Ricardo commette tutti questi errori. […] Il
volgo ne ha concluso che le verità teoretiche
sono astrazioni che contraddicono ai rapporti
reali. Invece di accorgersi, al contrario, che
Ricardo non spinge abbastanza nell’astrazione
esatta, e quindi cade in quella falsa (K. Marx).
Introduco il ragionamento sul decennale della Grande crisi con due citazioni marxiane tratte dalla metaforica rubrica Della serie aveva detto, se non tutto, certamente l’essenziale. Ecco la prima: «La speculazione di regola si presenta nei periodi in cui la sovrapproduzione è in pieno corso. Essa offre alla sovrapproduzione momentanei canali di sbocco, e proprio per questo accelera lo scoppio della crisi e ne aumenta la virulenza. La crisi stessa scoppia dapprima nel campo della speculazione e solo successivamente passa a quello della produzione. La sovraspeculazione, che a sua volta è solo un sintomo della sovrapproduzione, appare perciò all’osservatore superficiale come causa della crisi. Il successivo dissesto della produzione non appare come conseguenza necessaria della sua precedente esuberanza, ma come semplice contraccolpo del crollo della speculazione» (1). Dopo vedremo in che senso Marx parlava di «sovrapproduzione». Ribadisco il concetto marxiano passando alla seconda citazione: «Se la speculazione si presenta verso la fine di un determinato ciclo commerciale come immediato precursore del crollo, non bisognerebbe dimenticare che la speculazione stessa è stata creata nelle fasi precedenti del ciclo e quindi rappresenta essa stessa un risultato e un fenomeno, e non la ragione ultima e la sostanza del processo. Gli economisti che pretendono di spiegare le periodiche contrazioni di industria e commercio con la speculazione assomigliano a quella scuola ormai scomparsa di filosofi della natura che considerava la febbre come la vera causa di tutte le malattie» (2).
Piccola nota “dottrinaria”: qui Marx parla «del crollo» come sinonimo di crisi, come crollo degli investimenti produttivi di valore e conseguente disastro in ogni punto del processo allargato dell’accumulazione capitalistica. Dico questo contro chi vede in Marx il padre dei crollisti, ossia di quegli epigoni che in modo diretto, deterministico e adialettico fanno derivare «il crollo inevitabile del Capitalismo» dalla crisi economica, la quale solo a certe condizioni, che non dovevano sfuggire all’autore del Manifesto del partito comunista, può effettivamente trasformarsi in una potentissima leva rivoluzionaria. Che senza «la costituzione del proletariato in classe autonoma, e quindi in partito politico» (Marx), nessuna catastrofe sociale potrà mai spingere i proletari nella giusta direzione, ossia contro e oltre i rapporti sociali capitalistici, è cosa che il comunista di Treviri sapeva benissimo, come dimostra la sua attività squisitamente politica tesa a rendere possibile l’autonomia di classe. D’altra parte non si può certo rimproverare al comunista di Treviri, il quale non ebbe la disgrazia di conoscere fenomeni come lo stalinismo internazionale, enorme colpo di… fortuna per il dominio capitalistico mondiale, un eccesso di speranza, proiettando così sulla sua barba la nostra sfiga. Ma non allontaniamoci troppo dal tema qui posto al centro della riflessione.
La sovraspeculazione come sintomo della sovrapproduzione; la crisi finanziaria come sintomo della crisi economica generale: come si spiega questa relazione causale?
La circostanza per cui il circolo vizioso che a un certo punto si impadronisce del processo che crea valore basico debba trovare le sue più eclatanti manifestazioni prima nella sfera della circolazione, dove appunto circola ricchezza sociale (in ogni sua forma: merce, denaro, ecc.) già prodotta, sta nel fatto che nel Capitalismo non si produce per soddisfare i molteplici bisogni umani; «Non si produce secondo i bisogni di un’umanità socialmente sviluppata» (Marx): si produce piuttosto in vista del profitto, che trova nella forma-denaro la sua più autentica e potente espressione. Ed è appunto nella sfera della circolazione, che pure non produce plusvalore, base logica e fattuale di ogni tipologia di profitto e di rendita (e infatti Marx lo chiama anche «profitto assoluto»), che il segreto della produzione si rivela nella sua ultima e disumana essenza: essa è in primo luogo un processo di valorizzazione, cosa impossibile da apprezzare se si rimane nell’ambito della produzione. Questo paradosso, che in realtà è un “risvolto dialettico” immanente al concetto stesso di capitale, realizza nella testa dell’«osservatore superficiale», soprattutto se egli ha in tasca una laurea in scienze economiche e diverse specializzazioni intonate alla laurea, un completo capovolgimento della realtà, così che la causa appare come effetto, e viceversa. Il termometro appare come la causa della febbre: è questa sconcertante idiozia che informa molte analisi economiche che ci spiegano «le vere cause della crisi» e che ci regalano soluzioni chiavi in mano per uscirne definitivamente. Ad esempio, tutto il dibattito degli anni scorsi sulla bassa inflazione, la quale avrebbe tenuto i capitali lontani dagli investimenti produttivi, è stato segnato dall’inversione concettuale di cui sopra.
Lungi dal contraddire la marxiana teoria del valore lavoro, che, occorre sempre ricordarlo, è in primo luogo la teoria-critica dello sfruttamento del lavoro da parte del capitale, la finanziarizzazione dell’economia piuttosto la convalida, perché la sua causa più profonda insiste, logicamente, storicamente ed empiricamente, nel processo di valorizzazione del capitale. Vedremo in seguito il rapporto tra valorizzazione capitalistica e finanziarizzazione dell’economia. È insomma del tutto infondata, ma assai sintomatica, la tesi, adottata dalla scienza economica mainstream e dal personale politico e ideologico al servizio dello status quo sociale, secondo la quale la causa della Grande crisi del 2008 va cercata nella sfera finanziaria, soprattutto là dove più forte si sarebbe annidata la “cosca speculativa”.
Le «bolle di sapone di capitale monetario nominale» (Marx) presto o tardi devono scoppiare, con matematica certezza, e su questo concordano ormai da anni anche i più incalliti apologeti del sistema capitalistico come migliore delle economie possibili. Ciò è così vero che le istituzioni politiche e finanziarie di respiro nazionale e sovranazionale di tanto in tanto si pongono il problema di come sgonfiarle progressivamente, quelle «bolle di sapone», affinché esse non esplodano improvvisamente con esiti potenzialmente catastrofici.
Eccesso di speculazione, abuso del credito: esattamente come ai tempi di Marx, la ricerca dei capri espiatori da dare in pasto alle vittime della crisi, e così intascare alti dividendi politico-elettorali («è la democrazia capitalistica, bellezza!»), si concentra nel demoniaco e amorale mondo della finanza non orientata a supportare i bisogni della virtuosa economia reale, la quale sarebbe l’innocente vittima del crollo della superfetazione speculativa. Che la cosiddetta economia reale possa vestire i panni della virtuosa innocenza è cosa che deve far ridere, visto che «il vero limite della produzione capitalistica è il capitale stesso» (3), e che è proprio questo limite, che il Capitale cerca di superare sempre di nuovo, con continue accelerazioni, con continue fughe in avanti, che sta alla base della tanta vituperata finanza speculativa. Cercherò di riprendere in seguito tutti questi concetti.
A Dieci anni dall’espansione su scala globale della crisi economica iniziata negli Stati Uniti con l’esplosione della bolla speculativa alimentata dai muti subprime (luglio 2007) ho ripreso tra le mani l’instant book che Il Sole 24 Ore pubblicò nell’ottobre del 2008 per dar conto ai suoi lettori di quell’evento che si annunciò fin da subito gravido di conseguenze “sistemiche” su ogni aspetto della prassi sociale nei Paesi capitalisticamente più sviluppati del pianeta. Titolo – un po’ scontato ma non del tutto banale – del volume: La grande crisi. In effetti allora i media, avvezzi a sfruttare al meglio la catastrofe, parlarono subito della più grande crisi economica internazionale dopo quella, “epica” e inarrivabile (?), iniziata nel 1929 sempre negli Stati Uniti, e sempre a partire dall’improvviso crollo del castello di carte creato dalla speculazione finanziaria. Naturalmente qui la casualità non ha alcuna cittadinanza. Scriveva Marx nel 1850: «Come sul continente il periodo della crisi sopravviene più tardi che in Inghilterra, così quello della prosperità. Il progresso iniziale lo si trova sempre in Inghilterra; essa è il demiurgo del cosmo borghese» (4). Ancora in questo scorcio di XXI secolo gli Stati Uniti recitano la parte del «demiurgo del cosmo borghese», non si sa ancora per quanto. Certo, la presenza del colosso cinese proietta sulla scena sociale mondiale un’ombra inquietante (per la leadership capitalistica americana), ma certe previsioni eccessivamente pessimistiche (per la leadership capitalistica americana) si sono dimostrate infondate. Certo è che la Cina è venuta fuori dalla crisi più forte, e anche per questo nel medio periodo si troverà alle prese con le contraddizioni tipiche del Capitalismo più maturo. Quando rifletteva sul futuro del Capitalismo mondiale, Marx pensava alla costa statunitense che si affaccia sul Pacifico, alla California; lo sviluppo capitalistico è andato oltre le sue previsioni, ed è logico visto il tanto tempo trascorso.
Vi ricordate la domanda che circolava negli ambienti politici e accademici: si tra di una crisi del Capitalismo o di una crisi nel Capitalismo? La prima che ho detto! In effetti la stessa domanda è mal posta, perché il modo di produzione capitalistico è il fondamento materiale e il centro motore dell’intera società che appunto per questo chiamiamo capitalistica. È sufficiente riflettere sulla tecnoscienza, e sui suoi legami con ogni aspetto della nostra vita quotidiana, per capire il senso di questa affermazione. È sul fondamento di questa prassi che ci tiene in vita che costruiamo istituzioni politiche e più o meno ardite architetture concettuali, e solo un ingenuo può credere che le attività umane che non sono riconducibili direttamente al processo che crea e distribuisce la ricchezza sociale non siano intimamente legate a quel processo, e ciò è soprattutto vero oggi, nell’epoca del dominio totale (su scala geosociale ed esistenziale) e totalitario (chi non si adegua alle “regole del gioco” muore, semplicemente) del Capitale
L’aspetto di gran lunga più significativo del volume curato dal Sole 24 Ore va individuato a mio avviso nel fatto che esso fu interamente focalizzato sugli aspetti finanziari della crisi (esplosione della bolla speculativa e i suoi effetti sul sistema finanziario internazionale, crollo negli indici borsistici, indebolimento delle banche un tempo considerate incollabili, ecc.), mentre per ciò che riguarda la cosiddetta economia reale i suoi articoli si limitavano ad auspicarne il ritorno al centro della vita economica dei Paesi investiti dalla crisi, e a segnalare gli effetti devastanti del credit crunch (stretta creditizia) sulle imprese industriali e commerciali e sul consumo delle famiglie. Che proprio nella tanto decantata economia reale andassero invece cercate, «in ultima analisi», le cause più profonde e di lunga tendenza della stessa crisi finanziaria, è cosa che nel volume non trova alcuna traccia. Certo non casualmente bensì pour cause.
L’instant book si apriva con un articolo di presentazione a firma Ferruccio de Bortoli, allora direttore del quotidiano confindustriale, che metteva in ordine i sintomi finanziari della crisi economica internazionale, e che individuava in un «azzardo morale» di stampo finanziario e in un difetto di policy le maggiori responsabilità del terremoto finanziario del 2008. L’articolo si concludeva con l’auspicio che dalla grave crisi sorgesse «un altro mondo», un mondo in grado di conquistare «la lungimiranza di riscoprire la centralità dell’impresa e la civiltà del lavoro, liberandoci dall’illusione, fortemente diseducativa [sic!], che il denaro produca da solo altro denaro». Già in questo auspicio è condensato il pensiero mainstream circa le cause della Grande crisi dalla quale, a quanto dicono gli esperti, anche il nostro Paese starebbe uscendo: in fondo al famigerato tunnel si vedrebbe infatti una luce e non sarebbe quella generata dai fari di un treno che corre ad alta velocità verso di noi. Speriamo!
Come si spiega «la crescita esponenziale delle attività finanziarie rispetto a quelle reali che ha spinto i profitti a livelli mai raggiunti»? Che nesso c’è tra la lenta crescita, il ristagno e poi il declino degli investimenti nella virtuosa “economia reale” e la denunciata – nonché stigmatizzata – «crescita esponenziale delle attività finanziarie», in primis di quelle speculative e non regolamentate (finanza secondaria)? Nel Capitalismo del XXI secolo ha senso contrapporre le attività industriali e commerciali a quelle finanziarie d’ogni genere? Qual è la differenza specifica tra «economia reale» ed economia finanziaria? Queste sono solo alcune delle domande che sorgono spontaneamente leggendo criticamente la presentazione di de Bortoli e che nel pur interessante volume non trovano alcuna risposta. Né, occorre dirlo, sarebbe stato intelligente aspettarsele, quelle risposte.
Continua. La prima parte la trovi qui.
(1) K. Marx, Neue Rheinische Zeitung, 1850, in Marx-Engels, Opere, X, p. 501, Editori Riuniti, 1977.
(2) K. Marx, La costituzione britannica, Neue Oder-Zeitung n.109, 1855, in Marx-Engels, Opere, XIV, pp. 59-60.
(3) K. Marx, Il capitale, III, p. 303, Editori Riuniti, 1980.
(4) K. Marx, Neue Rheinische Zeitung, in Marx-Engels, Opere, X, p. 521.
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Commenti da Facebook
Massimo:
Ottimo articolo, come peraltro sempre quelli di Isaia, quello che a me lascia sempre un po’ perplesso è la mancanza assoluta di indicazioni. Analisi peraltro che sono patrimonio della sinistra comunista italiana E, che più o meno bene vengono espresse in tutti gli articoli delle testate della sinistra.
Daniele:
Il “crollo del capitalismo ” e la conseguente ingloriosa uscita definitiva dalla scena della Storia sono sicuramente fatti inevitabili qualunque cosa uno possa fare e pensare al fine di rallentarne il decorso,guerre ” rigeneratrici” comprese.l ‘ unico fatto non inevitabile é solo la Rivoluzione. É solo qui che certi epigoni abbacinati dal determinismo si sbagliano.
Val:
Dire che l’unica strada sia quella dell’autonomia del proletariato, non corrisponde al dire che il proletariato si debba costituire come partito. Che significato potrebbe avere, oggi, e che forma potrebbe assumere, un Partito del proletariato?
Sebastiano Isaia :
Ti giuro, se lo sapessi, te lo direi! C’è un altro aspetto importante, direi decisivo, della questione che bisogna considerare: personalmente posso offrire alle nuove generazioni modelli vecchi di soluzioni al problema (rifacendomi alla storia del movimento operaio internazionale da Marx a Lenin), compresi i modelli che ho sperimentato in prima persona, che a mio avviso non sono adeguati allo scopo. Il fatto che io non riesca oggi a immaginare il “ricasco organizzativo” delle mie elucubrazioni politico-dottrinarie “lo vivo” come un limite essenzialmente oggettivo, dovuto alla storia del movimento di emancipazione sociale che mi sta alle spalle (basti pensare alle conseguenze della controrivoluzione stalinista sulla stessa fraseologia che un tempo caratterizzava quel movimento: socialismo, comunismo, rivoluzione, dittatura rivoluzionaria del proletariato, e così via) e alla condizione di impotenza “esistenziale” che da decenni caratterizza la vita del proletariato mondiale, legato mani, piedi e – soprattutto – testa al carro della classe dominante. Esprimere, al meglio delle mie modeste capacità, quella che ormai da vent’anni definisco tragedia dei nostri tempi, ossia la circostanza per cui l’umanità cozza ciecamente la testa contro il muro del Dominio a un solo passo dall’uscita che può condurla alla liberazione, è un compito che mi appare tutt’altro che insignificante e frustrante. Trovo un grande piacere intellettuale nello sparare a palle incatenate contro i vigenti rapporti sociali senza cadere in tentazioni ideologiche consolatorie circa lo stato “rivoluzionario” delle cose, che non è affatto rivoluzionario, tutt’altro.
Angelo:
Mi ritrovo in questa risposta nel senso di non poter oggi, immaginare da dove partire , con quali soggetti che abbiano una coscienza di classe. Da dove partire? Le lotte dei lavoratori, laddove ci sono, sono aspre, difficili, non tollerate dal potere, criminalizzate dai media. Pensando al passato credo sia importante mantenere viva l’analisi, la critica a quello che è stato. Ci vogliono altri che lavorino in questo senso.
Daniele:
Oggi, data la situazione attuale?Sarebbe soltanto un contenitore vuoto con sopra un’ etichetta. Poi ,in generale,anche solo per svaligiare una banca occorre darsi un minimo di organizzazione,poi uno la puó chiamare come vuole. Una cosa é certa: le decisioni più importanti non verranno prese alla conta dei voti.
Val:
Sì, con l’utilizzo del termine ‘oggi’, intendevo riferirmi alla ‘situazione attuale’. Comunque, può essere anche sia uno sterile esercizio di (cattivo) stile, però mi sembra che costituisca una differenza parlare di Partito, anzichè di organizzazione. Molto probabilmente le mie (nostre?) elucubrazioni lasceranno il tempo che troveranno.
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