I nostri avi condannavano l’Ebreo a vivere
di usura e di baratti; e poi lo maledicevano
come usurajo e barattiere (Carlo Cattaneo).
«All’inizio del suo discorso Abu Mazen ha fatto riferimento al Sionismo e alla creazione dello Stato per gli ebrei come a un progetto coloniale. Su questo il dibattito storico in effetti è aperto da lungo tempo. Persino alcuni accademici israeliani ebrei di fama internazionale, come Ilan Pappè, affermano che il Sionismo fu un movimento coloniale e non solo nazionalista come invece, per decenni, ha ripetuto la storiografia ufficiale. Poi Abu Mazen ha dato a chi lo ascoltava quella che ha descritto come una «lezione di storia» affermando che lo sterminio degli ebrei, l’Olocausto, non fu causato dall’antisemitismo di Hitler e dei nazisti ma dalla «funzione sociale» degli ebrei legata alle loro professioni che riguardavano il prestito di denaro e le banche. Un classico stereotipo antisemita che ha scatenato reazioni a raffica, in Israele e in Occidente. […] Il primo ministro israeliano Netanyahu, invitato a nozze, lo ha fatto a pezzi. ”A quanto pare il negazionista dell’Olocausto è ancora un negazionista dell’Olocausto. Invito la comunità internazionale a condannare il grave antisemitismo di Mahmoud Abbas (Abu Mazen). Con un picco di ignoranza e faccia tosta, ha dichiarato che gli ebrei d’Europa non son stati perseguitati perché ebrei, ma perché prestavano denaro su interesse”, ha detto Netanyahu, che sa bene che anche per questi temi passa la demolizione dei diritti dei palestinesi. Qualche anno fa Netanyahu definì il mufti islamico di Gerusalemme Hajj Amin al Husseini, un accanito oppositore della fondazione di Israele, l’ispiratore della “soluzione finale”, lo sterminio del popolo ebraico messo in atto da Hitler. Una tesi smentita da storici israeliani ed ebrei ma che ha lasciato il segno» (M. Giorgio, Il Manifesto, 3/05/2018).
Il popolo palestinese, oppresso socialmente, nazionalmente e ideologicamente (su questo aspetto da tutte le parti in causa, come vediamo), non poteva “vantare” leader peggiori. E intanto una guerra totale tra Iran e Israele diventa sempre meno improbabile, con quel che ciò implica già oggi per i palestinesi in termini di ulteriore peggioramento della loro tragica condizione.
«Un documento riemerso dalla National Library di Israele getta nuova luce sui rapporti fra la Germania nazista e il Grand Muftì di Gerusalemme Amin al-Husseini. E consolida in qualche modo la tesi del premier Benjamin Netanyahu che il religioso abbia giocato un ruolo nell’incitare allo sterminio degli ebrei. È un telegramma spedito dal capo delle Ss Heinrich Himmler a Husseini, il 2 novembre 1943, nel ventiseiesimo anniversario della Dichiarazione di Balfour. Himmler ricorda che la Grande Germania è stata una “strenua sostenitrice” della battaglia “degli arabi in cerca di libertà, in particolare in Palestina, contro gli ebrei invasori”. Il nemico in comune, continua, “sta creando una solida base per l’unità fra la Germania e gli arabi nel mondo. In questo spirito, vi auguro, nell’anniversario della Dichiarazione di Balfour, di continuare la lotta fino alla grande vittoria”. Il documento originale, ingiallito ma in perfetto stato di conservazione, è stato pubblicato sul giornale Haaretz. E naturalmente si è riaccesa la discussione sulle frasi di una anno e mezzo fa di Netanyahu, quando aveva accusato il Gran Muftì di aver suggerito a Hitler di “bruciare” gli ebrei, il loro sterminio. Poi il premier aveva fatto marcia indietro in mancanza di prove storiche. Il telegramma non prova che quella conversazione abbia veramente avuto luogo ma conferma i rapporti “calorosi” fra i nazisti e il leader religioso. L’incontro fra Hitler e il Gran Muftì è però del novembre 1941, due anni prima del telegramma di Himmler. Lo sterminio degli ebrei, come conferma Dina Porat del Museo dell’Olocausto Yad Vashem, sempre citato da Haaretz, “era già cominciato da un pezzo” e i nazisti stavano già uccidendo gli ebrei “e avevano già abbandonato l’idea che l’emigrazione forzata e l’espulsione fossero una soluzione”. Il telegramma ribadisce comunque l’esistenza di un’alleanza ideologica fra nazisti e il Muftì in quel preciso momento storico» (G. Stabile, La Stampa, 30/03/2017)».
Della serie: il nemico del mio nemico è mio amico.
«Abu Mazen, pur senza prendere pubblicamente le distanze, si è mostrato perplesso sulle iniziative prese a Gaza. Poi, però, per rimettersi in sintonia con i tempi che si annunciano, si lascia andare a considerazioni antiebraiche davvero strabilianti: parlando a Ramallah al cospetto del Consiglio palestinese, in un discorso di novanta minuti ripreso integralmente dalla tv, Abu Mazen ha detto che gli ebrei la Shoah se la sono cercata. Secondo lui quel che accadde agli israeliti ai tempi del nazismo non va ricondotto alla loro fede religiosa o appartenenza etnica (tra l’altro, a suo giudizio, gli ebrei ashkenaziti non sarebbero nemmeno semiti), bensì alle loro “funzioni sociali”, vale a dire “usura, attività bancaria e simili”» (P. Mieli, Il Corriere della Sera, 3/05/2018). Evidentemente la carta antisemita, spesso nascosta sotto quella meno ripugnante e storicamente più presentabile dell’antisionismo, può ancora svolgere il suo odioso ufficio sul tavolo del risentimento e del disagio sociale. Questo anche a proposito di “populismo”.
«È scattata oggi la mobilitazione della comunità ebraica romana dopo l’approvazione della legge che vieta di accusare la Polonia di complicità nell’Olocausto e di riferirsi ai campi di concentramento nazisti in Polonia come “polacchi”. […] “Non possiamo non essere preoccupati per quello che accade anche in Ungheria e in Austria, ma anche in alcune zone della Germania”, ha dichiarato Ruth Dureghello, presidente della comunità ebraica di Roma» (Globalist, 8/02/2018). Si segnalano diffuse manifestazioni di antisemitismo anche in Bulgaria, Ucraina e Croazia. Scrive Fabio Nicolucci: «La negazione della Shoah si inscrive in un discorso più vasto e complesso, sintetizzabile nelle “teorie cospirative”: nell’idea di un confitto mortale con i poteri forti ed occulti nelle mani della “internazionale ebraica”». Vedi George Soros, il finanziere ebreo-ungherese «accusato di favorire l’immigrazione dall’Africa e dall’Asia in Europa con lo scopo di una vera e propria sostituzione etnica ai danni degli europei. Ora persino Benyamin Netanyahu è infuriato con lui perché finanzia tutti i movimenti palestinesi e israeliani che contrastano la politica del governo del Likud» (Affaritaliani.it). «È questo il filo nero che unisce, nella storia contemporanea, il prima (I protocolli dei savi di Sion, il fortunato falso della polizia zarista) e il dopo, la Shoah. Il negazionismo, o la giustificazione (Abu Mazen), si annida oggi in molti discorsi pubblici nei quali l’ antisemitismo riesce, in forme variegate, quasi sempre a fare capolino: lo strapotere delle banche, i poteri forti, la solidarietà verso regimi terroristici nemici mortali di Israele, etc.» (F. Nicolucci, Il Mattino, 4/05/2018). Abu Mazen, conclude Nicolucci, ha forse inteso fare «una strizzatina d’occhio» alla pancia insofferente dell’Europa e dell’Occidente, se non apertamente utilizzarla per i suoi obiettivi politici.
Da Carlo Cattaneo e le interdizioni imposte agli ebrei:
Attilio Milano, autore di un’apprezzabile Storia degli ebrei in Italia (1962), definì Cattaneo «il più solido e agguerrito paladino della risoluzione integrale del problema ebraico»; un secolo dopo, altri personaggi si cimenteranno, con ben altra “radicalità” e con opposta intenzione, nella soluzione finale del problema ebraico. C’è mancato davvero poco, pochissimo, che questa impresa non si realizzasse completamente, al 100 per 100. C’è da dire che, come ricorda Paolo Maltese, «in Germania l’ostilità avrebbe preso a svilupparsi dopo la grande crisi finanziaria del 1873, che avrebbe rovinato parecchi appartenenti alla classe media. Crisi che finì, infatti, per fare degli ebrei – visti come potenza economica – il capro espiatorio della situazione. […] Nel 1881, Karl Eugen Dühring, insegnante di economia e filosofia all’università di Berlino, nel suo Die Judenfrage als Rassen, Sitten und Kullturfrage, dipingeva, a sua volta, ai propri studenti gli ebrei come una razza il cui stesso sangue era maledetto». Ed era esattamente in questa accezione che negli anni Settanta del secolo scorso, mia madre, una proletaria completamente digiuna di storia e di politica, e che sicuramente non avrebbe nemmeno saputo indicare l’ubicazione geografica di Israele (né di qualche altra nazione, per la verità), mi dava dell’ebreo tutte le volte che intendeva sottolineare il mio malsano comportamento. Probabilmente è anche per questo che ho sempre nutrito una forte simpatia e ammirazione nei confronti degli ebrei. Scherzo. Naturalmente la cara donna usava quello che nella sua testa suonava come una sanguinosa offesa solo per sentito dire, e come sinonimo, appunto, di persona cattiva, egoista, priva di scrupoli e di sentimenti positivi nei confronti del prossimo. Ho aperto questa brevissima parentesi biografica non in odio a mia madre, che in realtà amo, ma solo per dire quanto radicato sia rimasto il pregiudizio antiebraico soprattutto presso gli strati sociali che occupano i gradini più bassi della scala sociale, che difatti sono i più esposti alla sirena razzista: «Gli africani ci rubano il lavoro, sporcano le strade e insidiano le nostre donne: cacciamoli!». Perché gli ebrei sono diventati «il capro espiatorio della situazione» per eccellenza? È questo il rognoso problema che Cattaneo affronta. […] Come scrivevano Horkheimer e Adorno (Elementi dell’antisemitismo), «Gli ebrei non furono i soli ad occupare la sfera della circolazione. Ma sono stati rinchiusi in essa troppo a lungo per non riflettere, nella loro natura, l’odio di cui sono stati sempre oggetto. Ad essi, a differenza dei loro colleghi ariani, era precluso, in larga misura, l’accesso alla fonte del plusvalore. Solo tardi e con difficoltà hanno potuto accedere alla proprietà dei mezzi di produzione. […] Il commercio non era la loro professione, ma il loro destino». Un destino che agli ebrei fu imposto dal processo storico-sociale, non da loro particolari caratteristiche innate di qualche tipo.
La tesi centrale del saggio (Ricerche economiche sulle interdizioni imposte dalla legge civile agli Israeliti, Vallecchi, 2017) di Cattaneo pubblicato nel 1837, peraltro già ampiamente anticipata sopra, è abbastanza semplice, e provo a riassumerla in poche battute. Gli ebrei furono messi nelle condizioni di accumulare immensi patrimoni finanziari da quello stesso mondo ostile che nel corso dei secoli aveva congiurato per eliminarli dalla faccia della terra, e poi ne subiranno le tragiche conseguenze come se si fosse trattato di un loro libero orientamento, e non, appunto, delle conseguenze inattese di altrui comportamenti. Quel mondo fece di tutto, nei fatti (“oggettivamente”), per conservarli e, al contempo (e in piena coscienza), per annientarli. Questa dialettica è ben visibile nelle pagine del saggio, e ne costituisce anzi un importante filo conduttore. «La depressione civile degli Ebrei era per altra parte ancora un fomento alla loro opulenza». Non volendoli assorbire e sciogliere nel processo storico; tenendoli lontani dalle attività produttive (dall’agricoltura, in primis) e dalla vita civile (dalla politica, dalla cultura, dalla scienza, dalla moda), il mondo cristiano li ha conservati in guisa di comunità chiusa, facendone, loro malgrado, una perfetta macchina per accumulare tesori, salvo poi incolpare di questo gli stessi ebrei, cioè le vittime delle sue interdizioni!
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