I fatti sono noti: su input del Dipartimento del Commercio e sulla premessa strategicamente importante (e non campata in aria) che l’acciaio e l’alluminio sono parte importante della sicurezza nazionale, Donald Trump ha annunciato qualche giorno fa una serie di misure economiche intese a colpire i Paesi che esportano acciaio e alluminio negli Stati Uniti. Ma la lista delle merci sottoposte alla nuova politica protezionista dell’Amministrazione Usa potrebbe allungarsi, e con essa la lista dei Paesi potenzialmente investiti da quella politica. Com’è noto, è soprattutto l’acciaio Made in China che sta in cima ai pensieri della Casa Bianca, e questo ben prima che si insediasse l’attuale Presidenza. Per quanto riguarda l’alluminio, i dazi colpirebbero soprattutto l’importazione da Cina, Russia, Vietnam e Venezuela, mentre per l’acciaio, oltre la Cina, i Paesi coinvolti sono quelli dell’Unione Europea, il Canada e il Giappone. «Se la Casa Bianca dovesse optare per dazi generalizzati nei confronti di tutti i paesi, il rischio è di problemi commerciali e diplomatici con i suoi maggiori alleati, fra i quali l’Europa, il Giappone e il Canada. I pericoli per Trump sono quindi molti, considerato che le economie del G20 hanno già detto un secco “no” alla minaccia di dazi sull’acciaio, avvertendo che imporli rischia di innescare una pericolosissima guerra commerciale» (La Stampa, 17/02/18).
Il fronte liberista è guidato ancora una volta da Cina e Germania, ossia dai due capitalismi oggi più interessati a mantenere nel mercato mondiale la politica delle “porte aperte”, una strategia che denota una notevole potenza di fuoco economica da parte di chi la pratica. Il Ministro degli Esteri tedesco, Gabriel, ha tenuto a precisare che «a differenza di quanto accade in altri Paesi, le aziende della Germania e del resto d’Europa non utilizzano misure di dumping per ottenere vantaggi competitivi iniqui», e che tuttavia «questo colpo radicale da parte di Washington colpirà principalmente proprio le nostre esportazioni e il nostro mercato del lavoro». In altri termini, il problema del «dumping iniquo» (vedi Cina, India ecc.) è solo un pretesto, mentre ciò che gli americani temono è soprattutto il vantaggio competitivo tedesco, europeo e giapponese che ha il suo fondamento in una maggiore produttività del lavoro e in una più avanzata struttura tecnologica delle imprese. «Se tutti i Paesi seguono l’esempio degli Stati Uniti, questo avrà senza dubbio un grave impatto sul commercio internazionale», ha dichiarato Hua Chunying, portavoce del Ministero degli Esteri Cinese. E non solo sul commercio internazionale, è da prevedersi. «Tra le reazioni più forti che sono arrivate prontamente dalla comunità internazionale, si mette in evidenza la rabbia dell’industria dell’acciaio cinese. “Questa è una misura di protezionismo stupida, che invece di rafforzare tenderà solo a indebolire gli Stati Uniti”, è sbottato Li Xinchuang, vice presidente dell’associazione China Iron & Steel Assocation» (Finanza.com). Ma gli americani non si sono lasciati commuovere dalle buone intenzioni cinesi: «Continueremo a proteggere i lavoratori americani», ha detto Sara Sanders, portavoce della Casa Bianca.
Occorre comunque dire che la discussione sui dazi è molto “vivace” all’interno dell’Amministrazione, perché nessuno dello staff trumpiano, a cominciare naturalmente dal Boss che ama fare lo sbruffone davanti ai media, può disconoscere la gravità delle misure minacciate tenendo conto di un mix di obiettivi economici, geopolitici, politici e propagandistici da centrare. Alla fine probabilmente la Casa Bianca adotterà un programma protezionistico di mediazione tra “falchi” e “colombe”, secondo il tradizionale cliché. Di nuovo a Washington c’è che il Presidente in persona questa volta ama presentarsi non in guisa di mediatore, ma come il capo dei “falchi”, anzi come il più “falco” fra i tanti “falchi” che svolazzano intorno al Potere Americano. Il Segretario al Commercio, Wilbur Ross, il mese scorso ha detto che le importazioni di alluminio «minacciano di mettere in difficoltà la nostra sicurezza nazionale perché solo una compagnia americana produce attualmente alluminio di alta qualità che serve per gli aerei militari». E con l’acciaio di alta qualità si fabbricano anche navi militari e tutto quel ben di Dio che il Capitale produce per la sicurezza non solo degli Stati Uniti, notoriamente faro di libertà e di democrazia, ma dei loro alleati e della “pace” nel mondo. Mai la “pace” nel mondo ha avuto tanto bisogno della produzione di armi come in questi tempi imprevedibili!
Intanto l’Unione Europea minaccia immediate ritorsioni: «L’Europa annuncia contromisure su prodotti come Harley Davidson, Bourbon o Levi’s, citati esplicitamente da Jean-Claude Juncker. Aziende come Electrolux sospendono gli investimenti negli Usa. E su entrambe le sponde dell’Atlantico le Borse iniziano a tremare» (La Stampa, 02/03/18). Il virile Putin, forse per ricordarci che dalle guerre commerciali alle guerre vere e proprie il passo non è poi così abissale come sembrava solo qualche anno fa, ha annunciato il “varo” di un nuovo missile balistico intercontinentale, il Rs-28 Sarmat, che con la sua propulsione nucleare potrebbe volare «all’infinito» e attaccare eludendo i sistemi difensivi nazionali in qualsiasi parte del pianeta, «sia passando dal Polo Nord che dal Polo Sud». «Putin tuttavia ha anche affermato che la Russia “non minaccia e non intende aggredire nessuno” ed anzi auspica una collaborazione “equa e paritaria” sia con gli Usa che con l’Ue» (Notizie Geopolitiche). Come sempre e come dappertutto, la colpa è sempre degli altri. Ma sulla nuova corsa agli armamenti che in questo frangente storico riguarda soprattutto gli Usa, la Russia e la Cina ritornerò in futuro. Forse.
Sul Sole 24 Ore il Professor G. B. Navaretti, Ordinario di Economia politica all’Università Statale di Milano, la butta in “filosofia”: «come un atto di ottuso solipsismo. Il solipsismo, dal dizionario “atteggiamento filosofico secondo il quale il soggetto pensante non può affermare che la propria individuale esistenza in quanto ogni altra realtà si risolve nel suo pensiero”, ben definisce l’incapacità di Trump di valutare le conseguenze delle sue azioni. Sia sul proprio paese che sul resto del mondo». E se invece l’iniziativa trumpiana fosse l’espressione di reali contraddizioni economiche e sociali che si sviluppano non solo negli Stati Uniti ma nell’intero capitalistico mondo? È un’ipotesi che non andrebbe scartata, mi pare.
Ma così non pare a Navaretti: «Altro problema del solipsismo è l’incapacità di distinguere gli amici dagli avversari. La questione dell’acciaio in occidente nasce dall’eccesso di capacità produttiva soprattutto in Cina. Unione Europea e Stati Uniti stanno sulla stessa barca e il loro obiettivo comune è di contenere insieme l’espansionismo cinese». Siamo proprio sicuri che gli interessi contingenti e, soprattutto, strategici di Unione Europea e Stati Uniti coincidono o comunque in qualche modo si armonizzano, e che in questa forma unitaria tendono a collidere con quelli della Cina? Anche qui mi permetto di dubitare, e basta guardare al passato, recente e lontano, per capire come l’antagonismo capitalistico basato sull’esportazione di merci e capitali abbia riguardato soprattutto l’Occidente e il Giappone, mentre solo dalla seconda metà degli anni Ottanta la Cina ha iniziato a pesare nella competizione per la spartizione di profitti, mercati, materie prime e forza-lavoro. Nel periodo chiamato della Guerra Fredda le controversie commerciali, finanziarie e monetarie tra gli Stati Uniti e i loro “alleati” politico-militari (Germania e Giappone, in primis) sono state messe in ombra dalla disputa ideologica e militare tra gli Usa e l’Unione Sovietica, ma messo al tappeto uno dei pilastri dell’assetto imperialistico venuto fuori dalla Seconda guerra mondiale, all’interno dell’Alleanza Atlantica è stato di fatto dichiarato un parziale “liberi tutti”, e così gli interessi specifici, non solo economici, dei diversi Paesi hanno avuto modo di mostrarsi con più forza anche agli occhi dell’opinione pubblica internazionale.
Vediamo come conclude il nostro Scienziato economico: «Si dirà, Trump non è solipsista, guarda e con molta attenzione alla pancia dei propri elettori. Vero. Ma in un mondo così complesso mi pare un ennesimo gesto di straordinaria ottusità». A me pare invece ottuso concentrarsi sulla “pancia” degli elettori di Trump, piuttosto che sulla situazione sociale che quella “pancia” ha creato, ossia sulle contraddizioni e sui disagi che per essere gestiti hanno bisogno anche della propaganda “populista” basata sull’orgoglio nazionale e sulla chiusura nei confronti degli altri che «ci rubano il lavoro, le imprese, il welfare, il futuro». E questo è un tema che, come sappiamo, riguarda anche l’Europa e l’Italia. Matteo Salvini e Giorgia Meloni, ad esempio, sono subito saltati sul carro “protezionista e sovranista” di Trump: «Oggi la polemica sui giornali è contro Donald Trump. Lui difende l’industria americana, vuole salvare i posti di lavoro. Tutti lo attaccano; io invece voglio fare in Italia la stessa cosa, si possono mettere i dazi. È troppo comodo licenziare a Milano e aprire in Romania o in Cina per poi rivendere nei nostri supermercati. Se lo vuoi fare paghi di più. Ce ne sono già di dazi dell’Ue su alcuni prodotti ma ci sono tanti settori come la ceramica o il tessile, che non sono stati difesi dai governi italiani impegnati, male, per esempio sulle banche. Io da padre di due figli di 5 e 15 anni, vorrei che i miei figli non scappassero dall’Italia. Voglio rimettere al centro della politica italiana il lavoro: pagare 2 euro l’ora è schiavismo, non voglio ci siano gli schiavi, magari sostituiti o dai robot o dagli immigrati che fanno i lavori che gli italiani non vogliono fare» (intervista de Il Mattino a M. Salvini). «Prima gli italiani!». Fuori i robot e gli immigrati! Soprattutto gli immigrati…
«Opposta l’opinione dell’alleato Silvio Berlusconi. Sui dazi voluti da Trump, ha detto a Rtl, “la signora Merkel ha preso una posizione netta, io la condivido assolutamente. La signora Merkel ha ricordato quel che il protezionismo e i dazi hanno significato nella storia”, ovvero “tutte le volte non hanno prodotto bene per l’economia e i cittadini ma il contrario. Credo che questa nuova idea di protezionismo non sia da approvare, non sia positiva per gli stessi Usa» (Il Mattino). Anche qui vedremo il “punto di equilibrio” che la destra italiana sarà in grado di trovare sulla politica economica in caso di successo elettorale. C’è comunque da dire che la linea protezionista è debole in Italia perché il Made in Italy ancora “tira” nei mercati internazionali, e un inasprimento della guerra commerciale mondiale potrebbe spiazzarlo e metterlo fuori gioco a favore dei competitori diretti più forti: Germania e Giappone. Il premier Gentiloni ha dichiarato: «Noi tuteliamo il lavoro. Si veda il caso Embraco proprio oggi. E se ci saranno guerre commerciali risponderà l’Italia, l’Europa. Ma attenzione perché abbiamo un’economia che vive e lavora di esportazioni. Un italiano che propone i dazi, lavora per lo straniero» (Ansa). Non passi lo straniero! Sì, ma come?
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