EQUILIBRIO PRECARIO…

390042-553x194Non c’è niente da fare: «È inutile portare il cavallo al fiume se non vuole bere». Ma anche: «Adattando una metafora di Joseph Schumpeter, se uno è stato investito da un camion, non è che torni in salute quando il camion si ferma» (F. Galimberti, Il Sole 24 Ore). Detto altrimenti, il Quantitative Easing, cioè il programma di acquisti di titoli da parte della BCE per dotare le aziende dei capitali necessari per investire nella cosiddetta economia reale, non sta funzionando.

Ieri il Centro studi di Confindustria ha reso pubblico il suo annuale report sullo stato di salute dell’economia italiana, e il quadro impietoso che ne vien fuori è quello di un malato ancora assai lontano dalla guarigione. Dopo il «quindicennio perduto», dopo il «troppo tempo sprecato, non riusciamo a schiodarci dalla malattia della bassa crescita di cui soffriamo dall’inizio degli anni Duemila»; ai ritmi attuali di “sviluppo”, «l’appuntamento con i livelli di crescita lasciati nel 2007 è rinviato al 2028». Non solo l’economia italiana cresce a ritmi anoressici (0,7 quest’anno, 0,5 nel 2017), ma per quanto misero l’incremento pronosticato è tutt’altro che scontato: la crescita attesa per il 2017 «non è scontata, va conquistata». Tra i maggiori ostacoli che impediscono lo slancio del Pil, Confindustria elenca «il credito, la cui contrazione sta proseguendo, l’edilizia ancora in stallo, la minore competitività dovuta allo sganciamento del costo del lavoro dalla produttività» – insomma, il “capitale umano” è sfruttato male. La terapia confindustriale è quella di sempre: “riforme strutturali” e aumento della produttività nelle imprese private e nel Pubblico Impiego. Di qui, per l’associazione padronale, la necessità di non compromettere ancora una volta la stabilità politica del Paese. Insomma, la riforma costituzionale promossa dal Premier deve riscuotere il più ampio consenso del gregge referendario quando esso verrà portato alle urne.

Se la crescita economica langue, in compenso il debito pubblico fa registrare un nuovo record, nonostante l’alleggerimento del servizio del debito reso possibile dalla discesa degli interessi: la Banca d’Italia ha fatto sapere ieri che a luglio il debito delle Amministrazioni pubbliche si è attestato a 2.252,2 miliardi, in aumento di 3,4 miliardi rispetto a giugno.

Ma è l’economia della zona euro considerata nel suo complesso a non decidersi di decollare – con la solita eccezione tedesca che vedremo tra poco. A fronte dei 1.070 miliardi di euro (circa un settimo dei bond pubblici dell’area Euro) iniettati nel sistema finanziario europeo, gli impieghi bancari a favore delle imprese non finanziarie sono saliti solo dello 0,5%: un dato davvero sconfortante per i medici che da otto anni si stringono al capezzale dell’acciaccato cavallo europeo nel tentativo, fin qui dimostratosi abbastanza vano, di trovare la ricetta giusta per salvare la povera bestia da un esito che si annuncia infausto, e farlo ritornare a correre in un mondo sempre più competitivo e pieno di ostacoli, non solo di natura economica. D’altra parte, l’esperienza giapponese sul QE (diventato QQE nel 2013), un’esperienza a dir poco deludente (soprattutto se si considera che la Banca Centrale Giapponese ha stampato moneta per un ammontare pari a circa il 60% del Pil nipponico!), avrebbe potuto insegnare qualcosa a quei medici. Invece niente. Forse essi hanno prestato orecchio solo a Haruhiko Kuroda, il Governatore della BOJ definitosi, forse con involontaria ironia, «una delle persone più qualificate al mondo per parlare di tassi a zero». Scrive Maurizio Sgroi: «Il recente outlook della banca centrale giapponese, conferma che per quanto l’economia mostri di rianimarsi, la ripresa rimane lenta ed esposta a rischi. Un tabella mostra con chiarezza che, malgrado tutto, i prezzi saranno freddi almeno fino al 2017 e la ripresa sarà ancora stentata ed esposta a rischi al ribasso. Insomma, oltre quindici anni di queste politiche non sono serviti a instradare il paese lungo un percorso di crescita sostenuto. […] Insomma, oltre quindici anni di queste politiche non sono serviti a instradare il paese lungo un percorso di crescita sostenuto. Kuroda glissa elegantemente su un’altra conseguenza della sua politica. Il bilancio della banca centrale si è espanso almeno quanto è cresciuto nel frattempo il debito pubblico. Quest’ultimo corre verso il 230% del Pil dal 170% del 2007. E tutto ciò non è bastato né a far salire davvero l’inflazione né a far ripartire davvero la crescita. Rimane la domanda su cosa ne sarà di questo monte Fuji di debiti. […] Dal che deduco che il Giappone, malgrado la sua quasi ventennale esperienza, è ancora convinto che dalla politica monetaria, che ha generato una trappola della liquidità, possa originarsi una via d’uscita. Come se il “male” possa generare la sua cura. E forse è questo pensiero la trappola peggiore nella quale poteva finire il Giappone, ormai in buona compagnia. L’Europa e il resto dell’Occidente, infatti, stanno sperimentando la “trappola giapponese” già da qualche anno. E sono solo all’inizio» (Il Sole 24 Ore, 4 febbraio 2016). Sulla società giapponese rimando al post Dal secolo giapponese al tramonto del Sol Levante. In attesa di una nuova Alba?

Quando, nel gennaio dello scorso anno, il Presidente della BCE Mario Draghi lanciò il programma QE in una’atmosfera da ultima spiaggia che gli conferiva l’aspetto del profeta, del Santo capace di miracoli, alcuni economisti e pochi giornalisti economici ancora in grado di ragionare “laicamente” provarono a dire qualcosa di intelligente. «Qualunque sarà la formula», scriveva ad esempio Xavier Sala i Martin, docente alla Columbia University, l’effetto del quantitative easing sarà pressoché nullo. I tassi di interesse sono già bassi e l’effetto psicologico è stato già assorbito. In più in Europa la liquidità è già fin troppo abbondante. Le banche sono piene di soldi che non sono in grado di impiegare perché non ci sono in giro progetti di qualità da finanziare. Il problema dell’Europa non è quindi la liquidità, la sua è una crisi da mancati investimenti. Da anni ormai non ci sono investimenti, né privati né pubblici» (La Repubblica, 22/1 2015). Il Wall Street Journal, da parte sua, criticava una politica pro-crescita economica affidata alla svalutazione competitiva dell’euro: Draghi fa bene a ripetere che dalla crisi l’Europa esce solo se implementa le riforme strutturali, ma il suo ambizioso programma di Quantitative Easing  potrebbe sortire proprio l’effetto di allontanare nel tempo quelle  riforme. E, come dimostra il Giappone, senza riforme strutturali (nel mercato del lavoro, nella fiscalità orientata alle imprese, nel Welfare, ecc.) il QE ha un respiro corto, a volte cortissimo. Si droga il malato senza guarirlo, anzi rinviandone la guarigione e quindi debilitandolo ulteriormente. Così il WSJ (in una mia sintesi) del 22 gennaio 2015. Certo, si può sempre dire che senza le iniezioni monetarie il paziente sarebbe già morto, che le cose sarebbero andate ancora peggio, mentre oggi ci troviamo a fare i conti con un’economia debole e acciaccata ma comunque ancora in vita; come sempre, la realtà si presta a diverse letture.  In ogni caso, «l’azione intelligente e prudente» di Mario Draghi è ancora da molti europeisti considerata come «l’ultima trincea che ci separa dall’abisso» (El País, 13 settembre 2016). È sufficiente leggere il testo della lectio magistralis tenuta a Trento da “Super Mario” lo scorso 12 settembre per capire il perché di questa alta opinione: «Il senso di abbandono provato da molti non deve sorprendere. L’ansia è crescente. Le risposte politiche a essa date talvolta richiamano alla memoria il periodo tra le due guerre: isolazionismo, protezionismo, nazionalismo. Era già successo in passato». Conclusione: solo una vera e più forte integrazione, non solo economico-finanziaria, dei Paesi europei può salvare il “sogno europeo” di De Gasperi, Monet  e Adenauer dal definitivo naufragio. Insomma, l’abisso è dietro l’angolo, e per fortuna Draghi c’è, soprattutto dopo il terremoto chiamato Brexit.

Sull’uscita della Gran Bretagna dall’Unione, l’ex segretario del PD ha dichiarato (trattasi di una mia libera traduzione dal bersanese): «Prima della Brexit il Regno Unito stava con un piede dentro e un piede fuori dall’Unione Europea; dopo starà con un piede fuori e un piede dentro. In Europa si troverà un accordo, un accomodamento che soddisfi tutte le parti, come sempre. Se non è zuppa, è pan bagnato». Può anche darsi che le cose stiano davvero in questi termini, e molto dipenderà ovviamente da come evolverà la relazione speciale che lega il Regno Uniti agli Stati Uniti. Anche il rinnovato dibattito intorno alla possibilità/necessità di un’Unione a “due velocità” o a “cerchi concentrici” (con un euro forte e un euro debole), in qualche modo mostra il riposizionamento dei Paesi europei nel nuovo scenario creato dalla Brexit. Lo stesso Joseph Stiglitz, certamente non tenero nei confronti della moneta unica europea, nel suo ultimo libro si è detto favorevole al doppio standard monetario, suscitando l’indignazione dei suoi colleghi europei schierati sul fronte del ritorno alle divise nazionali. Vedremo. Intanto, mentre il Presidente della Commissione Europea Junker confessa che «l’Europa attraversa una crisi esistenziale» (ma va?), Draghi ribadisce le sue convinzioni sulla natura politica della costruzione europea: «La sovranità nazionale resta in molti aspetti l’elemento fondamentale di ciascun governo. Ma per le sfide che trascendono i confini nazionali, l’unico modo per difendere la sovranità è che noi Europei la condividiamo all’interno dell’Ue». Balsamo sopra le ferite degli europeisti, aceto sugli occhi dei sovranisti d’ogni tendenza politico-ideologica.

Nonostante l’alta liquidità, i rendimenti negativi imposti agli istituti bancari e il basso prezzo delle materie prime (oro nero, in primis), il cavallo europeo si ostina dunque a rifiutare l’acqua: perché? Intanto teniamo in considerazione il dato che segue: il trend di crescita del mercato mondiale continua a contrarsi: dal + 6/7% degli anni scorsi siamo passati a un assai più modesto + 3%. «Fino al 2010 il Pil mondiale cresceva intorno al 5% l’anno, mentre da anni galleggia ormai poco sopra il 3%. Secondo i dati del CPB World Trade Indexes le esportazioni mondiali nel 2015 e nel 2016 sono cresciute di appena l’1,1% contro il 5,7% medio annuo dei 5 anni precedenti. […] Le aziende investono poco, le famiglie consumano poco, gli Stati incentivano poco» (Il Sole 24 Ore, 7 settembre 2016). Come spiegare questa pochezza economica che si avvita su se stessa realizzando una serie di circoli viziosi che certo non incentivano gli investimenti produttivi, mentre fertilizzano il terreno della speculazione finanziaria? Una cosa possiamo già affermare con certezza: la “politica” dei bassi salari e la sempre più spinta precarizzazione del lavoro non incoraggiano il consumo delle famiglie, e non solo di quelle proletarie, come attesta la decomposizione sociale di molti strati della piccola e della media borghesia. Lo so, si tratta di una banalità, ma è bene non tacerla! Tra l’altro, l’eccezionale livello di concentrazione della ricchezza («la ricchezza a un polo, la miseria al polo opposto», diceva Quello), fa sì che l’impatto sul livello dei prezzi del QE sia pressoché nullo, tanto più quando chi detiene la tanto agognata “liquidità” non trova motivi più che validi per spenderla produttivamente. In queste condizioni, il liquido raffredda i prezzi, alimentando l’ossessione antinflazionistica. Gli economisti cattedratici sono così costretti a osservare uno spettacolo a cui forse pensavano di non poter assistere mai: la deflazione nel pieno di un’orgia monetaria. Dopo la stagflazione degli anni Settanta, ecco dunque l’ancor più scabrosa e insidiosa stagdeflazione di questi critici anni, anni che non a caso hanno prodotto la tesi della stagnazione secolare – tesi che aleggia anche nei grafici presentati ieri dal Centro studi di Confindustria, e che è citata espressamente nel rapporto pubblicato l’anno scorso.

Detto en passant, esiste un legame strettissimo tra la crescita delle attività finanziarie speculative (*), incoraggiate dal declino delle opportunità di profitto nella cosiddetta economia reale, e il peggioramento delle condizioni di lavoro e di esistenza dei lavoratori, chiamati a generare plusvalore (materia prima dei profitti d’ogni tipo) in un contesto che vede appunto declinare le attività in grado di rendere possibile la creazione del plusvalore. Su una base industriale-commerciale sempre – relativamente – più ristretta si erge una costruzione finanziaria sempre più imponente. Dietro ai mercati, infatti, c’è una montagna globale di debiti, pubblici e privati, aumentata di circa 60 mila miliardi negli ultimi otto anni. E cresciuta del 18% rispetto al Pil. Il debito globale era di circa 150 mila miliardi a inizio crisi. Oggi siamo non lontani dal 290% del Pil mondiale, contro il 269% nel 2007» (M. Maggiorco, Lettera43, 6 gennaio 2016). Si comprende bene come la catastrofe sia potenzialmente sempre dietro l’angolo, e come basti una piccola scossa di terremoto, anche in una zona periferica del sistema, per innescare l’effetto domino del crollo. Se consideriamo questa dinamica – o circolo vizioso – su scala mondiale, la sola dimensione che oggi conta, facilmente capiamo il livello dello scontro in atto fra capitali (reali e fittizi, industriali/commerciali e finanziari) per la spartizione del plusvalore mondiale, e fra i lavoratori delle diverse aree del pianeta, messi in brutale concorrenza dal Moloch sociale.

Scrive Andrea Lodi riflettendo sull’immane bolla finanziaria che sovrasta l’intera economia mondiale: «Il 24 ottobre del 1929 molti americani si svegliarono con un’amara sorpresa: il mondo di carta costruito dagli avventurieri della finanza americana era crollato. Le speranze riposte in un crescente, ma a quanto pare illusorio, benessere diffuso si dissolsero nel nulla. L’economia reale si pensava dettasse le regole della distribuzione della ricchezza. Ma ci si sbagliava. È trascorso quasi un secolo da quel “giovedì nero”, ma pare che le cose non siano cambiate. Pensavamo che la lezione della “grande crisi” fosse servita. Ma ci sbagliavamo. Pensavamo di vivere in un mondo reale dove l’economia rispondesse in modo adeguato e coerente, per l’appunto, all’aggettivo “reale” che sempre meno di frequente, purtroppo, le viene attribuito. Pensavamo che il valore della ricchezza prodotta dal lavoro di ogni singolo cittadino non dipendesse più da un presunto, e speculativo, valore proveniente dalle irreali fluttuazioni del mercato borsistico azionario. Ma ci sbagliavamo» (Economix, 29 maggio 2016). Il 24 ottobre 2016 è ormai alle porte e tocca quindi fare gli scongiuri… L’errore più grave e radicato nell’opinione comune è quello di pretendere comportamenti razionali, prevedibili e soprattutto orientati in senso umano da un’economia che ha nella ricerca del massimo profitto la sua stessa ragion d’essere. Il Capitale va dove lo porta il profitto, non il cuore, e non si tratta di cattiveria, ma di necessità. Ma riandiamo alla fenomenologia del processo sociale qui preso in esame.

Bisogna considerare anche la banalità che segue: non tutti i cavalli in Europa sono uguali! Sì, alludo al “Fronte del Nord” e al “Fronte del Sud” – a cui i patetici Hollande, Renzi e Tsipras vorrebbero dare una più corposa, coerente e coordinata espressione politica. Intanto c’è l’ottimo dato sulle partite correnti fatto registrare dalla Germania trimestre dopo trimestre, soprattutto grazie alle esportazioni, e che a fine anno dovrebbe dare un surplus di circa 310 miliardi di dollari. Non male, anche in rapporto alla Cina, negli anni scorsi campione assoluto di export e di surplus ma che oggi fa registrare performance più modeste. «L’economista dell’Ifo Christian Grimme ha spiegato che il surplus tedesco è dato dal commercio in beni: nella prima metà dell’anno, le esportazioni sono state superiori alle importazioni per 159 miliardi di dollari. Riportato ai 12 mesi del 2016, fa prevedere che si arriverà a 310 miliardi di dollari, l’8,9% del Pil tedesco. È una quota enorme, che eccede per l’ennesima volta il limite massimo del 6% raccomandato dalla Commissione Ue. L’eccesso, infatti, è considerato negativo: se da un lato è il risultato della forza competitiva dell’industria tedesca, dall’altro crea sbilanci considerevoli» (D. Taini, Corriere della Sera, 12 settembre 2016). Per parare i soliti piagnistei del “Fronte Sud” e smorzare le critiche degli economisti americani nemici dell’euro (tipo Joseph Stiglitz e Paul Krugman), Draghi ha dichiarato che non si può chiedere a un Paese di essere meno competitivo per ciò che concerne l’export. No, non sarebbe serio, decisamente. Giusto due anni fa, il patetico Renato Brunetta dall’alto della sua scienza economica intimò alla Cancelliera di Ferro di azzoppare la troppo competitiva economia tedesca implementando rapidamente un vasto programma di reflazione: «La Germania deve reflazionare per cause di forza maggiore, cioè per rispondere alle segnalazioni ricevute dall’Europa a causa dell’eccessivo surplus della bilancia dei pagamenti, ossia di una netta prevalenza delle esportazioni sulle importazioni» (Libero, 7 luglio 2014). Si è visto in quale considerazione il governo di Berlino tenga simili stravaganti idee.

Sopra accennavo alla contrazione nel trend di crescita del mercato mondiale. Come sempre, bisogna considerare la dimensione ineguale dello sviluppo capitalistico, la quale muta aspetto nel tempo e non può essere separata chirurgicamente dalla dimensione geopolitica, anch’essa mai fissa, mai definitiva. È da questa prospettiva concettuale che a mio avviso occorre approcciare i dati offerti all’analisi dal processo sociale.

«Gli investimenti restano al palo, i consumatori alla finestra in attesa di tempi migliori. In più rallentano alcune economie emergenti e quelle mature non hanno ripreso a correre. Ne deriva una crescita mondiale per il 2016 che, secondo l’Ocse, si attesterà al 3%, sui livelli dell’anno passato. Gli Stati Uniti cresceranno dell’1,8%, il Regno Unito dell’1,7%, l’Eurozona dell’1,6 per cento. L’Italia accelererà appena, con un +1% annuo, destinato a salire all’1,4% nel 2017. Anno nel quale l’Organizzazione mondiale per la cooperazione e lo sviluppo non si attende molto di meglio. […] Inoltre, nel capitolo dedicato al nostro Paese, si legge che la disoccupazione in Italia continuerà a calare, dall’11,9% nel 2015 all’11,3% nel 2016 e al 10,8% nel 2017, ma “bisogna fare di più per aumentare produttività e inclusione”» (eunews). L’industria italiana più orientata all’export esce con le ossa rotte dalla lunga crisi economica internazionale, se si fa eccezione per pochi comparti, come quello della cantieristica delle navi da crociera, dove l’Italia «è addirittura in prima linea nella produzione occidentale. Ma si tratta, evidentemente, di un’eccezione, perché il sistema industriale del nostro Paese arranca persino in quello che potrebbe essere un fiore all’occhiello: l’agroalimentare. Un ritardo che brucia ancora di più considerando che il food è ormai, al netto della Germania, il comparto industriale principale per ognuno dei maggiori Paesi europei: ebbene, l’Italia è preceduta in termini di valore della produzione da Regno Unito (17,9 miliardi di euro), Olanda (9,2) e dalla stessa Germania (26). In Italia pesa, evidentemente, l’annosa questione delle dimensioni aziendali (mancano i campioni nazionali e molti marchi sono passati a proprietà estere), oltre che il più generale processo di deindustrializzazione del Paese» (M. Patucchi, La Repubblica, 18 giugno 2016).

Nonostante rallentamenti e momentanee battute d’arresto, l’Asia nel suo complesso si conferma essere l’area economica più dinamica e in crescita del pianeta, e comunque quella che più delle altre macro-aree è in grado di influenzare, se non di determinare, l’andamento dell’economia mondiale. Mentre gli Stati Uniti marciano a un ritmo di crescita del 2,5/2,7%, e la zona euro si deve accontentare, diciamo così, di uno striminzito 1,5/1,7%, gran parte dei Paesi asiatici mantiene il precedente robusto trend di crescita: 7/6,7% per la Cina, 7,3% per l’India, 6,3% per l’Asia dell’Est e il Pacifico, 7,3% per l’Asia del Sud. L’economia della Russia registra un leggero miglioramento, ma è ancora lontana da un’inversione di tendenza, anche perché il prezzo delle materie prime si mantiene pericolosamente basso. Pericolosamente, beninteso, per una società capitalistica che fa eccessivo affidamento sulla vendita delle materie prime, il cui prezzo sul mercato mondiale influenza perfino il suo “welfare”.

Per quanto riguarda la Cina non bisogna sottovalutare due aspetti, che invece trovano scarsa considerazione in quasi tutte le analisi centrate sulla sua economia: il forte indebitamento delle imprese private (il debito totale cinese è stimato intorno ai 25.000 miliardi di dollari), che si attesta su cifre paragonabili a quelle dell’indebitamento privato statunitense; la fuga di capitali dal Paese, che in parte si indirizzano verso quei Paesi asiatici che offrono più allettanti occasioni di profitto grazie a un bassissimo costo del lavoro (**), e in parte rientrano nei Paesi di partenza: Stati Uniti, Germania e Inghilterra. Anche la relativa debolezza del sistema creditizio cinese, gravato da una montagna di debiti ritenuti ormai inesigibili, è da tenere sotto osservazione. Per oggi può bastare.

 

* «La più sintetica fotografia del nostro tempo difficile è nel rapporto tra due numeri, nella cui gigantesca differenza si annidano gran parte dei pericoli che ci minacciano. Il primo è 75 bilioni di dollari, 75 mila miliardi, l’ammontare del prodotto lordo mondiale nel 2013. Il secondo è 993 bilioni di dollari, 993 mila miliardi, l’ammontare delle attività finanziarie globali alla fine dello scorso anno. Oggi ambedue i numeri sono già più alti, e quando nei prossimi mesi avremo i dati del 2014 dovremo cominciare a familiarizzarci con un nuovo termine: trilione, fino ad oggi utilizzato solo dagli informatici per contare i bit della capacità di calcolo e dagli astronomi per misurare la distanza tra le stelle. Dal 2015 lo useremo anche in economia per dare un nome a quella inquietante montagna di attività finanziarie che avrà superato il picco del milione di miliardi, un trilione appunto. Il primo motivo per il quale quella montagna ci inquieta, oltre alla sua dimensione, è la dinamica: in dieci anni il prodotto lordo mondiale è raddoppiato mentre il volume delle attività finanziarie è triplicato. Il secondo motivo è la struttura di quella montagna: di quei 993 mila miliardi di dollari solo 283 mila sono finanza primaria, ovvero azioni, obbligazioni e attivi bancari; tutto il resto, 710 mila miliardi di dollari, sono invece prodotti derivati scambiati fuori dai mercati regolamentati, dei quali solo una piccola quota è legata a transazioni» (Marco Panara, Economia & Finanza, 27 ottobre 2014). «”Il mondo non e’ mai stato indebitato come lo è in questo momento”. È l’allarme lanciato dagli analisti di Scotiabank, che ricordano appunto come il livello di indebitamento sia da considerarsi come un forte deterrente della crescita. Guardando ai dati, si evince che l’Italia resta ai vertici dei paesi più indebitati al mondo rispetto al Pil. Secondo l’ultima stima diffusa dalla banca canadese, il nostro paese spicca al terzo posto, alle spalle di Giappone (227,90%) e Grecia (182%), con un rapporto debito Pil al 135,80%. […] Scrivono gli esperti che in molti paesi il debito è cresciuto ad un ritmo molto più veloce della crescita economica. “Tale tendenza è chiaramente insostenibile. Storicamente, un rapido aumento dei livelli di debito in genere si traduce in una crisi finanziaria o in un rallentamento prolungato della crescita del PIL”, e sottolineano che questa situazione è stata portata alle estreme conseguenze dalle politiche monetarie espansive delle banche centrali» (Wall Street Italia, 29 aprile 2016).

(**) «La delocalizzazione che ha fatto la fortuna del Dragone, gli si sta quindi ritorcendo contro? L’effetto boomerang è stato denunciato nei giorni scorsi dal quotidiano China Daily, dopo la nota ufficiale del ministero del Commercio, in cui si legge: “A causa dell’aumento dei salari e della diminuzione delle esportazioni, numerose aziende cinesi si sono trasferite all’estero e molte altre vorrebbero seguirle nel viaggio verso la delocalizzazione”. Il fenomeno per ora coinvolgerebbe almeno un terzo delle aziende del settore, che si stanno spostando in Vietnam, Cambogia, Filippine, Bangladesh, Indonesia e Malesia. Il motivo principale per cui anche gli imprenditori cinesi vogliono andarsene, lasciando senza lavoro decine di milioni di connazionali è la crescita del costo del lavoro a ritmi del 15-20% annui. I margini di guadagno per aziende che producono merci di bassa qualità verranno pertanto sempre più erosi fino a costringerle alla chiusura o delocalizzazione. La conseguenza più grave sarà l’arretramento di buona parte del ceto medio, allargatosi sensibilmente nell’ultimo lustro, cioè la classe sociale che più aveva contribuito a far correre l’enorme mercato interno cinese, entrando a piedi uniti nel mondo dei consumi. A Shenzen, il nucleo produttivo, il salario minimo è stato portato a 1500 yuan (185 euro). In Vietnam, secondo i dati dello scorso anno, un lavoratore percepiva meno della metà. Anche in Cambogia gli stipendi sono ancora inferiori del 75% rispetto a quelli versati ai cinesi. Il sito online cinese Vancl.com, che vende articoli di abbigliamento, ha appena stretto un accordo per un primo lotto di produzione di 30mila camicie con un produttore della provincia di Jiangsu che ha una fabbrica in Bangladesh dove i costi del lavoro sono fino al 30% più bassi. Le prime prove di delocalizzazione, oltre che di business tout court, il Dragone le aveva già fatte nel decennio scorso in tutto il continente africano. In Etiopia, per esempio, una azienda cinese produce scarpe da esportare in Europa e Nord America» (Il Fatto Quotidiano). Sulla presenza del capitale cinese in Africa rinvio al post L’Africa sotto il celeste imperialismo.

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