Una parte della borghesia desidera di portar
rimedio ai mali della società per assicurare
l’esistenza della società borghese (Marx-Engels).
Accetta un pasto e riceverai ordini (Lu Hsün).
Mentre con qualche ansia attendo di conoscere che ne sarà del cosiddetto reddito di cittadinanza, finito com’era prevedibile nelle sabbie mobili delle compatibilità economiche generali, intendo svolgere una breve riflessione sul significato sociale, politico e ideologico di quella misura altamente “innovativa” e “rivoluzionaria”.
Com’è noto, la richiesta di un reddito (di un sussidio, o come altro vogliamo chiamarlo) per i disoccupati non è nata “dal basso”, non è stata una rivendicazione avanzata dai proletari disoccupati nel corso di una lotta, ma si è sviluppata e precisata interamente sul terreno della contesa elettoralistica, come proposta demagogica e “populista”, avanzata soprattutto dal Movimento 5 Stelle, intesa 1. a catturare il consenso politico-elettorale di ampie fasce di proletariato meridionale e di piccola/media borghesia “proletarizzata”, e 2. a incanalare, controllare e stemperare la tensione sociale generata dalla crisi economica che imperversa in questo Paese ormai da dieci anni.
La richiesta peraltro ha avuto fin dall’inizio un preciso orientamento politico-ideologico, come attesta il concetto stesso di reddito di cittadinanza, di un sussidio cioè riconosciuto dallo Stato al disoccupato nella sua qualità di suddito (o cittadino) appartenente a una determinata nazione, quella italiana. L’impatto ideologico e psicologico sulle masse più povere del Paese è dunque chiaro: esse sono invitate a vedere nello Stato capitalistico non il Nemico da abbattere, ma la paterna e filantropica autorità che concede loro di vivere “dignitosamente”. Ciò sviluppa nei proletari sussidiati (potenzialmente a vita) un senso di ostilità nei confronti dei non cittadini (gli immigrati, ad esempio) (*) e di chiunque osasse remare contro lo Stato, criticarlo, combatterlo, e questo semplicemente perché lo Stato dà loro da vivere. Non si sputa sul piatto in cui si mangia! In Venezuela, ad esempio, i più agguerriti e feroci sostenitori del regime chávista sono quei proletari che vivono del sussidio statale basato sulla rendita petrolifera. «In questo momento è soprattutto il partito di Grillo & Casaleggio a essere molto interessato a spingere il pedale del “populismo socialmente orientato” perché intende crearsi un’ampia e durevole base di consenso clientelare-elettorale a cui attingere. Più che il modello “Prima Repubblica”, la cosa evoca ai miei occhi il modello chávista, naturalmente cambiando quel che c’è da cambiare: a cominciare dal fatto che il clientelismo “bolivariano” può contare sulla rendita petrolifera, mentre quello italiano può contare sulla fiscalità generale, come sa bene lo zoccolo duro dell’elettorato leghista: “Roma ladrona, la Lega non perdona!”» (Sovrano è il Capitale. Tutto il resto è illusione e menzogna).
Prima ho scritto «sussidiati potenzialmente a vita» perché una volta introdotta una misura di quel genere in un Paese come l’Italia, che ha una vasta area di capitalismo arretrato con relative magagne sociali, sarà difficilissimo poi toglierla senza suscitare violente reazioni da parte dei sussidiati, con ciò che ne segue anche in termini di consenso elettorale. In Italia ci vuole poco per passare dalla condizione di eroe osannato dalla folla ammassata sotto un balcone, a cadavere sbertucciato e calpestato dalla stessa folla. Faccio della facile metafora, si capisce.
Gran parte del debito pubblico italiano si spiega proprio con l’inerzia politica della “Prima” e della “Seconda Repubblica” nei confronti di un’organizzazione sociale sempre più insostenibile dal punto di vista economico e finanziario. Ad esempio, è facile parlare di spending review, se ne discute con insistenza dal 2012; molto più difficile è praticarla, perché si toccherebbero molti interessi, grandi e piccoli, e gli interessi, com’è noto, votano… È prevedibile che l’area capitalisticamente avanzata del Paese, che da sempre lamenta il parassitismo sociale di un Mezzogiorno che drena ricchezza senza crearne di nuova, cercherà di ostacolare in tutti i modi l’implementazione del reddito di cittadinanza, almeno nella sua versione integrale, cosa che già mette in allarme i leghisti, da sempre paladini degli interessi “nordisti” e che oggi, con le loro velleità nazionalistiche, rischiano di “meridionalizzarsi”.
Può il Paese con il più alto debito in Europa, la più bassa crescita economica e la più bassa produttività sistemica di tutto l’Occidente capitalisticamente avanzato distribuire milioni di “stipendi” senza ricevere nulla in cambio dai sussidiati? È questo il cruccio degli economisti e dei politici “più responsabili” di questo Paese, i quali inorridiscono solo al pensiero di un reddito di cittadinanza, che a pieno regime (è proprio il caso di dirlo) dovrebbe costare intorno ai 15 miliardi all’anno. Ma c’è chi ipotizza cifre molto più alte, tali da evocare l’inevitabilità di un “colpo di Stato” organizzato dai “poteri forti” nazionali e internazionali. Lo spread toccherà punte di inusitata altezza. E forse l’ex Cavaliere Nero, l’ex Male Assoluto di turno (quanti ne fabbrichiamo in Italia!), insomma Silvio Berlusconi potrà prendersi qualche rivincita: chi di spread colpisce… E poi, avvertono i “responsabili di cui sopra”, «prima di trasferire ricchezza dall’alto verso il basso, bisogna crearla, questa benedetta ricchezza!» La socialdemocrazia svedese lo ha sempre insegnato: ingrassa la pecora e poi tosala un pochino, quanto basta a reggere la baracca capitalistica senza troppi affanni.
L’intenzione, ha detto Di Maio per rispondere alle obiezioni dei detrattori, «non è quello di dare soldi alle persone per stare sul divano»: chi riceverà un assegno mensile di circa 780 euro (il 60 percento del reddito medio della Repubblica) dovrà impegnarsi nella formazione e dovrà accettare le proposte di lavoro che gli verranno presentate dal Centro per l’impiego, come accade nei Paesi che da anni conoscono forme di sussidio statale simili al reddito di cittadinanza traendone un gran beneficio. C’è da dire che anche una parte del mondo imprenditoriale confida sull’effetto keynesiano sulla domanda di beni e servizi che la misura governativa potrebbe avere, con relativo aumento del gettito fiscale. Anche economisti liberisti come Milton Friedman e F. von Hayek ai loro tempi furono tutt’altro che contrari all’introduzione di un sussidio in denaro (non in beni di prima necessità e in servizi sociali) concesso dallo Stato ai “meno fortunati”, sia in vista dei virtuosi “effetti keynesiani” (virtuosi, beninteso, soprattutto per chi vive di profitti), sia come rafforzamento dell’ordine sociale in situazioni di alta disoccupazione.
Vedremo come nella situazione concreta italiana si tradurrà la misura governativa in questione, la quale per il movimento di Grillo e Casaleggio rappresenta una linea rossa invalicabile: o reddito o morte (del Governo Conte)! Per quanto mi riguarda la dubbia sostenibilità economica della proposta pentastellata non rappresenta un problema, non avendo io a cuore i sacri interessi nazionali, essendo un dichiarato irresponsabile. Tanto peggio tanto meglio? Magari! Purtroppo il peggio (la bancarotta di una società, di un Paese) non genera spontaneamente il meglio (la coscienza, lo spirito di iniziativa, la speranza, la rivoluzione: «sì, campa cavallo!» Appunto).
Nella misura in cui il reddito di cittadinanza, in quanto reddito svincolato dall’attività lavorativa, è finanziato dallo Stato attingendo alla fiscalità generale, esso realizza di fatto una decurtazione più o meno pesante e diretta di salari e pensioni, comprese le pensioni degli ex lavoratori. Si tratta insomma di una “solidarietà” pelosa e rognosa che lo Stato chiede a tutti suoi sudditi per aiutare i fratelli d’Italia meno fortunati, più colpiti dalla globalizzazione capitalistica e dalle continue rivoluzioni tecnologiche, le quali creano una disoccupazione strutturale che la società non è in nessun modo in grado di eliminare, se non con mezzi malthusiani… Non dimentichiamo che il teorico di rifermento di Grillo su questo tema è sempre stato Jeremy Rifkin, forse il primo che ha parlato di «fine del lavoro».
I lavoratori che hanno la “fortuna” di generare plusvalore sono cordialmente invitati a produrne sempre di più per alimentare il fondo che finanzia il reddito non solo dei proletari disoccupati, ma di tutti quegli strati sociali (piccola e media borghesia) che sono precipitati nei piani bassi della scala sociale, cosa peraltro che accade sempre più spesso. Perché da qui non si scappa: solo il lavoro salariato produce la ricchezza che circola nella società nelle forme più disparate e nei modi più complessi, e proprio per questo difficilmente riconducibili alla fonte originaria. È su questa maledizione sociale che si basano tutte le forme di reddito (di cittadinanza, di esistenza, di inclusione) a carattere interclassista che circolano nel dibattito politico degli ultimi dieci anni. Una maledizione sociale che resta per l’essenziale incomprensibile soprattutto ai teorici del “Capitalismo cognitivo” (**).
Sempre più urgente appare la ripresa della “classica” lotta operaia per la diminuzione dell’orario di lavoro a parità di salario (tenendo conto della complessa organizzazione capitalistica del XXI secolo), per migliori condizioni di lavoro (riduzione dei ritmi produttivi ecc.) e di vita: salute, casa, servizi sociali (welfare).
Insomma, sul piano ideologico il reddito di cittadinanza rappresenta una vera e propria apologia della conservazione sociale: chi chiede “solidarietà” nei confronti dei disoccupati e degli ultimi è quello stesso Leviatano che si pone a difesa dei rapporti sociali che creano sempre di nuovo sfruttamento, precarietà, disoccupazione, miseria sociale e ogni sorta di disumanità. Reddito di cittadinanza? Chiamiamolo almeno con il suo vero nome: reddito di regime (politico e sociale) ovvero di sudditanza. Non si tratta di battersi contro l’introduzione di quel sussidio, lotta che apparirebbe priva di senso e del tutto incomprensibile agli occhi dei disoccupati e dei precari; si tratta piuttosto di denunciarne il carattere fortemente reazionario sul piano politico e sociale. Non c’è alcuna dignità né nel lavoro salariato (vedi Art. 1 della Costituzione), che implica la mercificazione dell’intera esistenza dei lavoratori (una disumana condizione che poi si espande come la peste fino a coinvolgere l’intera società), né nel reddito di cittadinanza. Questo è bene dirlo contro chi avversa la proposta pentastellata perché mortificherebbe «il senso e il valore del lavoro». Solo la lotta di classe conferisce dignità, senso e valore alla pessima condizione sociale dei lavoratori, i quali in Italia hanno subito per decenni la cattiva ideologia “lavorista” in salsa cattocomunista.
Mi si può obiettare che, comunque stiano le cose sul terreno della “teoria critico-rivoluzionaria della società”, rimane il fatto che un Governo cerca di dare risposte concrete a dei problemi sociali, che dei disoccupati forse prenderanno un reddito e che dei pensionati forse percepiranno una pensione più alta (pensione di cittadinanza), tutti fatti che fanno impallidire ogni astratta riflessione politica. Questa obiezione è più che fondata, essa anzi coglie in pieno la sostanza del problema, almeno per come io inquadro tutta la faccenda; questo problema oggi appare irrisolvibile se affrontato dal punto di vista anticapitalistico, non faccio alcuna fatica a riconoscerlo. «La verità è rivoluzionaria», diceva quello: ecco, appunto, almeno in questo voglio essere coerente! Oggi non solo non c’è alle viste una rivoluzione che possa aggredire la “questione sociale” alla radice, ma non si osserva nelle classi subalterne alcuna capacità di iniziativa autonoma su vasta scala, e forse nemmeno su scala assai più ridotta. L’iniziativa è saldamente nelle mani delle classi dominanti e del loro personale politico, di “destra” e di “sinistra”.
Tuttavia, a ben guardare, il problema qui evidenziato non rappresenta una sciagura solo per l’anticapitalista (e chi se ne frega!), ma soprattutto per l’intera umanità, la quale oggi si vede negata la stessa astratta possibilità di un’esistenza degna di essere definita umana. Dinanzi a questa immane tragedia la piccola frustrazione dell’anticapitalista appare perfino ridicola.
(*) «Abbiamo corretto la proposta di legge iniziale sul reddito di cittadinanza. È chiaro che è impossibile, con i flussi immigratori irregolari, non restringere la platea e assegnare il reddito di cittadinanza ai cittadini italiani» (Luigi Di Maio, Corriere della sera, 21/9/2018).
(**) Un solo esempio: «Per quanto riguarda la sfera del lavoro, occorre riconoscere che nel capitalismo cognitivo la remunerazione del lavoro si traduce nella remunerazione di vita: di conseguenza ciò che nel fordismo era il salario oggi nel capitalismo cognitivo diventa reddito di esistenza (basic income) e il conflitto in fieri che si apre non è più la lotta per alti salari (per dirla i termini keynesiani) ma piuttosto la lotta per una continuità di reddito a prescindere dall’attività lavorativa certificata da un qualche rapporto di lavoro» (A. Fumagalli, Il reddito di base come remunerazione della vita produttiva, pubblicato su: Aa.Vv., Reddito per tutti. Un’utopia concreta per l’era globale, Manifestolibri, 2009). Su Fumagalli e gli altri teorici del “capitalismo cognito” rinvio ai miei diversi post dedicati al tema:
MALEDETTI REDDITIERI!
CRIPTO-MONETA DEL COMUNE E “ACCIARPATURE MONETARIE”
SUL REDDITO UNIVERSALE DI FUMAGALLI
LE SUPERSTIZIONI COMUNARDE DI TONI NEGRI
ACCELERAZIONISMO E FETICISMO TECNOLOGICO 2.0
SUL CONCETTO DI MISERIA SOCIALE E SUI PROUDHONIANI 2.0
LA VALORIZZAZIONE CAPITALISTICA AI TEMPI DI TONI NEGRI
FUGGO DAI CERVELLI IN LOTTA!
Vedi anche il saggio Dacci oggi il pane quotidiano.
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