Sui sovranisti (soprattutto su quelli “alle vongole” e “pizza e mandolino”) gli europeisti possono certamente rivendicare un più alto tasso di verità alla loro comunicazione politica. Beninteso si tratta di una verità che parla l’odioso linguaggio del Dominio. Tuttavia oggi è il linguaggio della propaganda sovranista, non quello della realpolitik europeista, che assicura ai politici un più ricco bottino elettorale. Oggi; domani si vedrà! A questo punto è semmai da chiedersi se la sgangherata “narrazione” sovranista-populista messa in piedi dal cosiddetto “governo del cambiamento” (in peggio; ma il peggio è un pozzo senza fondo: a questo peggio farà seguito un altro peggio, statene certi) può reggere l’urto dell’armistizio (alcuni parlano di resa incondizionata, di «badoglismo», di «retromarcia clamorosa») siglato l’altro ieri con Bruxelles, e durare fino alle prossime elezioni europee. Perché fin da subito è stato evidente quale fosse l’orizzonte politico che aveva in testa la “strana coppia” pentaleghista, anche se ovviamente i parenti-serpenti gialloverdi continuano a vendere sul mercato della propaganda politica una durata ben più ampia: «Dureremo almeno cinque anni, forse cinquanta, visto che l’opposizione è ormai morta e sepolta». Ma oggi la volatilità politica dell’opinione pubblica è talmente esasperata, che fare previsioni elettorali anche di brevissimo termine è diventato quasi impossibile. Per chi scrive poi la cosa è del tutto irrilevante: al sondaggismo preferisco l’astrologia! Ma insomma, ha vinto Roma o Bruxelles? La “manovra del Popolo” è stata scritta in Italia dal primo governo orgogliosamente “sovranista” della recente storia italica o dai “burocrati di Bruxelles” al servizio dei “poteri forti”, di Berlino, di Parigi e… di Soros (ma sì, meglio abbondare nella ricerca dei capri espiatori eventualmente da sventolare sotto gli occhi di un elettorato deluso e arrabbiato)?
Regge alla prova dei fatti l’immagine della «manovra scritta a Bruxelles a un governo con il cappello in mano e le braghe calate» (Vasco Errani, Leu)? Sembra proprio di sì, soprattutto se guardiamo la manovra nella sua proiezione triennale. Di certo si tratta di una manovra piena di trucchi contabili che consentono alla Commissione di Bruxelles e al governo italiano di parlare di «vittoria del buon senso» (Salvini) e di rinviare a dopo le elezioni di Maggio 2019 la resa dei conti, soprattutto con le condizioni di vita dei lavoratori e dei pensionati.
Per il noto Avvocato del Popolo si è trattato di un pareggio, di un compromesso («non al ribasso») che alla fine ha accontentato tutti: «Abbiamo evitato la bocciatura della Commissione senza sacrificare i pilastri della nostra manovra, la quale come tutti sanno guarda agli interessi del Popolo». Che bella quadratura del cerchio! Diciamo anche che il caos della Brexit e la “nuova politica economica” annunciata da Macron (e dal Premier belga) per arginare il movimento dei Gilets Jaunes hanno ammorbidito, e non poco, la Commissione, esposta alla facile critica di voler aiutare qualcuno e penalizzare altri: «In Europa non ci sono figli e figliastri», hanno piagnucolato in coro i due azionisti di maggioranza del “governo del cambiamento” mentre il Ministro Tria incassava i colpi dell’«ubriacone» Jean-Claude Junker e di Pierre Moscovici, francese e dunque, secondo Salvini, nemico naturale degli interessi italiani. «Io lo spread lo mangio a colazione», diceva qualche mese fa sempre il Truce (copyright Giuliano Ferrara); si vede che gli è rimasto in gola. Intanto il “falco” vicepresidente Ue Valdis Dombrovskis ha fatto sapere che «se qualcosa va male possiamo tornare sulla questione a gennaio. La scadenza per decidere sulla procedura è a febbraio. Su questo siamo stati molto chiari nella risposta all’Italia».
Insomma, se non si può parlare di commissariamento, poco ci manca. Lo spaccone che ama sussurrare alla ruspa ha subito replicato: «Rispondo ai Commissari europei che dicono che i conti italiani resteranno sotto controllo che sarà il governo italiano a tenere sotto controllo il bilancio europeo». «Che paura!», si saranno detti i “burocrati di Bruxelles”.
Per l’opposizione parlamentare di «manovra del Popolo» si deve, in effetti, parlare perché sarà appunto il Popolo a pagare i danni già fatti (vedi alla voce spread) e quelli che verranno se il “governo del cambiamento” non cambierà radicalmente la sua impostazione politica: «Siete dilettanti allo sbaraglio». «No, siamo dei geni che hanno ereditato i vostri disastri», rispondono quelli che hanno eliminato, nell’ordine, la povertà, l’immigrazione, la corruzione, l’arroganza della Commissione Europea e diverse altre magagne che al momento mi sfuggono. Il senatore di Fratelli d’Italia Adolfo Urso ha dichiarato (con la precisa intenzione di cospargere sale sulle ferite degli amici leghisti) che la manovra del Popolo è sì stata scritta a Bruxelles («altro che sovranismo!»), ma che si tratta in ogni caso della «prima manovra comunista» della storia italiana: e com’è possibile una cosa simile? Infatti, non è possibile. Il poverino intendeva dire statalista–assistenzialista: «Invece di creare ricchezza e lavoro promuovendo politiche di sostegno alle imprese, distruggete ricchezza e lavoro sussidiando per scopi clientelari i disoccupati e i poveri. L’unica cosa che avete abolito è la verità». L’ex Ministro Lamberto Dini ha espresso un concetto analogo: «Questa manovra sembra stata scritta da Rifondazione Comunista, o dal PCI, solo senza l’intelligenza dei comunisti». Chissà come suonano queste parole alle orecchie dei “comunisti”. C’è anche da dire che della “manovra del popolo” alla Commissione interessavano i saldi contabili finali, più che il contenuto “socio-politico”.
Tra l’altro, a proposito di misure assistenziali-clientelari, non si sa ancora che ne sarà del reddito di sudditanza: è uscito vivo o morto dalla “trattativa dialettica” (copyright di Giuseppe Conte) con la Commissione Europea? Si sa invece, per la felicità dei teorici della “democrazia diretta” (da qualcuno che è più uguale degli altri, come dicevano i maiali di Orwell), che il Parlamento praticamente non avrà modo di dire alcunché di essenziale sulla manovra confezionata dal governo italiano e dalla Commissione. «Ma così la democrazia muore!» Un urlo di dolore che non può certo toccare il cuore dei denigratori della democrazia capitalistica – sto parlando di me, non di Casaleggio.
Il discorso tenuto qualche settimana fa al Sant’Anna di Pisa da Mario Draghi, il Presidente della BCE che gli europeisti tricolore vedrebbero benissimo a capo del prossimo governo di salvezza nazionale, è a suo modo un saggio di verità che agli occhi dei sovranisti di tutte le tendenze politiche è apparso come il crocifisso agitato dal prete al cospetto del Demonio in persona: «Vade retro, Sovranista!» Ecco, in estrema sintesi, il sermone europeista uscito dall’arida bocca del Dragone: «Dal varo del sistema monetario europeo la lira fu svalutata sette volte, eppure la crescita della produttività fu inferiore a quella dell’euro a 12, la crescita del prodotto pressappoco la stessa, il tasso di occupazione ristagnò. Allo stesso tempo l‘inflazione toccò cumulativamente il 223% contro il 126% dell’area euro a 12. Alcuni paesi persero sia i benefici della flessibilità dei cambi che la sovranità della loro politica monetaria, e i costi sociali furono altissimi, in un processo che si concluse con le crisi valutarie del ‘92-’93. La possibilità di stampare moneta per finanziare il deficit non è usata neanche dai Paesi che fanno parte del mercato unico ma non sono parte dell’euro, e ciò smentisce le tesi di chi parla dei presunti vantaggi che deriverebbero dalla sovranità monetaria. Bisogna ricordare che prima dell’euro le decisioni rilevanti di politica monetaria erano prese in Germania, mentre oggi sono partecipate». «Partecipate» solo fino a un certo punto, visto che sul terreno della potenza sistemica (economica, tecnologica, scientifica, ecc.) la Germania rimane il Paese di gran lunga più forte dell’Unione Europea, e che quindi ha più voce in capitolo degli altri Paesi sulle decisive questioni commerciali e finanziarie. I rapporti di forza contano eccome, ma Draghi certe cose non può dirle in pubblico, può solo pensarle, e magari esternarle fra qualche tempo, quando avrà concluso il suo servizio presso la Banca Centrale Europea e iniziato una nuova carriera al servizio del “bene comune”. Come ho scritto altrove, ai Paesi dell’Unione Europea non si dà altra alternativa alla costruzione del polo imperialista egemonizzato dalla Germania che non sia la “scelta” di mettersi sotto tutela “sistemica” nei confronti dei poli imperialistici concorrenti. Non a caso prima di arrivare a più miti consigli, il governo del Popolo sovrano ha strizzato l’occhio ora a Putin, ora a Trump, ora a Xi Jinping, nel tentativo di impaurire e spiazzare Bruxelles, che evidentemente non si è lasciata né impaurire né spiazzare. A suo tempo, il governo “rivoluzionario” di Tsipras e Varoufakis tentarono lo stesso puerile giochetto, con i risultati che sappiamo. La sovranità nazionale è un mito ultrareazionario il cui fondamento oggettivo (economico) è smentito sempre di nuovo, e rimane efficace solo come maligna ideologia intesa a catturare il consenso delle masse, soprattutto in tempi di crisi e di guerre.
Bisogna anche ricordare che la Germania, interessata a conservare la propria sovranità monetaria basata sul forte Marco, all’inizio si oppose strenuamente all’introduzione dell’Euro voluta soprattutto dal Presidente francese François Mitterrand, preoccupato dall’unificazione tedesca seguita al crollo del Muro di berlino. «Il morso per tenere a bada la Germania parve essere, allora, a Mitterrand, l’euro, la moneta unica europea vista come lo strumento per mettere in riga la Germania, diluendone la forza negli altri paesi della Ue. Non a caso, la Germania, in quegli anni, recalcitrò a lungo di fronte a questo strumento monetario. L’euro, da Mitterrand, era visto come un salasso permanente a danno del marco tedesco che, già prima dell’unificazione, si era connotato come la moneta europea più forte. Sennonché, in base all’eterogenesi dei fini, l’euro, al posto di essere un salasso per domare, mettere in riga e tenere la Germania al passo con gli altri paesi, si è rivelato adesso, in pratica, e paradossalmente, come lo strumento per assicurare l’egemonia di Berlino sull’intera Europa» (P. Magnaschi, Italia Oggi). Il fatto, materialisticamente parlando, è che alla fine, presto o tardi, la forza dell’economia (con tutto quello che ciò presuppone e pone a livello sistemico: scienza, tecnica, istruzione, cultura, ecc.) si impone sempre su ogni calcolo politico.
Ha poi senso parlare di svalutazioni competitive nel quadro della cosiddetta catena globale del valore (1)? In generale assai poco, nel caso italiano pochissimo, anche perché l’Italia è quasi del tutto priva di materie prime. Un’automobile prodotta in Italia, ad esempio, assembla componenti provenienti da diverse parti del mondo, e alla fine il bilancio di valore tra componenti importate e prodotto finito esportato potrebbe risultare sfavorevole a una competitività ricercata sul terreno del differenziale monetario. Per le imprese la via maestra al successo commerciale è sempre stata quella dello sviluppo tecnologico orientato all’incremento di produttività del lavoro.
Tra l’altro il Presidente della BCE ha ribadito un concetto a lui caro: o si va avanti nel processo di integrazione, concludendolo positivamente nel volgere del medio tempo, così da assicurare a tutti i Paesi dell’Unione più crescita e occupazione, oppure bisogna prepararsi a nuovi scossoni economici, finanziari, politici e sociali nell’aria euro che faranno ballare e infine deragliare rovinosamente il carrozzone europeo. Com’è noto, sono soprattutto i Paesi del Nord’Europa che si oppongono alla piena integrazione bancaria (unione bancaria e bilancio comune), atterriti come sono dalla prospettiva di dover sostenere finanziariamente i Paesi «spendaccioni» del Mezzogiorno (l’Italia, in primis), i quali usano la leva fiscale in chiave elettorale-clientelare: «Roma, ladrona, il Nord’Europa non perdona!» Berlino manda avanti i cani “leghisti” del Nord per costringere le cicale del Sud a convergere su parametri strutturali assai più “sostenibili”, perché nessuno è disposto a pagare il clientelismo degli altri: a casa nostra siamo tutti padroni! Pare che la Cancelliera Merkel non abbia molto apprezzato la “calata di braghe” di Macron nei confronti dei rivoltosi in gilet, perché la sua conversione “populista” ha impedito la resa incondizionata del governo italiano.
È dalla fine degli anni settanta del secolo scorso che la parte più avveduta della classe dirigente di questo Paese va alla ricerca di un «vincolo esterno» in grado di eliminare la facile tentazione offerta dalla svalutazione competitiva, e così innescare un virtuoso processo di “riforme strutturali” in grado di mettere il Made in Italy («L’azienda Italia», come si cominciò a dire negli anni Ottanta) nelle condizioni di affrontare con uno spirito “nuovo e vincente” la competizione capitalistica internazionale. L’adesione alla moneta unica europea, in un’area monetaria che tutti gli esperti del pianeta riconoscevano non essere «ottimale» (2), sembrò mettere felicemente un punto alla ricerca del mitico vincolo esterno. Mutatis mutandis, pare invece che la ricerca continui, come dimostra il “momento Tsipras” che sta vivendo il “Governo del Popolo” – quello che aveva abolito la povertà dal noto balcone, e che doveva spezzare le reni a mezzo mondo. D’altra parte ci fu un tempo in cui l’Italia osò dichiarare guerra perfino agli Stati Uniti! Diciamo che alla classe dirigente di questo Paese non è mai mancato né il senso del ridicolo né una massiccia dose di opportunismo – non sempre baciato dalla fortuna, come sappiamo.
Leggo da qualche parte: «C’è bisogno d’altro, c’è bisogno di occupare lo spazio, lasciato vuoto, della rottura della gabbia dell’Unione Europea e di riempire le piazze, come in Francia, delle lotte e delle rivendicazioni degli sfruttati. A questo lavoriamo, questo dobbiamo costruire, a partire dalle firme per le leggi di iniziativa popolare che mirano a eliminare il pareggio di bilancio dalla Costituzione e a introdurre il referendum popolare sui trattati internazionali». Ma la gabbia che bisogna mandare in frantumi è piuttosto quella che il rapporto sociale capitalistico costruisce ogni giorno, sempre di nuovo, a prescindere da chi, pro tempore, si occupa della parte politico-amministrativa del dominio sociale! Basta vendere fumo sovranista agli sfruttati! Sovranisti (quasi sempre orientati in senso statalista) ed europeisti (di solito orientati in senso liberista) sono le due facce della stessa escrementizia medaglia. Per i lavoratori il problema non è rappresentato dal «pareggio di bilancio» introdotto nella Costituzione, o dal fatto che essi non abbiano voce in capitolo sui trattati internazionali (vogliamo forse “decidere” a quale albero geopolitico impiccarci?): il problema, uno tra i tanti, è che ancora oggi essi si lasciano abbindolare dai guardiani della Costituzione “più bella del mondo”, la quale ovviamente inchioda ideologicamente le classi subalterne alla croce dei sacri interessi nazionali – sebbene in “armonia” con il quadro internazionale uscito fuori dal Secondo macello imperialistico mondiale, che nel frattempo è assai mutato: di qui i tentativi di “riformare” la Sacra Carta. Non è rimanendo sul terreno della riforma costituzionale che le classi subalterne possono lottare con efficacia e autonomia contro «il partito del Pil».
(1) «È il processo organizzativo del lavoro – figlio della globalizzazione e della riduzione “fisica” e “virtuale” delle distanze geografiche – in base al quale le singole fasi della filiera di produzione vengono parcellizzate e svolte da fornitori e reti di imprese sparse in diversi Paesi in base alla convenienza economica e al grado di competenza e specializzazione delle diverse aziende coinvolte. Dalla concezione del prodotto alla vendita diretta al consumatore, tutte le fasi intermedie si possono coinvolgere in un network di imprese dislocate in diversi paesi» (Il Sole 24 Ore).
(2) In un saggio del 1995, Pier Carlo Padoan segnalava tutte le criticità dell’integrazione monetaria, sottolineando soprattutto le asimmetrie nella distribuzione dei benefici dell’integrazione a favore del Nord Europa e a danno dei «Paesi periferici», concentrati nel Sud del Vecchio Continente. Egli paventava soprattutto l’allargamento del mercato europeo a Est. «L’integrazione non comporta semplicemente l’eliminazione di barriere, ma richiede la definizione di nuove regole, la definizione cioè di un regime di regolazione dei rapporti tra gli Stati sovrani. […] Emerge, in altri termini, il ben noto fatto che ogni processo di integrazione è, soprattutto, un processo politico. […] È la Germania il Paese che mostra una più sviluppata capacità di adattamento. […] I risultati dei lavoro di seguito considerati si possono così riassumere: la Germania sarà il Paese a beneficiare di gran lunga più degli altri dall’allargamento del mercato che ne deriverà» (P. C. Padoan, Dal mercato interno alla crisi dello SME, NIS editori, 1995). Leggi: L’Europa non è (ancora) un’area monetaria ottimale.
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