Scriveva ieri Francesco Borgonovo su La Verità: «Comunque la si metta, il cuore pulsante della questione, il grande tema con cui tutti si devono confrontare, è sempre il medesimo: il rapporto con la tecnologia. Un argomento così potente e divisivo da creare spaccature ovunque, a destra come a sinistra, persino nei fronti che – a prima vista – si crederebbero granitici». È forse inutile precisare in questa sede che «il rapporto con la tecnologia» chiama in causa direttamente il rapporto sociale – capitalistico – che informa in modo sempre più “globale” ( totalitario) e stringente l’intera prassi sociale, la nostra intera esistenza. È la potenza del Capitale che conferisce potenza alla “problematica” individuata dal Nostro. A ogni buon conto la precisazione pignolesca vale a rimarcare l’altrui feticismo concettuale, quello che vede cose, oggetti, là dove il pensiero critico vede soprattutto relazioni umane – o disumane, come sarebbe forse più adeguato scrivere.
«Tra gli intellettuali di derivazione marxista», continua Borgonovo con una comprensibile soddisfazione intellettuale, «volano metaforiche botte da orbi. Da una parte ci sono i fanatici del progresso, i cantori dello sviluppo e dell’avanzamento. Dall’altra, ci sono pensatori di più ampie vedute, che sono stati capaci di recepire idee provenienti dall’ambito identitario e conservatore. Nel secondo schieramento (quello che più ci piace, lo dichiariamo subito) svetta come un titano il filosofo francese Jean Claude Michéa, uno degli intellettuali più interessanti degli ultimi anni, che non a caso ha molto influenzato i movimenti cosiddetti populisti esplosi in tutto il mondo». Michéa rimprovera ai suoi ex compagni di sinistra di non essere riusciti a superare la “malattia infantile” del sessantottismo, con il suo sfrenato e inconcludente movimentismo intriso di giovanilismo e di modernismo: «Corri compagno, il vecchio mondo è dietro di te». «L’anima della sinistra si esprime così, nella corsa sfrenata, in quell’ideologia che altri due brillanti francesi, Pierre André Taguieff e Thibault Isabel, hanno chiamato “bougisme”, ovvero “il culto del movimento fine a sé stesso. In mancanza di una causa per cui battersi si celebra la novità”. Questo culto del movimento, della crescita, secondo Michéa rende la sinistra l’alleata perfetta del neoliberismo». Per molti aspetti qui si dice il vero, ma non bisogna d’altra parte dimenticare né la faccia a mio avviso più scura del ’68, quella che aveva le sembianze dei ritratti di Stalin e di Mao portati in processione da non pochi “militanti rivoluzionari”, né la corrente più creativa e umanamente “più calda” di quel movimento, la quale pur nella sua ingenuità politica (ma forse proprio per questo, visto le ideologie che allora dominavano la scena politico-sociale in Europa e nel mondo) avanzò bisogni e pose problemi molto radicali, che investivano la stessa esistenza quotidiana degli individui nel suo rapporto con il potere politico e economico.
Ormai da tempo, osserva Borgonovo commentando il saggio di Michéa appena uscito in Italia («intitolato Il nostro comune nemico, è uno di quei libri che hanno la forza di terremotare le menti»: nientedimeno!), la sinistra imborghesita e cosmopolita (Pietrangelo Buttafuoco oggi sul Tempo parla di «fighettismo benecomunista») non ha «più altro ideale concreto da proporre se non la dissoluzione continua e sistematica dei modi di vivere specifici delle classi popolari – e la dissoluzione delle loro ultime conquiste sociali – nel moto perpetuo della crescita globalizzata, sia essa dipinta di verde o coi colori dello “sviluppo sostenibile”, della “transizione energetica” e della “rivoluzione digitale”». Ma «la dissoluzione continua e sistematica dei modi di vivere specifici delle classi popolari» è più il prodotto della “deleteria” campagna ideologica “antipopolare” della sinistra “fighetta” che si è messa al servizio del finanzcapitalismo globalizzato, o non invece del processo sociale capitalistico? E poi, siamo così sicuri che «i modi di vivere specifici delle classi popolari» meritino di venir preservati? Cosa ha causato, tanto per fare un esempio, la destabilizzazione e l’evanescenza delle tradizionali figure genitoriali: l’ideologia antiautoritaria del “vietato vietare”, l’irruzione delle tecnologie “intelligenti”, o non piuttosto il già citato processo sociale, il quale passa come un rullo compressore sulle nostre vite? E poi, è possibile – ed auspicabile! – la restaurazione della tradizionale famiglia “borghese”? Il potere del denaro non è forse un eccezionale corrosivo di tutte le relazioni umane che in qualche modo rendono meno fluido e veloce il processo che genera la ricchezza? Il vecchio comunista di Treviri a questo punto direbbe: «Ma il denaro non è che la più verace espressione della vigente baracca sociale fondata sullo sfruttamento sempre più efficace degli individui e della natura!». Signor Marx, lo vada a dire lei a Papa Francesco e agli apologeti dell’etica del lavoro (salariato)! Scrive il compagno Papa: «Il Vangelo non è un’utopia ma una speranza reale, anche per l’economia; abbiamo il dovere di denunciare col Vangelo in mano i peccati personali e sociali commessi contro Dio e contro il prossimo in nome del dio denaro e del potere. Non possiamo smettere di credere che con l’aiuto di Dio e insieme si può cambiare questo nostro mondo e rianimare la speranza, la virtù forse più preziosa oggi» (Potere e denaro – la giustizia sociale secondo Bergoglio). Caro Francesco, contro il Moloch chiamato Denaro anche l’Onnipotente deve confessare la propria impotenza, come i fatti, non il modesto pensiero di chi scrive, confermano ampiamente e sempre di nuovo. Come ho scritto altrove, non si tratta semplicemente di avere speranza, dobbiamo piuttosto farci noi stessi speranza, dobbiamo diventare la speranza che nessun altro può mettere in scena al nostro posto. Lo so, è più facile a dirsi che a farsi, ma come dicono quelli che hanno studiato, Hic Rhodus, hic salta!
Una volta Friedrich Daniel Ernst Schleiermacher disse che «”Miracolo” non è altro che il nome religioso per “evento”»; ecco, dal mio punto di vista solo un Miracolo può salvarci, cioè a dire l’Evento Rivoluzionario. Ma basta con questa spicciola quanto inconcludente “teologia-politica”!
«La sinistra dovrebbe rendersi conto che l’immigrazione di massa serve a livellare i salari, e a creare concorrenza tra lavoratori stranieri e autoctoni, quelli che non possono “fare a meno di vedere quei migranti economici con occhio malevolo, ed è normale”. Michéa cita il regista Ken Loach, che ha avuto il fegato di affermare: “La sinistra non può continuare a dire che l’immigrazione è una cosa buona per l’economia”. Il pensatore francese, con ironia feroce, sostiene che l’immaginario no border dei progressisti “deve indubbiamente molto di più alle Guide routard e alle pubblicità della Benetton che al vecchio internazionalismo proletario”». Giusto, ben detto. Ma qual è l’alternativa offerta dai critici della “sinistra buonista e salottiera” che può permettersi il lusso della filantropia e del cosmopolitismo? È presto detto: il ritorno indietro verso un capitalismo meno aperto, meno globalizzato, meno “selvaggio”, più regolamentato. Insomma, pura chimera ultrareazionaria. Siamo poi sicuri che il capitalismo di una volta fosse migliore di quello che ci tocca in sorte oggi? Allora è da preferirsi il capitalismo dei nostri tempi? No! Si tratta di uscire tanto dalla logica passatista (“si stava meglio quando si stava peggio!”) quanto dalla logica progressista (“dopotutto, oggi in Occidente nessuno muore più di fame!”): il processo sociale capitalistico risponde a dinamiche che nulla a che fare hanno con le nostre preferenze, con quello che a noi pare essere “migliore” o “peggiore”. Ieri si stava male, oggi si sta peggio, e fermo restante il capitalismo le cose non possono che peggiorare, necessariamente: è così che la vede io, epigono peraltro del «vecchio internazionalismo proletario» – quello di Marx, non quello, strafalso, di Stalin e dei suoi epigoni, compresi quelli che oggi si presentano al “Popolo” in salsa sovranista e statalista.
Chiedersi se sia preferibile il capitalismo di ieri a quello di oggi, o viceversa, significa semplicemente non essere in grado di concepire nemmeno in astratto, come pura ipotesi, alcuna alternativa alla società capitalistica, il che a me appare un’assoluta tragedia. E non si tratta certo di un mero difetto ideologico, né, men che meno, di una mancanza di intelligenza o di cultura. Qui è piuttosto il concetto di coscienza critica che occorre chiamare in causa, la quale ci chiede di uscire fuori, almeno con il pensiero, dalla gabbia ideologica e psicologica che spontaneamente la vita sulla base degli attuali rapporti sociali crea incessantemente e alle nostre spalle. Respiriamo illibertà e inumanità come fosse aria. In ogni caso, dalla mia prospettiva nuovisti e conservatori, globalisti e sovranisti, europeisti e nazionalisti, populisti “di destra” e populisti “di sinistra” appaiono insistere sullo stesso escrementizio terreno.
«Come è facile immaginare, le posizioni di Michéa sull’immigrazione gli hanno creato più di un nemico a sinistra. Ma le sue idee sulla “rivoluzione digitale” hanno suscitato altrettante perplessità. Ed è qui che emerge l’altro fronte marxista, rappresentato da Alex Williams e Nick Srnicek, autori del Manifesto accelerazionista appena pubblicato in Italia da Laterza. Costoro sono convinti che le forze anticapitaliste dovrebbero affidarsi allo sviluppo tecnologico, portandolo all’estremo ed orientandolo verso il benessere della popolazione, garantendo così la fine del lavoro e la sopravvivenza tramite “reddito di base”. Non si rendono conto che la loro utopia coincide con quella allestita dalla Silicon Valley. Il connubio tra capitalismo sfrenato e cultura progressista trova il suo Eden in quella “Silicon Valley che, da decenni, rappresenta la sintesi più perfetta della cupidigia degli uomini d’affari liberali e della controcultura “californiana” dell’estrema sinistra dei Sixties (Steve Jobs e Jerry Rubin sono due ottimi esempi”)». Come si vede, per Michéa (e per Borgonovo) basta essere degli ammiratori di Steve Jobs e Jerry Rubin per finire automaticamente nel poco raccomandabile calderone dell’«estrema sinistra», qualunque cosa ciò significhi per lui. Ma riprendo la suggestiva citazione: «”Infatti, come è noto, è in questa nuova Mecca del capitalismo che oggi si pone in essere il delirante progetto ‘transumanista’ [… ] di mettere tutte le moderne risorse della scienza e della tecnologia – scienze cognitive, nanotecnologie, intelligenza artificiale, biotecnologie, ecc. – al prioritario servizio della produzione industriale di un essere umano ‘aumentato’ (e se possibile immortale) e del nuovo ambiente robotizzato che ne stabilirà la vita quotidiana persino nei suoi aspetti più intimi”». Che paura! Detto altrimenti, e forse più seriamente, non è con ricette populiste e antiliberiste di qualche tipo che l’umanità può sperare, non dico di stracciare, ma anche solo di mitigare e “umanizzare” «il delirante progetto» del Capitale. Più che il “transumanismo” di domani mi atterrisce la disumanizzazione di oggi.
Ho letto il Manifesto per una politica accelerazionista firmato da Alex Williams e Nick Senicek nel 2014, e quindi rinvio il lettore al post che allora scrissi: Accelerazionismo e feticismo tecnologico 2.0. Ecco comunque una parte di quel post.
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Ma veniamo al concetto di accelerazione. «Contrariamente ad una critica già molto nota e all’atteggiamento di alcuni marxisti contemporanei, dobbiamo ricordare che lo stesso Marx utilizzò i dati empirici a lui disponibili e gli strumenti teorici più avanzati nel tentativo di comprendere appieno e trasformare il suo mondo. Non fu un pensatore che resisteva alla modernità, ma piuttosto un pensatore che cercava di analizzarla e intervenire all’interno di essa, capendo che nonostante tutto lo sfruttamento e la corruzione, il capitalismo rimaneva il sistema economico più avanzato del tempo. I suoi vantaggi non dovevano essere invertiti, ma accelerati oltre le restrizioni della forma valore capitalista». Intanto non esiste la «modernità» astrattamente intesa, ma la modernità capitalistica, quella che appunto Marx penetrò criticamente e dialetticamente per mostrare che sulla base del Capitalismo per la prima volta l’umanità poteva immaginare e, soprattutto, praticare la strada che poteva (che può) emanciparla da ogni forma di asservimento naturale e sociale: dal Regno della necessità l’uomo poteva (può) passare al Regno della libertà, la sola dimensione esistenziale che rende possibile il respiro dell’uomo in quanto uomo. Anziché sognare impossibili ritorni indietro verso modi di produzione ritenuti meno disumani (ad esempio quelli basati sul lavoro artigiano o sulla piccola produzione industriale e contadina), si trattava di superare il capitalismo con uno scatto rivoluzionario in avanti. Di qui, la sua critica del socialismo piccolo borghese. Questo in primo luogo.
In secondo luogo Marx scriveva in un tempo in cui il Capitalismo non aveva ancora sviluppato tutte le sue enormi capacità produttive, un capitalismo che non aveva prodotto le distruzioni della prima e della Seconda guerra imperialista, mentre noi ci troviamo a che fare con un regime sociale che non ha più nulla da dare in termini di progresso storico.
Mi permetto una citazione da Eutanasia del Dominio (2008): «L’economia basata sul calcolo comunista lascia immaginare il soddisfacimento dei bisogni umani al più alto livello qualitativo possibile, e col minore dispendio di energie umane e naturali possibile. Le più avanzate tecnologie informatiche dei nostri tempi lasciano intuire quanto possa essere facile quel calcolo in termini puramente organizzativi. D’altra parte già oggi esistono tecnologie produttive a bassissima dissipazione energetica e a bassissimo inquinamento, e nuovi materiali poco inquinanti (ad esempio, già oggi la plastica potrebbe essere sostituita da sostanze di origine vegetale, come quelle derivanti dalla soia, ma sono ancora troppo costose per il “calcolo capitalistico”) il cui uso non è ancora economicamente razionale. Per questo più che sviluppare in senso quantitativo le forze produttive sociali, come legittimamente potevano pensare Marx o Lenin a partire dal grado di sviluppo del capitalismo che avevano dinanzi, si tratterà piuttosto di mettere un freno a questo tipo di sviluppo, e di riorientarlo in senso qualitativo. Sotto questo aspetto il pensiero ecologista, nella sua critica anticonsumista e antisviluppista, coglie nel segno, ma deraglia completamente quando immagina una economia “a misura d’uomo e di natura” sulla base degli attuali rapporti sociali, che sono per definizione rapporti nichilisti nei confronti dell’uomo e della natura. Questa critica si risolve, nei fatti, in una feconda sollecitazione per il capitalismo, stimolato a dotarsi di tecnologie sempre più sofisticate, in grado di risparmiare risorse energetiche e umane. Non è un caso che i cosiddetti standard qualitativi siano diventati negli ultimi venti anni un eccezionale strumento di lotta nella competizione tra le più grandi multinazionali mondiali, nonché un peso insopportabile per le imprese di piccole e medie dimensioni (infatti la “qualità” costa molto)».
Per il Manifesto in questione, invece, si tratta di portare alle estreme conseguenze le tendenze accelerazioniste immanenti al Capitalismo e da esso stesso in qualche misura frenate. «Infatti, come anche Lenin scrisse nel testo del 1918 sull’infantilismo di sinistra: “Il socialismo è inconcepibile senza l’enorme macchina capitalista basata sui più recenti progressi della scienza moderna. Non è concepibile senza un’organizzazione statale che prevede di sottoporre decine di milioni di persone alla più rigorosa osservanza di un’unica norma di produzione e di distribuzione. Noi marxisti, questo lo abbiamo sempre detto, e non vale neanche la pena di perdere nemmeno due secondi a parlare con gente che non lo ha capito (anarchici e una buona metà dei rivoluzionari della sinistra socialista)”». Ma Lenin polemizzava con il punto di vista anarcoide e piccolo borghese nel momento in cui per l’arretrata Russia rivoluzionaria del 1918 il «capitalismo di Stato tedesco» si offriva agli occhi dei bolscevichi come il modello da seguire in vista della transizione al socialismo: «Finchè in Germania la rivoluzione ancora tarda a “nascere”, il nostro compito e di metterci alla scuola del capitalismo di Stato tedesco, di cercare di assimilarlo con tutte le forze, di non rinunciare ai metodi dittatoriali per affrettare questa assimilazione ancor di più di quello che fece Pietro I» (p. 309). Qui Lenin esprime il punto di vista della rivoluzione proletaria considerata dalla prospettiva di un Paese che egli non si perita di definire «barbaro», socialmente arretrato, bisognoso di svilupparsi in senso capitalistico. Di notevole nella posizione di Lenin c’è l’idea che non bisogna ingannare e auto ingannarsi quando si tratta di fare i conti con la realtà: «Nessun comunista ha negato, a quanto pare, che l’espressione “repubblica socialista sovietica” significa che il potere dei soviet è deciso a realizzare il passaggio al socialismo, ma non significa affatto che riconosca come socialisti i nuovi ordinamenti economici» (p. 305). Questa lucidità analitica e politica in parte fu persa per strada durante il cosiddetto Comunismo di guerra, per rifare drammaticamente capolino alla fine della guerra civile, quando le illusioni “accelerazioniste” del periodo precedente si infransero contro la dura realtà di una rivoluzione entrata in pericolosa, e alla fine mortale, sofferenza. Sulla mia lettura della sconfitta della Rivoluzione d’Ottobre rimando il lettore a Lo scoglio e il mare.
Che senso ha dunque, tirare in ballo quella posizione leniniana oggi, nell’epoca della sussunzione totalitaria del pianeta al Capitale? «L’enorme macchina capitalista» non è già sufficientemente… enorme? Ciò che in Lenin suona come storicamente fondato, nel Manifesto suona invece come apologetico. Esagero? Vedete un po’ voi: «Come Marx era ben consapevole, il capitalismo non può essere identificato come l’agente della vera accelerazione. Ma allo stesso modo valutare la politica di sinistra come antitetica all’accelerazione tecnosociale è, almeno in parte, un grave travisamento. Se davvero la sinistra vuole avere un futuro, deve essere quello in cui essa stessa abbracci al massimo la sua repressa tendenza accelerazionista».
Né poteva mancare nel Manifesto una strizzatina d’occhio a Gramsci, riletto sempre in termini accelerazionisti: «La sinistra deve sviluppare egemonia sociotecnologica: sia nella sfera delle idee, che nella sfera delle piattaforme materiali». La tecnologia come strumento di lotta anticapitalista? Tenendo conto che la tecnologia capitalistica è l’espressione di peculiare rapporti sociali, che significa, in concreto, «sviluppare egemonia sociotecnologica»? Significa, forse, muoversi sullo stesso terreno della tecnoscienza capitalistica per conseguire obiettivi anticapitalistici? A occhio, mi sembra un’impresa quantomeno azzardata. Diciamo così.
«Il capitalismo ha iniziato a reprimere le forze produttive della tecnologia, o almeno, a dirigerle verso fini inutilmente limitati». Ancora una volta: in che senso «fini inutilmente limitati»? Ciò che nel Capitalismo decide dello sviluppo tecnologico è, in ultima analisi, la legge del profitto, che regola l’accumulazione e i momenti essenziali dell’economia capitalistica colta nella sua complessa totalità. Più che alle forze produttive della tecnologia, bisogna dunque por mente al grado di sfruttamento del lavoro vivo, il quale notoriamente ha molto a che fare con la composizione tecnica del capitale.
«Le guerre dei brevetti e la monopolizzazione delle idee sono fenomeni contemporanei che indicano sia il bisogno del capitale di superare la concorrenza, ma soprattutto l’approccio sempre più retrogrado del capitale alla tecnologia». Qui apro una piccola parentesi. Una volta Lenin parlò del conservatorismo tecnologico del Capitalismo maturo (vedi l’Inghilterra del suo tempo) giunto nella sua fase monopolistica. Come sempre, egli ne parlò in termini di tendenza generale, la cui complessa e contraddittoria fenomenologia andava indagata Paese per Paese, fase per fase. Se è indubbio che il monopolio giocò allora un ruolo importante nel fenomeno di “raffreddamento tecnologico”, la causa più profonda di questo fenomeno va ricercata tuttavia in una insufficiente valorizzazione del capitale che colpisce i settori più maturi dell’industria, là dove l’alta composizione organica del capitale tende a schiacciare il saggio del profitto. Quando ciò accade, il capitale industriale non solo tende a conservare la vecchia base tecnica della produzione, ma può anche decidere di abbandonare, in parte o integralmente, quei settori per penetrare in nuove sfere produttive, oppure nel mercato creditizio, in patria o all’estero, ossia là dove c’è la promessa di rendimenti migliori. Il rapporto tra accumulazione e propensione alla modernizzazione del sistema produttivo attirò l’attenzione dello stesso Adam Smith, il quale notò che il ritmo di accumulazione era tanto più veloce, quanto meno ricche e meno tecnologicamente avanzate erano le nazioni che si mettevano sulla scia dell’Inghilterra.
«L’approccio sempre più retrogrado del capitale alla tecnologia» non solo non è una “legge assoluta” nel Capitalismo del XXI secolo, ma essa non è sempre corrispondente alla realtà dei fatti, i quali mostrano piuttosto un continuo sviluppo della tecnoscienza. Uno sviluppo che, come sempre nel Capitalismo, è strettamente connesso alla bronzea legge del profitto. Di qui, accelerazioni, decelerazioni, battute d’arresto, nuove accelerazioni e via di seguito. Ho quasi l’impressione che gli autori del Manifesto vogliano essere più realisti del re, più capitalisti dei capitalisti: per loro la “distruzione creativa” non è ancora al giusto livello. Personalmente ritengo che ci sia già fin troppa distruzione…
Ma i nostri amici accelerazionisti sono assai più esigenti rispetto a chi scrive; per loro di Capitalismo, tecnoscienza inclusa, non ce n’è mai abbastanza. «Gli accelerazionisti intendono liberare le forze produttive latenti. In questo progetto, la piattaforma materiale del neoliberismo non ha bisogno di essere distrutta. Vogliamo accelerare il processo dell’evoluzione tecnologica. Ma ciò di cui argomentiamo non è tecno-utopismo. Mai credere che la tecnologia sia sufficiente a salvarci. Necessaria sì, ma mai sufficiente senza azione socio-politica. La tecnologia e il sociale sono intimamente legati l’uno all’altra, e il mutamento dell’uno potenzia e rinforza il mutamento dell’altra. Laddove i tecno-utopisti sostengono che l’accelerazione automaticamente eliminerà il conflitto sociale, la nostra posizione è che la tecnologia debba essere accelerata proprio perché necessaria per vincere i conflitti sociali stessi». Ma «accelerata» dove? quando? come? Si sta parlando della vigente società capitalistica, oppure si allude a una possibile società futura postcapitalistica? Non è forse a questa ipotizzata e auspicata società che spetterà il compito di regolarsi come meglio crederà circa la tecnologia? Domanda dirimente: che tipo di società “postcapitalistica” hanno in mente gli autori del Manifesto? Di che razza di «accelerazione umana» si parla?
È presto detto: «Qualsiasi trasformazione della società deve coinvolgere sperimentazione economica e sociale. Il progetto cileno Cybersyn è emblematico di un simile atteggiamento sperimentale, fondendo tecnologie cibernetiche avanzate con sofisticati modelli economici e una piattaforma democratica materializzata nella sua stessa infrastruttura tecnologica. Esperimenti simili furono condotti negli anni ’50 e ’60 anche nell’economia sovietica: la cibernetica e la programmazione lineare furono impiegate nel tentativo di superare i nuovi problemi affrontati della prima economia comunista. Che entrambi gli esperimenti non abbiano avuto successo si può ricondurre ai vincoli politici e tecnologici in cui questi pionieri cibernetici operavano». Ora, prescindendo da ogni altra considerazione, si può dar credito a persone che credono che l’economia sovietica degli anni ’50 e ’60 fosse la «prima economia comunista» della storia? Se poi a questa invitante concezione del “comunismo” sommiamo il palese feticismo tecnologico che traspira da tutti i pori del Manifesto, capite bene che la società prospettata dagli accelerazionisti non mi piace neanche un poco.
Per rendersi conto dell’ambiguità, sempre per rimanere sul terreno dell’eufemismo, che caratterizza il discorso politico del Manifesto è sufficiente leggere quanto segue: «Per raggiungere ognuno di questi obiettivi, a livello più pratico riteniamo che la sinistra accelerazionista debba pensare più seriamente ai flussi di risorse e denaro necessari alla costruzione di una nuova ed efficace infrastruttura politica. Al di là della formula del people power e dei corpi nelle strade, abbiamo bisogno di finanziamenti, sia da parte di governi che istituzioni, think tank, sindacati o singoli benefattori. Riteniamo che la localizzazione e l’indirizzamento di tali flussi di finanziamento siano essenziali per iniziare a ricostruire una efficace ecologia delle organizzazioni della sinistra accelerazionista». Un «potere di classe» finanziato dal nemico di classe ancora non si era mai visto. Ma quanto sono pragmatici e astuti questi accelerazionisti! A loro la rodata e sempre di nuovo confermata (anche dal presente Manifesto) astuzia del Dominio fa un baffo.
Eccone un esempio: «Abbiamo bisogno di promuovere una riforma dei mezzi di comunicazione su larga scala. Nonostante l’apparente democratizzazione che offrono internet e le reti sociali, i mezzi di comunicazione tradizionali rimangono cruciali per selezionare e definire narrazioni, assieme al possesso delle risorse economiche necessarie per continuare a promuovere il giornalismo investigativo. Portare questi organi il più vicino possibile al controllo popolare è cruciale per disarticolare lo stato attuale delle cose». Come questa auspicata «riforma dei mezzi di comunicazione su larga scala» possa in qualche modo produrre «nuovo potere sociale» resta per me un mistero, e forte rimane la sensazione che i riformisti dell’Accelerazione continua e permanente lavorino, loro malgrado (“a loro insaputa”) per il Re di Prussia. La sindrome della mosca cocchiera qui fa capolino.
«Il futuro ha bisogno di essere costruito. È stato demolito dal capitalismo neoliberista e ridotto ad una promessa al ribasso di maggiori disuguaglianze, conflitto e caos. Questa crisi dell’idea di futuro è sintomatica della situazione storica regressiva della nostra epoca, e non, come i cinici di tutto lo spettro politico vorrebbero farci credere, un segno di maturità scettica. Ciò che l’accelerazionismo propone è un futuro più moderno — una modernità alternativa che il neoliberismo è intrinsecamente incapace di generare. Il futuro deve essere infranto e riaperto ancora una volta, sganciando i nostri orizzonti verso le universali possibilità del Fuori». Detto che il nemico di tutto ciò che odora, anche alla lontana, di umano non è il «capitalismo neoliberista» ma il Capitalismo tout court; detto questo occorre ripetere che ciò che ha demolito il futuro è stata soprattutto la più grande menzogna del XX secolo: il “comunismo” in Russia, in Cina e negli altri Paesi cosiddetti “comunisti” e “socialisti”. L’esistenza del «socialismo reale», ossia di un miserabile Capitalismo di Stato aggressivo all’interno della società come all’estero, ha annichilito l’idea stessa di una comunità umana, di una comunità finalmente libera da miseria, violenza e coazioni di varia natura, e ha convinto milioni di sfruttati nel mondo che, dopo tutto, il sistema capitalistico non è poi così schifoso se paragonato al “comunismo”. Per questo il «futuro più moderno» proposto dagli accelerazionisti non mi sembra poi così alternativo rispetto all’escrementizia realtà che ci tocca subire tutti i giorni.
Il futuro immaginato degli accelerazionisti appare ai miei occhi fin troppo decrepito, ossia incapace di oltrepassare concettualmente l’odierna dimensione del Dominio, e tutto il gran parlare di cibernetica, di algoritmi piegati alle esigenze del «nuovo potere sociale» e di «un’accelerazione che sia anche ‘navigazionale’, processo sperimentale di scoperta all’interno di uno spazio di possibilità universale» può impressionare e affascinare solo il pensiero irretito in quel feticismo tecnologico che ancor prima di essere una “sovrastruttura” ideologica, è in primo luogo esso stesso struttura del dominio capitalistico.
Probabilmente anche il Manifesto per una politica accelerazionista paga un tributo alla lettura ideologica che i teorici del Capitalismo cognitivo* hanno fatto del general intellect, concetto che in Marx ha una pregnanza teorica e politica potentemente dialettica (rivoluzionaria), mentre nei teorici di cui sopra esso svolge una funzione ideologica chiamata a supportare chimerici programmi comunardi da realizzarsi hic et nunc, nell’ambito stesso del Capitalismo, nonché intellettualistiche congetture intorno a supposti «nuovi soggetti rivoluzionari» generati sempre di nuovo dalle trasformazioni strutturali che intervengono nel Capitalismo avanzato. In questo senso si può davvero parlare di “cattivi maestri”.
* «Siamo in una diversa fase di sviluppo dello sfruttamento capitalistico, quella che Carlo Vercellone – a proposito del rapporto fra capitale cognitivo e lavoro cognitivo – non chiama già più post-industriale, ma decisamente informatica. Una fase che ormai comincia a trovare il suo equilibrio, e in cui il rapporto di sfruttamento – nella attuale figura estrattiva – diventa assai difficile da definire, perché in quest’ambito c’è sicuramente confusione ed ibridazione di capitale fisso e lavoro vivo, forse riappropriazione di capitale fisso da parte dei soggetti stessi, e c’è un’emergenza di cooperazione sociale che probabilmente deve essere considerata come un dispositivo di autonomia» (T. Negri, La comune della cooperazione sociale). Probabilmente però le cose non stanno affatto così.
Probabilmente ciò che Negri e i teorici del Capitalismo cognitivo registrano come «emergenza di cooperazione sociale» e «dispositivo di autonomia» altro non è che l’ulteriore espansione quantitativa e, soprattutto, qualitativa del rapporto sociale capitalistico in ogni ambito della prassi sociale. Per quanto riguarda la «tematica antropologica» ai tempi del «capitalismo cognitivo», Negri travisa analiticamente e capovolge concettualmente l’individuo capitalistico ad alta composizione organica (secondo il concetto marxiano ripreso da Adorno in Minima moralia) dei nostri tempi. La cosa appare abbastanza chiara nei passi che seguono: «L’elemento importante da considerare, qui, è che ormai il comando capitalista non opera più semplicemente una sorta di iniezione di elementi tecnologici nel corpo umano, ma ha ora a che fare in maniera altrettanto importante con una capacità di riappropriazione e di trasformazione autonoma degli elementi macchinici in strutture dell’umano. Oggi quando si parla di “passioni sociali” si deve parlare di passioni legate al consumo passivo di tecnologie ma anche e soprattutto di consumo attivo». Più che una puntuale critica dell’alienazione capitalistica e della sussunzione totalitaria dell’individuo al Capitale, troviamo nell’elaborazione teorica di Negri robusti fili che attraverso l’esaltazione del «lavoro cognitivo» la connettono direttamente al feticismo tecnologico e all’etica borghese – che tende a farsi apologia – del «lavoro buono». Persino la rivendicazione di un reddito sociale garantito, nella misura in cui è concepito come «validazione sociale e un mezzo di finanziamento di questa rete densa di attività non mercantili che la società del General Intellect crea, al di là del salariato» (L. Baronian, C. Vercellone, Moneta del comune e reddito sociale garantito), appare informata da quel tipo di etica. La stessa cosa può dirsi circa la parola d’ordine negriana del «rifiuto del lavoro». L’ossessione lavorista, declinata “cognitivamente”, sembra un marchio di fabbrica dei teorici del Capitalismo cognitivo.