A CHE PUNTO È L’APOCALISSE NUCLEARE?

Gli analisti di geopolitica più accreditati del pianeta non hanno dubbi: le prime mosse militari di Trump hanno un forte, se non esclusivo, significato politico, tanto in chiave esterna (avvertimento ai cinesi, ai russi, ai siriani, agli jihadisti, ai nord-coreani, agli alleati orientali e occidentali), quanto in chiave interna: «Trump è impegnato in una dura battaglia con gli altri poteri americani, intelligence inclusa, e quindi gioca la carta del comandante in capo per recuperare prestigio e influenza. D’altro canto, l’unico momento in cui un presidente americano è veramente a capo del sistema è durante la guerra» (L. Caracciolo, L’Unità). Come capita spesso, e non solo negli Stati Uniti, mostrare i muscoli porta consenso al Comandante in capo: basti pensare che già dopo l’attacco con 59 missili alla base siriana di al-Shayrat l’indice di gradimento per il Presidente è passato dall’anoressico 34 per cento a un più dignitoso 42. Chissà quanto in alto sarà schizzato quell’indice dopo il propagandistico uso della Madre di tutte le bombe in Afghanistan! A tal proposito, e a dimostrazione che l’imperialismo americano bombarda secondo inappuntabili criteri di umanità e precauzione (altro che il macellaio/chimico di Damasco!), «il portavoce della Casa Bianca Sean Spicer ha sottolineato che nell’azione “sono state prese tutte le precauzioni per evitare vittime civili e danni collaterali”» (ANSA). Queste più che credibili assicurazioni fanno bene al cuore, nevvero?

Per Enrico Oliari il messaggio del Presidente può essere sintetizzato in questi termini: «con lui è “America first”. Anche fuori casa». Esatto. E questo naturalmente in perfetta continuità con la prassi politica (sfera militare inclusa) di quella che rimane la prima potenza imperialistica del pianeta. Sulla falsa alternativa isolazionismo/interventismo nella politica estera americana rimando ai miei post dedicati al tema.

Poteva il virile Putin non reagire alla maschia provocazione trumpista? Certo che no! «L’uso in Afghanistan della potentissima Moab da parte dell’esercito Usa deve aver indispettito i colleghi russi. RT Russia, infatti, sul suo account Twitter si è sentita di puntualizzare che la bomba non nucleare più potente – e molto più “maschia” – è a disposizione dell’arsenale russo. “La Madre di tutte le bombe non spaventa i russi, noi ne abbiamo una ancora più potente: gli americani avrebbero molta più paura del nostro “padre”. La super-bomba russa, precisa il Moscow Times, ha una potenza equivalente a 44 tonnellate di tritolo contro i “soli” 11 di quella Usa – e, a quanto pare, un raggio di distruzione maggiore» (ANSA). Si tratta insomma di una gara a chi possiede l’ordigno più grosso e potente; Madre di tutte le bombe contro Padre di tutte le bombe: qui anche la psicoanalisi freudiana avrebbe forse qualcosa di intelligente da dire, soprattutto a proposito di chi è attratto dalla virile postura dei Cari Leader mondiali dei nostri più che disgraziati tempi.

A proposito di Cari Leader mondiali, c’è da dire che in questi giorni è un vero spasso compulsare i siti sinistrorsi e destrorsi che al momento dell’elezione di Trump avevano brindato, forse un pochino in anticipo sui tempi, all’«alleanza populista» tra gli Stati Uniti e la Russia; oggi vi si nota un certo imbarazzo, per così dire, e certamente molta frustrazione. Secondo certi personaggi rigorosamente “antimperialisti”, il Presidente a stelle e strisce avrebbe infine ceduto alla pressione e ai ricatti dello «Stato profondo» americano, o dell’establishment, oppure dei «poteri forti» (poverino!), o della lobby pro-global (Unione Europea in testa, si capisce). Leggo da qualche parte: «Il tradimento di Trump ha aperto il vaso di Pandora». Tradimento! Il blocco populista-sovranista si vede costretto a retrocedere dal superbo trumputinismo che avrebbe dovuto spezzare le reni al blocco globalista guidato dalla Cina e dall’Unione Europea, a un più modesto e tradizionale putinismo. Bisogna accontentarsi di quel che passa il convento dell’«antimperialismo oggettivo».

Sul versante politico opposto (ma sullo stesso terreno di classe!), Giuliano Ferrara soffre perché non riesce a riposizionarsi senza nulla concedere all’avversario: l’attivismo militare di Trump sarebbe più che legittimo politicamente e giustificato sul terreno della «battaglia culturale», soprattutto dopo il catastrofico disimpegno obamiano sul fronte della difesa dei sacri valori occidentali; ma tutto questo se alla Casa Bianca ci fosse un vero statista, magari intellettualmente modesto come George W. Bush, e non un inaffidabile miliardario newyorchese che insegue giorno per giorno il successo di immagine come una qualsiasi star hollywoodiana. Berlusconi ai suoi tempi, benché su una scala geopolitica molto più ridotta, faceva lo stesso, ma almeno non aveva alcuna arma fine di mondo da lanciare su qualche malcapitata popolazione del pianeta! Tempi duri per gli amici di Washington.

Da Pechino, il ministro degli Esteri cinese Wang Yi ci fa sapere che «si ha la sensazione che un conflitto potrebbe scoppiare da un momento all’altro» (che bella notizia!), ma che d’altra parte «il dialogo è la sola via»: tiro un sospiro di sollievo! Naturalmente tutti i protagonisti del Sistema Mondiale del Terrore sostengono che «il dialogo è la sola via», ma intanto preparano o fanno la guerra armata (quella sistemica non conosce soste) con le armi che hanno a disposizione: dal gas nervino alla Massive ordnance air blast; dalle tecnologicamente arretrate (ma quanto efficaci!) barrel bombs ai più sofisticati e “intelligenti” Tomahawk. Anche Trump è per il “dialogo”, si capisce: «Ho una grande fiducia nel fatto che la Cina gestirà bene la situazione della Corea del Nord». Ma il Presidente, ligio al motto «fidarsi è bene, non fidarsi è meglio», ha già pronto un piano di riserva: «Se non è in grado di farlo, gli Usa, con i suoi alleati, lo faranno». Ecco! Dopo questa puntualizzazione mi sento ancora più tranquillo, diciamo.

Intanto il Caro Leader nordcoreano si appresta a celebrare da par suo la Festa del Sole dedicata all’Eterno Presidente Kim Il Sung, fondatore della dinastia stalinista-maoista che regna in Corea del Nord dal 1948. «Choe Ryong-hae, secondo alcuni analisti il secondo più potente ufficiale della Corea del Nord, ha detto che il Paese è pronto ad affrontare qualsiasi minaccia posta dagli Stati Uniti.  “Risponderemo a una guerra totale con una guerra totale, e a una guerra nucleare con il nostro stile di un attacco nucleare”» (ANSA). Esiste dunque uno stile nordcoreano di attacco nucleare? Non lo sapevo. Per fortuna il Caro – e lui si augura soprattutto Eterno – Senatore Antonio Razzi vola a Pyongyang e si offre come scudo umano: «Quello che voglio far capire a Donald, rispetto al mio viaggio nordcoreano, è che io sono per il dialogo perché “Dio ci ha dato la bocca per parlare e non ci ha dato le bombe da sganciare”. E allora, amico caro, io dico: se ci ha dato la bocca, parliamone» (Il Tempo). Ci sarebbe da ridere se si trattasse di un film comico, e invece da un momento all’altro potrebbe scoppiare, almeno a dar credito ai quotidiani italiani, la Terza guerra mondiale, quella “intera”, non quella “a pezzetti” di cui tanto parla il Santissimo Padre.

Secondo il già citato Lucio Caracciolo, il confronto Usa-Corea del Nord ha superato il perimetro dell’escalation puramente verbale: «Stavolta c’è di più, nel senso che per la prima volta da quando la Corea del Nord è diventata nucleare, gli americani temono che non sia un bluff, quello ordito da Pyongyang, per portare a casa soldi e aiuti, ma che si tratti di una minaccia effettiva. Secondo alcuni analisti, nel giro del primo mandato presidenziale di Trump, Pyongyang potrebbe dotarsi di missili balistici intercontinentali armati con la bomba atomica, in grado di colpire la California, San Francisco o Los Angeles. Questo implica la possibilità che Trump ordini un attacco preventivo per impedire che ciò accada. Che per l’America il riarmo nucleare nord coreano fosse un “grosso pericolo” è stato lo stesso Obama a segnalarlo al suo successore nel colloquio che ha segnato il passaggio di consegne alla Casa Bianca. Non da oggi, peraltro, il confine più critico al mondo è quello che divide le due Coree. Un confine estremamente militarizzato. E tutto questo nel contesto di una partita che si gioca da molti anni nel Nord-Est asiatico fra le principali potenze, tutte schierate a ridosso del confine intracoreano: la Cina, la Russia, il Giappone e naturalmente gli stessi Stati Uniti. Tutto questo rende l’evoluzione di quella crisi permanente uno scenario d’interesse globale».

Ricordo che già nella primavera del 2013 si parlò della possibilità di uno scontro armato imminente in quell’area, come si evince da un mio post (Prove di apocalisse nucleare lungo il 38° parallelo) pubblicato quell’anno: «Per Pyongyang sembra alla fine essere arrivato il “tempo della battaglia finale”. Il Rodong Sinmun, il quotidiano del Partito dei lavoratori (sic!) nordcoreano, ha dichiarato la scorsa domenica che in seguito alle manovre militari congiunte tra Washington e Seul la Corea del Nord considera l’armistizio del 1953 con la Corea del Sud “completamente nullo da oggi”. Se non si tratta di una dichiarazione di guerra, poco ci manca. Le truppe ammassate lungo il famigerato 38° parallelo “aspettano solo l’ordine di attacco”. L’inevitabile redde rationem bussa dunque alle porte del Sudest Asiatico? D’atra parte, l’ex “Caro Leader” Kim Jong-il aveva dichiarato, qualche mese prima di raggiungere il Paradiso Comunista dell’Aldilà, che “a causa della sconsiderata politica bellica dei sud-coreani, non si tratta di guerra o pace nella regione coreana, ma di quando scoppierà la guerra”, e aveva aggiunto, giusto per tranquillizzare i fratellastri sud-coreani, i cugini cinesi e gli odiati giapponesi, che la guerra “condurrà al confronto nucleare e non sarà circoscritta alla penisola coreana”. Com’è noto, la sola fabbrica nordcoreana davvero produttiva è quella del terrore: poliziesco (verso l’interno) e nucleare (verso l’esterno); una fabbrica che ha consentito all’inquietante regime militare di Pyongyang di mantenersi a galla nonostante l’estremo degrado economico, morale e psicologico della popolazione del Paese. Pare che il giovane leader Kim Jong-un sia di fatto ostaggio della “casta militare”, la quale da sempre è stata ostile a qualsiasi “riforma economica”, anche timida e limitata ma quantomeno in grado di frenare l’emorragia di cittadini nordcoreani che fuggono con tutti i mezzi possibili verso la Corea del Sud e verso la Cina».

Quattro anni dopo ci risiamo! Che sia la volta buona? Scherzo! È il Sistema Mondiale del Terrore che invece non ha alcuna voglia di scherzare.

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