Il concetto di feticismo (della merce, della tecnologia, della scienza) è senza dubbio un concetto fondamentale nella critica marxiana della società capitalistica, anche perché esso permette di cogliere il nesso che lega la “sfera economica” a molti fenomeni della vita sociale, anche quelli cosiddetti micrologici, afferenti cioè alla vita “minuta” dei singoli individui. Che l’intera esistenza di ogni individuo debba fare i conti con il mercato – cioè con il Capitale nelle sue forme più peculiari: denaro, merce, lavoro salariato; che essa sia, di fatto, sul mercato e che subisca processi di mercificazione di inaudita violenza, ebbene oggi tutto ciò non è più solo un modo di dire o un’agghiacciante profezia in attesa di conferma: è piuttosto una pessima realtà che, a giudicare dalle premesse, lascia presagire un suo rapido, quanto necessario (cioè conforme alla natura della cosa), peggioramento. «La nostra vita è venduta all’asta dai mercanti della privacy. Gusti, abitudini, scelte politiche: ogni individuo può fruttare 50mila euro» (La Repubblica). Non male!
Il cosiddetto Platform Capitalism (anche detto Capitalismo di sorveglianza) testimonia il grado di potente pervasività raggiunto dal rapporto sociale capitalistico nel XXI secolo.
È sulla base delle infrastrutture “intelligenti” governate dal 5G, dal nuovo standard tecnologico che bussa prepotentemente alla porta, che, dicono gli esperti, sarà possibile costruire la “mitica” Smart city, con controllo centralizzato di tutti i dispositivi che regolano la viabilità, il traffico urbano, la videosorveglianza, e così via. Senza parlare degli elettrodomestici (che terminologia antiquata!) di casa che potranno «dialogare tra loro, ricevere informazioni dall’esterno ed essere gestiti da remoto da un unico dispositivo»: che bel mondo ci attende! Mi sono lasciato contagiare dall’ottimismo tecnologico. Mi scuso, mi ricompongo e assumo la mia abituale postura “critico-radicale”: nel mondo “interconnesso” di oggi e di domani, nel quale miliardi di oggetti potranno “dialogare” tra loro (speriamo almeno che si capiscano!), e dove anche «le auto potranno dialogare tra loro scambiandosi informazioni sul traffico e la sicurezza»; in questo mondo intelligentissimo il Capitalismo ottocentesco analizzato e stramaledetto da Marx impallidisce e un po’ si vergogna: la sua «immane raccolta di merci» oggi appare una ben misera cosa! Il mondo che sta rendendo possibile l’Internet delle cose (cioè delle merci) celebra l’apoteosi del dominio sociale capitalistico, e dà al concetto di totalitarismo sociale una pregnanza “fattuale” davvero puntuale, radicale, difficilmente opinabile.
Ma, come scrivevo in un precedente post (Controllare e profittare), anche il Big Brother di Orwell appare poca cosa dinanzi alla mostruosa capacità di controllo totale degli individui che il Leviatano dei nostri giorni è riuscito ad assicurarsi e promette (o, meglio, minaccia) di espandere e rafforzare. Peraltro quel controllo è sempre più necessario, perché la connessione totale tra le cose e tra queste e gli individui è certamente “intelligente”, ma anche molto delicata e problematica, potenzialmente foriera di eventi catastrofici: un singolo malintenzionato sufficientemente istruito in materia informatica può, infatti, bloccare una città, scatenare incidenti (dentro le case “intelligenti”, sulle strade “intelligenti”, ovunque domini l’”intelligenza artificiale”), creare danni di qualsiasi genere. E difatti si studiano strategie di controllo e di repressione ispirate ai modelli predittivi che trovano in Cina le prime “promettenti” applicazioni su vasta scala – vedi il Social Credit System. In realtà il paradigma della “vita a punti” è attivo anche nei Paesi occidentali (senza parlare del Giappone!), sebbene in forme più “politicamente corrette” rispetto alla Cina, ma la sostanza non cambia; per essere pienamente efficiente, il controllo sociale degli individui deve tenere conto delle specificità locali – regionali, nazionali, continentali.
Una volta, ai vecchi tempi, potevamo vendicarci con una nostra ex fidanzata mostrando agli amici una sua foto “osé”: la porcata rimaneva in ogni caso confinata in una cerchia ristrettissima. Oggi gli Stati devono inventarsi il reato di Revenge Porn! La potenza straordinaria del Capitale si fa sentire dappertutto, oggi soprattutto attraverso la mediazione tecnologica, la quale rinvia direttamente al rapporto sociale oggi dominante in ogni angolo del pianeta. Prolungando le linee della tecnoscienza si arriva sempre e necessariamente a quel rapporto sociale, non c’è niente da fare, e solo il “velo tecnologico” ci impedisce di vedere la potenza sociale che trova espressione nelle cose, “reali” e “virtuali”, che manipoliamo e negli eventi, “reali” e “virtuali”, che creiamo e subiamo.
Senza contare il paradossale fatto che ci vede un po’ tutti aderire con zelo ed entusiasmo alla mercificazione dei nostri “profili umani” e al controllo sempre più efficace della nostra stessa vita da parte di organismi privati e pubblici. Siamo i volenterosi servi del Dominio. Fenomeno paradossale solo fino a un certo punto. Chi non partecipa al Big Show messo in scena sul Web si sente tagliato fuori, e tutti noi (salvo, come sempre, chi legge) per sentirci in armonia con i tempi sappiamo che dobbiamo pagare un prezzo (al Capitale, allo Stato, a qualcuno o a qualcosa difficile da definire), e lo paghiamo volentieri, perché la solitudine, “reale” o “virtuale” (“percepita“) che sia, è un peso difficile da sopportare. Dinanzi a questi fatti la risposta corretta non è, a mio avviso, la fuga dal “virtuale”, ma la riflessione sulla nostra reale condizione umana. Ha poi un senso la distinzione tra una sfera reale e una sfera virtuale della nostra vita? A mio avviso la distinzione da fare, quella che ha davvero senso e che può aiutarci a spiegare molte delle cose che ci appaiono paradossali, è un’altra, e cioè quella tra una vita pienamente – o semplicemente – umana e una vita che non lo è.
Fa un po’ tenerezza chi scopre solo oggi che, nell’epoca del “Capitalismo di sorveglianza”, «non siamo più padroni nemmeno di noi stessi». Soprattutto di noi stessi, mi verrebbe da dire strizzando l’occhio alla provocazione – o al realismo? Ma ritorniamo, per concludere rapidamente, al concetto di feticismo.
Confesso che l’idea di scrivere questa nota mi è venuta leggendo questa mattina un’intervista rilasciata da Roberto D’Agostino al sito di sua proprietà (Dagospia). Tra poco citerò il passo che mi ha “ispirato”. Prima però ricordo a me stesso che per Marx il feticismo si esprime nel rapporto immediato che gli uomini instaurano con le cose, il quale cela un rapporto ben più essenziale: quello tra gli uomini stessi. La cosa, dice il noto barbuto, non è una “mera cosa”, ma l’espressione di un peculiare rapporto sociale. E difatti, più che con cose, con oggetti, con valori d’uso, noi abbiamo a che fare continuamente con merci, con tutto quello che la forma-merce presuppone e pone sempre di nuovo. «Quel che qui assume per gli uomini la forma fantasmagorica di un rapporto fra cose è soltanto il rapporto sociale determinato che esiste fra gli uomini stessi» (K. Marx, Il Capitale, I, p. 104, Editori Riuniti, 1980).
Ecco adesso la citazione promessa: «Negli Anni ‘70 il guru della rivoluzione digitale, Stewart Brand, disse: “Volete provare a cambiare la testa delle persone? Perderete tempo. Cambiate gli strumenti, i dispositivi, gli oggetti che hanno in mano e cambierete il mondo”. Non sono state le ideologie a cambiare la storia, ma gli oggetti: i caratteri mobili della stampa che hanno diffuso il sapere, la foto che riproduce la realtà, l’auto e il treno che hanno fondato la civiltà industriale, la lavatrice e la pillola che hanno cambiato la vita delle donne, la connessione e lo smartphone».
Tutto vero! L’importante è capire il significato storico e sociale di quegli “oggetti”. Ancora Dago: «Quando arrivò il video la fotografia sembrava defunta, ma con Internet diventa digitale e torna centrale: perché se la pubblichi alla velocità della tecnologia diventa fortissima, ti porta dove le cose accadono e diventa un pensiero visivo. Con buona pace della privacy che si sacrifica in nome dell’identità». Ma di che «identità» si tratta? Qual è la natura, la “qualità” di questa «identità» (“reale” o “virtuale” che sia)? Ecco, per rispondere a domande di questo tipo credo sia importante cogliere la natura feticistica della relazione che spontaneamente stringiamo con le cose – merci, tecnologie e quant’altro.