sono stati soprattutto gli americani ad avere imposto all’Occidente – e al Giappone – la “pace” e la democrazia. Grazie alla “protezione dell’ombrello militare degli Stati Uniti l’Europa occidentale ha potuto costruire il falso mito della Potenza pacifica e pacifista, meritandosi il giusto disprezzo dei geopolitici americani di orientamento “realista”: «Nei circoli strategici americani si dice con cinismo che gli europei si godono da sessant’anni un viaggio gratis sotto l’ombrello difensivo degli stati uniti» (R. Kagan, Paradiso e potere). Kagan riconosce però almeno un grande merito al progetto di integrazione europea: «Aver integrata e ammansita la Germania è stata la più grande conquista dell’Europa». Cosa che ci riporta al post che ho pubblicato l’altro giorno.

Naturalmente Deaton, che ci tiene a sbandierare la sua simpatia per Thomas Piketty, il teorico del «capitalismo patrimoniale», non è contrario, in linea di principio, alla globalizzazione, tutt’altro, perché «La globalizzazione sana è un’altra cosa: dovrebbe preoccuparsi di diffondere sia infrastrutture di base come autostrade o linee telefoniche, che conoscenza e formazione. È un vero prendersi cura con partecipazione delle vicende del resto del mondo, anche le più imbarazzanti. E non lasciare che il destino degli individui sia affidato al caso. Finché la vita offrirà opportunità o fortune che non tutti possono afferrare, il progresso creerà fatalmente diseguaglianze, e non distribuirà equamente la possibilità di vivere a lungo con tranquillità. E altrettanto imperfetta sarà la globalizzazione». Ora, c’è da stupirsi se dinanzi alla favola della «globalizzazione sana», che tanto piace a certa intellighentia di “sinistra” (anche “radicale”), i maltrattati dalla «globalizzazione malata» “scelgono” di giocare la carta (ovviamente perdente) sovranista/nazionalista/razzista?

Agli anticapitalisti spetta insomma il compito di affermare nella società l’idea che il Capitalismo (chiamato anche “globalizzazione”, o “liberismo selvaggio”, “neoliberismo”, “finanzcapitalismo” e così via) non è né buono né cattivo, ma semplicemente disumano, per intima e ineliminabile necessità. Vasto e impegnativo programma, me ne rendo conto; ma al momento difetto di fantasia.

Leggi anche:
BREXIT OR NOT BREXIT? MA È POI QUESTO IL PROBLEMA?

3 pensieri su “ULTERIORI RIFLESSIONI SULLA BREXIT

  1. Scriveva qualche giorno fa M. L. su Facebook:

    «SPECULARITÀ. Ma sapreste davvero spiegare – a voi stessi e agli altri – perché adesso provate tutto questo astio nei confronti dell'”Inghilterra”? A proposito: ce l’avete con “l’Inghilterra” o con gli “inglesi”? Sapete cosa hanno fatto? Sapete cosa VI hanno fatto? Lo sapreste dire? Già, perché vi sentite “europei”? Sapete cos’è l’Unione Europea? E cos’è l’Europa lo sapete? Lo sapreste dire con parole vostre?
    Una porta blindata, le telecamere in ogni stanza, l’antifurto assordante e quel grosso cane che vi gira per casa, vi servono a tenere a bada quel cafone ignorante e mediocre del vostro dirimpettaio che vorrebbe far mettere il ripetitore Vodafone sul tetto condominiale. E voi lì, davanti ai vostri display, a reclamare le aperture delle frontiere.
    A parte la nausea, ho la netta sensazione che il vostro improvviso slancio europeista sia rozzo, digiuno e impolitico quanto il “LEAVE” degli inglesi di cui criticate l’imbecillità».
    Condivido.

  2. Già, il dilemma Euroborghese è questo “Can’t live with EU, can’t live without EU!” Quanto ne siamo contenti, eh? È proprio come dici tu, la gente non cerca la liberazione, cerca qualcuno onesto da cui essere comandata. Dato che chi cerca prima o poi trova, la cosa è piuttosto raccapricciante!! Però, alla fine viene [quasi?] da arrendersi nel rendersi conto che il mondo borghese, soprattutto piccolo-borghese, è così maledettamente mediocre e miserabile che le più alte vette si raggiungono attraverso il marketing. Alte vette? O abisso dell’umana specie? E lo dice uno che lavora nel marketing. Mi viene perfino da ridere di me stesso che pongo certe domande. Non di solo Rock and Roll vive l’uomo, ma anche di buon vino! Talvolta ci vuole!!
    Buona EXIT a tutti dal Dominio Sociale.
    Saluti
    Bob

    • «Can’t live with EU, can’t live without EU!»: hai sintetizzato come meglio non si potrebbe il «dilemma Euroborghese». Che poi si può generalizzare come segue: «Non posso vivere con il Capitalismo, non posso vivere senza Capitalismo!». E andare oltre la dimensione capitalistica e classista? «Basta con queste infantili quanto fallite utopie!» Ma… Lasciamo perdere, oggi fa troppo caldo in Africa. Sì, per fortuna ci rimane il Rock and Roll e il buon vino. Questa sera il nero liquido andrà assunto freddo alquanto, almeno dalle mie parti. Ciao Bob!

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