La nave è come una nave
ed essendo una nave
è abbastanza normale che vada in mare.
Il mare com’è naturale
immobile e piatto
è quasi perfetto sta lì sempre uguale.
La nave ha anche un motore
ed avendo un motore
non sa dove va ma continua a andare.
Avanti avanti avanti
si può spingere di più
insieme nella via a testa in su.
Il mare com’è strano il mare
non è che non sento la sua poesia
ma mi fa vomitare.
(G. Gaber, La nave).
In che senso tutti gli individui (ricchi e poveri, padroni e lavoratori, dominanti e dominati, capi e subalterni) condividono la stessa barca? Corrisponde al vero che tutti, a prescindere dalla loro diversa posizione sociale, hanno interesse a che la barca supposta comune viaggi a vele spiegate sul Mare del Progresso e che non vi affondi mai? E poi, di che barca stiamo parlando? Chiediamo lumi allo scozzese Adam Smith, per molti «il padre della scienza economica», nonché moralista, nell’accezione squisitamente filosofica del concetto, di assoluta grandezza.
«I salari correnti del lavoro dipendono ovunque dal contratto che comunemente si conclude tra queste due parti [lavoratori salariati e padroni] i cui interessi non sono affatto gli stessi. Gli operai desiderano ricevere il più possibile, i padroni dare il meno possibile. I primi sono propensi a coalizzarsi per elevare il salario, i secondi per diminuirlo. […] In tutte queste contese i padroni possono resistere più a lungo. Un proprietario terriero, un agricoltore, un padrone manifatturiero o un mercante, anche senza impiegare un solo operaio, possono in genere vivere un anno o due sui fondi che possiedono mentre molti operai non potrebbero sopravvivere un mese e quasi nessuno un anno. Nel lungo periodo l’operaio può essere tanto necessario al padrone quanto il padrone all’operaio, ma la necessità non è altrettanto immediata» (1). Marx, che ragionava sulle cose del mondo assumendo il punto di vista della totalità (storica e sociale) mediata dall’interesse di classe (quello dei lavoratori), scrisse invece quanto segue: «Che sospendendo il lavoro, non dico per un anno, ma solo per un paio di settimane, ogni nazione creperebbe, è una cosa che ogni bambino sa» (2).
In ogni caso la debolezza della posizione operaia ha come suo maligno presupposto storico e sociale il monopolio dei mezzi di produzione (e quindi di distribuzione) da parte di chi dispone di capitali; ha cioè come suo imprescindibile fondamento la separazione tra Capitale e Lavoro e la subordinazione del secondo al primo. In tal modo, chi detiene la proprietà dei mezzi che creano sempre di nuovo la ricchezza sociale nell’attuale forma capitalistica si appropria con pieno diritto (il diritto capitalistico, beninteso) il prodotto creato dai lavoratori. Ovviamente nulla importa, in questo fondamentale discorso, se il padrone dei mezzi della produzione; se il capitalista sia un singolo individuo oppure lo Stato: in tempi di statalismo montante una certa “pignoleria concettuale” non guasta, almeno all’avviso di chi scrive.
Chi ha il Capitale, ha tutto, e alla fine (cito Smith) «l’intransigenza dei padroni» ha la meglio sulla «maggioranza dei lavoratori», i quali dopo ogni lotta, per quanto clamorosa e violenta essa sia, devono «sottomettersi per assicurarsi la sopravvivenza immediata», e a ciò segue generalmente «la rovina dei capipopolo», anche «per l’intromissione della magistratura» sollecitata a intervenire con estrema severità dalla coalizione dei padroni (p. 109). Paradossalmente, la classe che crea la ricchezza sociale si trova in una posizione di subalternità nei confronti delle classi che non creano alcuna ricchezza. In realtà si tratta di una condizione del tutto logica (razionale) sulla base dei vigenti rapporti sociali. Per apprezzare l’irrazionalità e la disumanità della cosa occorre conquistare il punto di vista umano, il quale a mio avviso oggi coincide con il punto di vista radicalmente anticapitalistico, e solo con quello.
Apro una brevissima parentesi. Nel mondo progressista oggi va di moda lo slogan «Restiamo umani!», e questo soprattutto in risposta al dilagante razzismo che prende di mira soprattutto gli immigrati. Non so chi legge, ma alle mie orecchie quello slogan suona ormai come l’ennesimo luogo comune del politicamente corretto di marca sinistrorsa, il quale peraltro sul piano propagandistico non sortisce effetto alcuno. Più che di «restare umani», un invito che ingenuamente cela il fondamento disumano della nostra vita quotidiana, si tratta piuttosto di diventare umani. Ma non voglio impiccarmi agli slogan, e dunque anch’io grido (senza alcuna convinzione): Restiamo umani!
Riprendiamo il filo del discorso. Chi crea tutta la ricchezza sociale deve rivolgersi al capitalista per riceverne una minima parte sottoforma di salario. Smith ci dice che non è stato sempre così: «Nella situazione originaria che precede sia l’appropriazione della terra che l’accumulazione dei fondi [capitali], tutto il prodotto del lavoro appartiene al lavoratore, che non ha né proprietario fondiario né padrone con cui spartirlo» (p. 107). Nella concezione del mondo smithiana, che concepisce il Capitalismo come una categoria eterna (sebbene con innesti di feconde contraddizioni come quella appena vista), il lavoratore originario, “precapitalistico”, è al contempo lavoratore, proprietario fondiario e capitalista, e così egli può mettere le mani sul salario, sulla rendita fondiaria e sul profitto, secondo la famosa «formula trinitaria» del valore che Marx sottoporrà a severa critica (3).
In sostanza Smith ci dice che in linea di principio, oltre che sulla base della genesi storica del Capitalismo («In quello stadio primitivo e rozzo della società che precede l’accumulazione dei fondi e l’appropriazione della terra»), una società può anche non conoscere né la figura sociale del proprietario fondiario, cui spetta una parte della torta confezionata dal lavoratore sottoforma di rendita, né quella del capitalista, cui spetta il profitto – nonché, aggiunge Marx senza le note ambiguità smithiane, il capitale anticipato per l’acquisto dei fattori della produzione: lavoratori («capitale variabile») e mezzi di produzione («capitale costante»). Il profitto, osserva Smith con grande acume scientifico, non dev’essere confuso con il salario che il padrone paga a chi supervisiona e dirige la produzione per conto suo: anche se in tutta la sua vita un padrone non mettesse mai piede nella propria fabbrica, egli avrebbe diritto al profitto solo in quanto investitore di capitale, come capitalista, appunto. Coloro che vivono di salari non vanno confusi con chi vive di rendita e di profitto, redditi che provengono da «deduzioni dal prodotto del lavoro» (p. 108).
Scriveva Marx a proposito della «cosiddetta accumulazione originaria del capitale»: «Quel che chiedeva il sistema capitalistico era una condizione servile della massa del popolo; la trasformazione di questa in mercenari, e la trasformazione dei suoi mezzi di lavoro in capitale» (4). Per campare, chi non ha mezzi di lavoro (cioè capitale da investire) deve vendere la propria capacità lavorativa, e per somma quanto crudele ironia, in base al sentire comune egli deve pure ringraziare chi gli dà un salario in cambio di quella capacità alienata, ossia chi lo sfrutta! Che bella barca, quella capitalistica!
«Non c’è futuro pacifico per l’umanità se non nell’accoglienza della diversità, nella solidarietà, nel pensare all’umanità come una sola famiglia». Faccio interamente mio l’«umanissimo monito» che Francesco ha voluto lanciare dalle colonne del Sole 24 Ore (ogni mezzo è buono per diffondere la Buona Novella!). A mio avviso, la sola diversità che bisognerebbe eliminare dalla faccia della Terra, perché contraddice in radice ogni discorso sulla fratellanza umana rendendolo un pietoso ritornello “buonista” in grado solo di massaggiare qualche coscienza depressa o di pulire qualche coscienza sporca, è quella relativa alle classi sociali. Non si dà vera umanità nella società divisa in classi sociali: si tratta di un fatto confermato tutti i santi giorni che non ha nulla a che vedere con la buona o con la cattiva volontà delle persone, a cominciare da quelle che ci governano.
«La speranza», continua l’acciaccato Papa (la sessualità mal governata è una brutta bestia, Santità!), «non è virtù per gente con lo stomaco pieno e per questo i poveri sono i primi portatori della speranza e sono i protagonisti della storia». Diciamo che potrebbero diventarlo. A patto però che «i poveri» conquistino il punto di vista anticapitalista di cui sopra, affondino la barca capitalistica e costruiscano, per rimanere nella metafora marinaresca, una nave completamente nuova. Lo so, sono un tantino esigente.
(1) A. Smith, La ricchezza delle nazioni, pp. 108-109, Newton, 1995.
(2) Lettera di Marx a Kugelmann, 11 luglio 1868, in Marx-Engels, Lettere sul Capitale, p. 119, Laterza, 1970.
(3) «Capitale-profitto, terra-rendita fondiaria, lavoro-salario, questa è la formula trinitaria che abbraccia tutti i misteri del processo di produzione sociale. […] Capitale, terra, lavoro! Ma il capitale non è una cosa, bensì un determinato rapporto di produzione sociale, appartenente ad una determinata formazione storica della società. […] In questa trinità economica collegante le parti costitutive del valore e della ricchezza in generale con le sue fonti, la mistificazione del modo di produzione capitalistico è completa» (K. Marx, Il Capitale, III, pp. 926-943, Editori Riuniti, 1980).
(4) K. Marx, Il Capitale, I, p. 784, Editori Riuniti, 1980. «Il capitolo sull’accumulazione originaria vuole solo tracciare la via attraverso la quale, nell’Europa occidentale, l’ordinamento economico capitalistico è uscito dal seno dell’ordinamento economico feudale. Esso espone quindi il movimento storico che, separando i produttori dai loro mezzi di produzione, trasforma i primi in salariati (proletari nel senso moderno della parola), e i detentori dei mezzi di produzione in capitalisti» (Lettera di Marx alla redazione di Otiecestvennye, novembre 1877, in Marx-Engels, Lettere sul Capitale, 156-157).
Come si fa a restare umani in un mondo disumano? La consapevolezza della propria “umanità” si acquisisce sicuramente in contrapposizione al disumano, un po’ come le donne hanno fatto nei loro collettivi di autocoscienza per definire il loro “essere donna”..purtroppo, la concettualizzazione, se non passa la prova della realtà, resta una pura antinomia (vedi le filosofe della differenza), si resta irretiti nel desiderio senza via di uscita. Gli umanisti di ogni epoca hanno sicuramente cercato di definire l’umano in contrapposizione al disumano dei loro tempi e ci hanno lasciato le loro profonde aspirazioni umane come eredità culturale. Tuttavia restano, appunto, delle aspirazioni, dei desideri…il fatto è non sappiamo ancora cosa sarebbe l’umano in un mondo senza divisioni di qualsiasi genere, figuriamoci definirsi “umani” in un mondo globalizzato da vampiri e zombies! Perciò, come ho già scritto a qualche amico di don Ciotti (che stimo con lo sguardo- umano- che- non -è- ancora, come ricordi tu stesso), non è possibile restare umani in un mondo disumano cercando di addolcirlo con lo zuccherino della bontà. Qui si tratta di diventare umani!
Concordo perfettamente e ti ringrazio. Come diceva Adorno, «Non si dà vera vita nella falsa», e così non si dà autentica umanità (e libertà) nella società radicalmente disumana. Personalmente trovo “antipatico” lo slogan «Restiamo umani» perché, al di là dell’intenzione politica che lo sottende e che ovviamente condivido (sollecitare la solidarietà della gente nei confronti “degli ultimi” e così via), esso dà a intendere che chi lo usa è “già” umano, e che dall’alto della sua umanità giudica e combatte l’altrui disumanità. Invece occorre comprendere, a mio avviso, che la disumanità riguarda tutti, che attraversa tutti i corpi, tutte le menti e tutte le – metaforiche – anime, e che si tratta appunto di reagire a questa condizione radicata nella materialità dei vigenti rapporti sociali. Certo, il COME reagire è di una difficoltà che toglie il respiro. Ti auguro una buona giornata. Ciao!
Concordo pienamente. L’umano o è “globale” o non lo è. Non è uno slogan a uso e consumo ma l’unica alternativa possibile che si pone agli esseri umani. Buona giornata