BOLIVIA. C’ERA UNA VOLTA IL “SOCIALISMO INDIGENISTA”

Interpretare la crisi politico-sociale che scuote la Bolivia come una resa dei conti tra il cosiddetto “socialismo indigenista” di Evo Morales e il capitalismo liberista più retrivo, è non solo del tutto infondato, ma francamente risibile. D’altra parte il sinistrismo mondiale scodella “socialismi” più o meno originali a ritmi sempre più accelerati, in modo da poter star dietro ai continui fallimenti dei suddetti “socialismi”. Non si fa in tempo a benedire un “socialismo del XXI secolo” nuovo di zecca, che se ne vede fallire almeno uno. È una vitaccia, lo riconosco.

Più che di lotta di classe si dovrebbe piuttosto parlare di uno scontro tutto interno alla classe dominante e alla classe politica della Bolivia. Le classi subalterne del Paese per il momento si limitano ad appoggiare le diverse fazioni che si contendono il potere economico e politico, anche con il sostegno, più o meno esplicito, delle potenze mondiali e regionali. Ed è per questo che in Bolivia l’autonomia di classe è (diciamo sarebbe) una stringente necessità, affinché i lavoratori, i proletari, i contadini poveri e tutti i diseredati non versino il loro sangue per “difendere la Patria”, non importa se si tratta di una Patria offerta in pasto da “destra” o da “sinistra”, dai “socialisti del XXI secolo” o dai “neoliberisti selvaggi”, dagli amici del Venezuela e di Cuba, piuttosto che dagli amici degli Stati Uniti e del Brasile.

Scrive Federico Rampini: «L’ex presidente della Bolivia, Evo Morales, aveva imboccato una deriva autoritaria. La sua dimissione con successivo esilio in Messico è una buona notizia per il popolo boliviano, che ha contribuito a fermarne il golpe strisciante. Resta il fatto che una spallata decisiva gliel’hanno data i militari. Dobbiamo rallegrarcene ugualmente? Prevale nel giudizio politico su questo evento l’insurrezione dei cittadini, o il ruolo delle forze armate?» (La Repubblica). Detto per quel pochissimo che vale, nel mio personale giudizio prevale un senso di impotenza politico-sociale dinanzi a masse povere e sfruttate che continuano a lasciarsi ingannare da padroni di “destra” e di “sinistra”, con metodi autoritari e con metodi democratici. Sempre di nuovo ingannati e, cosa ancora più tragica, incapaci di imparare dalle durissime lezioni impartite loro dalla vita. Si tratta di una maledetta coazione a ripetere che naturalmente non riguarda solo la Bolivia o la sola America-Latina, ma le classi subalterne di tutto il pianeta.
Come ho scritto nel mio ultimo post, è il maledetto muro che abbiamo nella testa che dobbiamo abbattere per conquistare una visione autenticamente critica e rivoluzionaria su ciò che accade intorno a noi e dentro di noi – anche in termini di sfiducia, di frustrazione, di stanchezza politica.

Ancora Rampini: «L’ambiguità è tipica della nostra epoca. Sul New York Times un commento di Max Fisher tradisce nostalgia per i tempi della guerra fredda, quando tutto era più chiaro, chi erano i buoni e i cattivi, chi faceva le rivoluzioni di popolo e chi sosteneva i golpe fascisti. Ma il caso della Bolivia complica tutto, gli uomini in divisa non hanno preso il potere, che resta in mano ai civili, i quali promettono nuove elezioni. Leggende a parte, la realtà non fu mai nitida e chiara, neppure ai tempi della guerra fredda quando accadde che i comunisti appoggiassero degli interventi armati contro le insurrezioni di popolo (Ungheria 1956, Cecoslovacchia 1968, invasione sovietica dell’Afghanistan 1979)». Per questioni anagrafiche posso parlare solo dell’invasione sovietica dell’Afghanistan, che contrastai, insieme ad altri pochissimi compagni, scontrandomi anche con gli stalinisti (non solo quelli capeggiati da Armando Cossutta) che invece la sostenevano con il solito fervore di stampo orwelliano: «L’Armata Rossa porta la Pace». «Leggende a parte», scrive Rampini; appunto! «Leggende a parte», a cominciare da quella afferente la natura socialista del cosiddetto “socialismo reale” e delle «rivoluzioni di popolo» che vi si ispirarono. Ma sto divagando! Forse.

Presentatosi all’opinione pubblica nazionale e internazionale come il propugnatore dell’ennesima Terza via in grado di superare (a “destra” o a “sinistra”?) il capitalismo senza riproporre le nefandezze del “socialismo reale”(1), Evo Morales, primo Presidente indigeno della Bolivia (22 gennaio 2006), si è ben presto trasformato nell’ennesimo caudillo latino-americano. Probabilmente ci sono cause, come si dice, strutturali e sovrastrutturali che possono spiegare questa fertilità “caudillica”, per così dire, nei Paesi latino-americani. Provo a elencarne qualcuna: l’arretratezza (relativa) del capitalismo, l’abissale distanza che divide le classi subalterne dalle classi dominanti, la struttura economico-sociale basata sulla vendita delle materie prime e sulla monocultura, il ruolo (non solo militare) delle Forze Armate e, dulcis in fundo, l’ingombrante (faccio dell’ironia) presenza nel Continente Americano di quella che rimane ad oggi – e sottolineo oggi – la prima potenza imperialista del pianeta. Ovviamente sto parlando degli Stati Uniti.

Scriveva Christian Peverieri nel febbraio del 2016, commentando la débâcle referendaria che vietava a Morales di ricandidarsi per la terza volta alle elezioni del 2019 (quelle che poi l’ex cocaleros “vincerà” grazie a grossolani brogli elettorali):
«A ben vedere la manovra di Evo Morales è indifendibile sotto molti punti di vista e dà ampio spazio alle opposizioni per giocare d’attacco accusandolo di voler concentrare tutto il potere nelle sue mani e di non preoccuparsi delle sorti del Paese. Come dare torto quindi alla risposta degli elettori boliviani che, stanchi delle sue promesse e sentendosi ingannati, hanno respinto il tentativo di legalizzare l’investitura a vita a presidente. […] “Il peggior crimine di questo governo è stato aver distrutto il tessuto sociale che è stato costruito dalla guerra dell’acqua”, scrive su Twitter Oscar Olivera, portavoce dei movimenti andini durante i processi moltitudinari dei primi anni del 2000, scintilla e motore degli avvenimenti che hanno poi contribuito in maniera determinante all’elezione di Morales. L’assalto al cielo è dunque fallito. In tutti questi governi gli elettori si sono sentiti traditi da chi li ha usati per arrivare al potere promettendo cambiamenti radicali, ma si è ben presto trasformato in esecutore di politiche di sfruttamento del territorio e delle risorse, oltre che reprimere quei movimenti di protesta che ne sono nati di conseguenza. Nonostante alcuni innegabili miglioramenti delle condizioni di vita degli strati più poveri della popolazione, quello che è passato è appunto il tradimento degli ideali e dei valori anticapitalisti per i quali questi governi hanno ricevuto il mandato a governare dai propri elettori. Quello che hanno costruito non è stato un abbattimento del sistema capitalista ma il tentativo, da sinistra, di governare un processo di destra: ecco allora per esempio le grandi svendite alle multinazionali, che sfruttano le risorse e devastano l’ambiente di ampie porzioni di territorio; ecco di conseguenza la forte repressione contro tutti quei movimenti che difendono la Pachamama (2) da sfruttamento e devastazione, siano essi di destra o di sinistra. Questa è stata la base per le sconfitte elettorali, dall’Argentina, al Venezuela per finire con la Bolivia: a fare politiche di destra son più bravi quelli di destra» (Globalproject).

Su quest’ultima affermazione avrei qualcosa di molto critico da dire, ma non è questo il punto; il punto è che si vede socialismo, anche solo come promesse elettorali, o come intenzioni, oppure come programmi governativi più o meno praticati e realizzati, là dove non c’è un atomo di socialismo. L’assalto al cielo non è fallito semplicemente perché non c’è mai stato, non poteva esserci: abbiamo piuttosto assistito a un tentativo riformista che ha certamente conseguito dei successi, anche per ciò che riguarda le condizioni di vita degli strati più poveri della società boliviana, ma che per molti e importanti aspetti ha fatto registrare pesanti insuccessi, a partire dal fatto che quella riforma non è riuscita a modificare la struttura capitalistica del Paese (3). I successi e gli insuccessi del cosiddetto modello boliviano si sono registrati interamente sul terreno della riforma sociale capitalistica (a partire da quella agraria) (4), e questo vale anche per il Venezuela e per ogni altro modello supposto “socialista” o “affine al socialismo” (sic!).

Raccontava nel 2018 il ricercatore boliviano Pavel López, partecipe del «grande tumulto antiliberista che si è avuto in Bolivia tra il 2000 e il 2005»: «Arrivato al potere sulla spinta delle rivolte dei movimenti sociali indigeni e contadini, il Presidente di origini aymara ha tradito le aspettative, non solo depotenziando il nuovo processo costituente e trasformandolo nello strumento del suo potere personale, ma anche costruendo un modello economico che ha portato l’attacco alla natura e ai popoli indigeni a livelli ancora più alti che nel periodo neoliberista» (Radio Città Del Capo).

A proposito di attacco alla natura e di popoli indigeni, Andrea Dalla palma ha scritto un interessante articolo sulla Marcia degli indios iniziata nell’agosto del 2011, un evento che fa capire molte cose a proposito del “socialismo con caratteristiche indigene” di Evo Morales (5):
«Cinquecento chilometri, a piedi, da Trinidad, capitale del dipartimento del Beni, a La Paz, capitale dello stato boliviano. Il tutto in un mese. Vi partecipano i Moxeno, gli Yuracare, i Chiman, gli Aymara ed i Quechua assieme. Sono le tribù ancestrali che abitano, da secoli, le rigogliose foreste vergini del parco nazionale del Tipnis (letteralmente: Territorio Indigena y Parque Nacional Isiboro Segure, la più grande riserva naturale dell’intera Bolivia) e le zone limitrofe, praticando la caccia, la pesca e l’agricoltura. Scopo della marcia, è la ferma opposizione alla costruzione della mega autostrada di 366 chilometri che, come uno squarcio, attraverserà un lungo tratto di foresta nella zona tra Cochabamba e San Ignazio di Moxos. Secondo le tribù autoctone, la costruzione dell’arteria stradale, finanziata dalla Banca Brasiliana per lo Sviluppo Economico e Sociale, uno dei maggiori investitori in opere di infrastruttura in America Latina ed in Africa) è una violazione dei loro diritti in quanto abitanti originari delle foreste vergini, nonché una minaccia alla ricchezza e alla biodiversità delle loro terre, che soffrirebbero di deforestazione, inquinamento delle falde acquifere e riduzione del patrimonio eco sistemico. Per il Governo boliviano, l’infrastruttura sarebbe invece un trampolino di lancio per l’economia del paese, tra i più poveri di tutto il continente, perché una nuova via di comunicazione consentirebbe di aprire un canale commerciale tra i centri di Trinidad e Cochambamba e il Brasile (da cui l’interesse dello stesso Brasile a finanziare il progetto). Inoltre, la costruzione dell’autostrada aprirebbe le porte all’ingresso delle grandi compagnie petrolifere, a caccia di guadagni sostanziosi in una zona assai ricca di oro nero. Quest’ultimo rappresenta una delle maggiori fonti d’ossigeno per le casse dello stato, in un periodo in cui l’economia locale sta facendo fatica a tenere il passo con la crescita della maggior parte degli altri paesi dell’America Latina. Per le tribù indigene, la decisione del governo è un autentico colpo al cuore, poiché il via libera ai lavori è stato permesso da quell’Evo Morales simbolo dei diritti delle minoranze etniche, in particolare quelle indios, in tutto il continente sudamericano. Primo presidente indios eletto nella storia della Bolivia, la sua presidenza avrebbe dovuto significare l’occasione del tanto aspettato riscatto da parte delle minoranze, dopo una intera storia di discriminazione e diritti negati» (A. Dalla Palma, Unimondo.org).

Nel 2013 Maria Francesca Chianese ha scritto un interessante saggio il cui titolo ne sintetizza bene il contenuto: I popoli indigeni della Bolivia, lo Stato e gli organismi internazionali. Cito dal saggio, che illustra bene la genesi del fenomeno “evista” nel suo rapporto con la questione indigena, solo alcuni passi: «Altra questione riguarda la centralizzazione-clientelismo della politica di Morales che ha come conseguenza anche l’identificazione della sua gestione come autarchica nella quale il dissenso viene interpretato come “tradimento”. Molti leader indigeni esprimono l’idea che, seppure con Morales “abbiamo vinto”, la vittoria si ferma a riconoscimenti simbolici e teorici che, una volta che si tenta di metterli in pratica, rendono palesi “le trappole dello Stato”. Non solo i rappresentanti indigeni lamentano la mancanza di partecipazione diretta all’elaborazione delle riforme a loro rivolte, ma anche contraddizioni tra ciò che si predica e ciò che si attua. Il “settore” indigeno inizia a mostrare disillusione verso un Presidente indigeno che “propone una realtà che non esiste”, a frustrare le speranze e le aspettative che la sua elezione aveva suscitato in patria come nella comunità internazionale. Voci diffuse tra le organizzazioni indigene sostengono che l’indigenismo di Morales sia solo di facciata e motivano questa prospettiva sostenendo che prima di Evo, quando i popoli indigeni si opponevano, i governi reagivano, ora, invece, o fanno finta di niente o li accusano di essere infiltrati dalla CIA. Il Presidente che durante il suo discorso inaugurale spronava i popoli indigeni a correggere le sue azioni, ora accusa di tradimento tutti coloro che accolgono il suo iniziale incoraggiamento».

Scrive Carlo Formenti: «Pur essendosi meritato la definizione di “socialismo del secolo XXI”, quel processo non ha fatto in tempo ad assumere, né sappiamo se avrebbe potuto assumere, il carattere di una trasformazione in senso socialista dell’economia e della società. Al massimo, lo si può definire come il tentativo di sganciare quei Paesi dall’osservanza delle politiche economiche neoliberiste del Washington Consensus, restituendo loro la capacità di avviare processi di sviluppo autocentrati ed emancipati, almeno in parte, dall’egemonia delle multinazionali occidentali. Obiettivi che sono stati perseguiti attraverso programmi di nazionalizzazione (meno frequenti di quanto si pensi), ma soprattutto di ricontrattazione delle quote di profitto spettanti allo Stato, ma anche con riforme costituzionali che hanno offerto alle classi subalterne l’accesso gratuito ad alcuni servizi pubblici di base (sanità, istruzione, ecc.), nonché un significativo allargamento dei diritti sociali e civili (soprattutto per le masse indigene che ne erano state escluse per secoli). [… ] Rivoluzioni nazional popolari e democratiche insomma, più che socialiste (anche se leader come Chavez e Morales non hanno mai nascosto di immaginare un futuro socialista per i propri Paesi). Si tratta di capire quale concetto di “socialismo” avessero in testa i Cari Leader di cui sopra, per non parlare di quello che ha in testa lo stesso Formenti, e che non va oltre il solito capitalismo di Stato già chiamato “socialismo reale” ai vecchi tempi, quando ancora la rossa bandiera dell’Unione Sovietica faceva palpitare i cuori dei cosiddetti “comunisti”.

Formenti conclude il suo articolo come segue: «Aggiungo solo una piccola nota: mentre Corbyn, Iglesias e Mélenchon hanno duramente condannato il golpe boliviano, le sinistre italiche vecchie e nuove si segnalano per lo stesso silenzio imbarazzato (se non per gli applausi al “ritorno della democrazia”) con cui hanno accolto il tentato golpe in Venezuela, terrorizzate all’idea di poter essere accusate di veterocomunismo». Lui invece esibisce il suo “veterocomunismo” senza alcuna inibizione: condoglianze, pardon: complimenti! Sul “comunismo”, vetero o nuovo che sia, di Formenti nutro qualche dubbio, diciamo; chi fosse interessato alla cosa può compulsare questo Blog.

Scrive Gwinne Dyer: «Evo Morales ha preso il posto di Carlos Mesa, facendo meglio di lui. Ha nazionalizzato non solo petrolio e gas, ma anche le miniere di zinco e stagno, e altre importanti aziende di pubblica utilità. È riuscito laddove Mesa ha fallito perché ha pagato delle buone compensazioni ai proprietari, e ha potuto farlo perché la Bolivia beneficiava di un boom delle materie prime che ha triplicato il pil del paese in 15 anni. È un po’ di tempo ormai che tale boom è finito, e un politico più astuto di Morales avrebbe potuto decidere di lasciar vincere queste ultime elezioni a Mesa. Poi, nel momento in cui le entrate del paese fossero calate, Mesa sarebbe stato incolpato per la riduzione dei servizi sociali costruiti da Morales, e quest’ultimo sarebbe potuto tornare trionfalmente al potere in cinque anni, sostenendo che Mesa aveva tradito i poveri. L’errore di Morales è stato credere di essere indispensabile. Si è aggrappato al potere troppo a lungo, e adesso si è bruciato» (Internazionale). È facile atteggiarsi ad astuti politici commentando l’altrui politica. In ogni caso ciò che scrive Dyer è interessante perché ci fa capire come i politici giochino la loro escrementizia partita turlupinando a turno la popolazione, la quale peraltro si mostra piuttosto incline a lasciarsi sedurre da demagoghi, populisti e gentaglia varia. Sono le stesse condizioni sociali a creare l’effetto gregge, un fenomeno che, come osservavo sopra, non conosce frontiere né ordinamenti politico-istituzionali: lo registriamo in Cina come negli Stati Uniti, in Italia come in Russia, insomma ovunque.

 

(1) «Per differenziare il socialismo comunitario da lui teorizzato dal socialismo sovietico e cinese, García Linera [teorico del “proceso de cambio” in Bolivia] sostiene che “ci sono state esperienze di comunismo nel contesto internazionale […] ma un socialismo comunitario compiuto ancora non esiste [ed è] il contributo della
pluralità boliviana alla lotta dei popoli del mondo per l’uguaglianza, la giustizia e l’equità”» (M. F. Chianese, I popoli indigeni della Bolivia, lo Stato e gli organismi internazionali, PDF, 2013).
(2) Madre Terra. «Dea dell’agricoltura e della fertilità, la Pachamama era nel mito incaico la massima divinità assieme a Tata Inti, il “Padre Sole”, il cui culto era però più elitario: possiamo paragonare con quella che era nell’Impero Romano la popolarità di Iside o Cibele rispetto a quella di un Mitra, di un Serapide o dello stesso Zeus. Fu comunque la Pachamama che i missionari gesuiti e francescani decisero in qualche modo di “salvare”, favorendo la loro identificazione sincretica con la Vergine Maria. “Sono cattolico, ma credo anche alla religione originaria della Madre Terra”, dice Evo Morales. Dichiarazione in apparenza acrobatica, ma in realtà in linea con la situazione di un Paese dove il 78 per cento della popolazione si proclama cattolico» (M. Stefanini, Limes, 2010).
(3) «Con un tasso di crescita del 4,4% registrato nel corso del secondo semestre del 2016, l’economia boliviana è stata tra le più performanti della regione, benché il ritmo di espansione sia stato meno incalzante rispetto agli ultimi tre anni, in cui si registrò uno storico +6,8% nel 2013 (media del 5% negli ultimi dieci anni). Il sistema produttivo nazionale continua a basarsi sull’industria estrattiva e l’agricoltura: il Paese è tuttora lontano dalla diversificazione dell’apparato produttivo e dallo sviluppo di un’industria di trasformazione delle materie prime. Come negli anni passati, a determinare la dinamica positiva dell’economia nazionale sono stati i prezzi delle commodities esportate. Secondo gli ultimi dati pubblicati dall’Istituto Nazionale delle statistiche – INE, nel periodo gennaio – maggio 2018 l’interscambio commerciale globale della Bolivia ha raggiunto 7,5 Mld. di USD, con un deficit della bilancia commerciale pari a -105 milioni di USD, rispetto ai -663 milioni di USD registrati nello stesso periodo del 2017. Bolivia ha registrato un surplus della bilancia commerciale con Corea del Sud (283 milioni di dollari) , India (USD174 milioni), e Giappone (USD 174 milioni). Viceversa ha mostrato un deficit della bilancia commerciale con la Cina (-595 milioni), Cile (-117 milioni) e Perú (-105 milioni).Le esportazioni hanno raggiunto 3,7 Mld. di USD con un aumento del 22,8% rispetto ai primi cinque mesi del 2017. I principali paesi destinatari delle esportazioni boliviane sono stati: Brasile (17%), Argentina (17% ) e Corea del Sud (8%).Le importazioni hanno raggiunto 3,8 Mld. Di USD, con un aumento del 2,7% rispetto allo stesso periodo del 2017. I principali paesi fornitori sono stati: Cina (20%),Brasile (17%) Argentina (12%)» (Bolivia, InfoMercatiEsteri, Ambasciata d’Italia, 2018).
(4) «La nuova Costituzione sancisce ora la proprietà dello Stato sul sottosuolo. Espropria per ridistribuirle tutte le proprietà terriere superiori ai 5000 ettari. Cerca di impedirne la frammentazione favorendo la proprietà cooperativa, e ancorandola alle comunità indigene ancestrali. Offre ai contadini appoggi e agevolazioni di ogni tipo, compresa l’esenzione fiscale per la piccola proprietà. E dedica l’intero articolo 384 alla coca: “lo Stato protegge la coca originaria e ancestrale come patrimonio culturale, ricorso naturale rinnovabile della biodiversità della Bolivia, e come fattore di coesione sociale; nel suo stato naturale non è stupefacente. La rivalorizzazione, produzione, commercializzazione e industrializzazione si reggerà mediante la legge”» (Limes).
(5) «Più in generale, è la retorica indigenista la cifra di una Costituzione (approvata per referendum il 25 gennaio del 2009) che gli oppositori hanno tacciato di “comunista”, ma che in economia torna piuttosto al vecchio modello del Movimento Nazionalista Rivoluzionario pre-liberista del 1952. Che non dista poi troppo da quello della Costituzione italiana; quella era l’epoca, con l’idea della proprietà garantita a patto di adempiere a una “funzione sociale”. In politica c’è invece una certa attrazione per il modello chavista» (Limes).

Un pensiero su “BOLIVIA. C’ERA UNA VOLTA IL “SOCIALISMO INDIGENISTA”

  1. Commenti da Facebook

    A.R.
    Sarà, forse occorre qualcosa di più che spieghi l’attuale situazione. Non credo che sia indifferente l’intervento dell’imperialismo usa. Credo che uno degli errori di Evo sia in parte l’ideologia del cachico, in parte nel non essere riuscito a mobilitare le masse contro l’evidente realtà del potere della vecchia borghesia col suo apparato, esercito, polizia.

    Sebastiano Isaia
    Ciao! Se ti riferisci ai passi qui riportati, ti rispondo che sul Blog il mio post è più articolato. Quella è solo una citazione, che peraltro a mio avviso è molto interessante. Una buona serata.

    A. R.
    Grazie, vado a vedere

    S. B.
    Prendersela con Morales nel mentre è in corso un golpe è il colmo. L'”errore” principale di Morales è stato quello di firmare un accordo di joint venture con la Cina sull’estrazione del litio e la produzione in loco delle batterie. Questo ha fatto scattare la reazione Usa.

    Sebastiano Isaia
    Ciao! Per quanto mi riguarda non si tratta di attribuire responsabilità a qualcuno, ma di capire i termini del problema al di là di ogni tipo di mistificazione politico-ideologica. Demistificare il cosiddetto “socialismo indigenista” di Evo Morales a mio avviso aiuta quel tentativo di interpretazione. Sempre a mio modestissimo avviso, il “golpe strisciante” cercato negli ultimi tre anni da Morales e il “golpe conclamato” oggi in atto sono due lati della stessa escrementizia realtà. Nel post definisco gli Stati Uniti «la prima potenza imperialista del pianeta», i quali da sempre, almeno dal 1823 (Dottrina Monroe), considerano l’intero Continente Americano la loro personale riserva di caccia. Ma ecco che tu, molto opportunamente, evochi la Cina, cioè la Seconda potenza capitalista-imperialista mondiale. E difatti gli eventi boliviani, come quelli venezuelani ecc., vanno inquadrati anche nella generale guerra sistemica (economica, geopolitica, tecnologica, scientifica, ideologica, militare) interimperialistica. Nei confronti di questa guerra io mi schiero all’”opposizione”, contro tutti i protagonisti, grandi e piccoli, mondiale e regionali, “senza se e senza ma”. Ti auguro una buona giornata.

    L. B.
    Si tenga conto che il lago salato boliviano di Salar de Uyuni ha la caratteristica di contenere il 47% delle riserve mondiali calcolate di litio (oltre a potassio, manganese, ecc.). Il governo boliviano aveva intenzione di sfruttare tali risorse in partnership tra la boliviana YLB (Yacimientos de Litio Boliviano) e la ACI Systems Alemania (ACISA) per la realizzazione a Potosí di un impianto di idrossido di litio e una fabbrica di batterie per veicoli elettrici (40.000 tonnellate all’anno di idrossido di litio dal 2022, per un periodo di 70 anni), accordo concluso nel gennaio 2019. Oltre l’80% del litio doveva essere esportato in Germania, aveva dichiarato lo scorso dicembre Wolfgang Schmutz, CEO di ACI Group, la società madre di ACISA. La realizzazione del progetto si è però ufficialmente interrotta il 3 novembre, quando con il decreto supremo 4070 è stato abrogato il decreto supremo 3738 del 7 dicembre 2018, cancellando l’autorizzazione al progetto. Questa mossa mette in crisi il futuro della mobilità elettrica tedesca, dunque europea. Prima delle elezioni, Morales aveva accusato l’opposizione di aver organizzato le proteste contro il progetto al litio per minare il suo governo. In seguito alle proteste Morales è stato spinto a firmare il decreto di revoca della joint venture. Anche i leader del partito MAS William Cervantes (sindaco di Potosí), Juan Carlos Cejas (governatore di Potosí), Iván Arciénega (sindaco di Sucre) e Orlando Careaga (senatore di Potosí), rinunciavano alle rispettive cariche. A capo delle proteste figura tal Marco Antonio Pumari Arriaga, presidente del Comité Cívico Potosinista (Comcipo), taxista e uomo di paglia della protesta, che chiede una maggiorazione dei canoni di sfruttamento da parte ACI Systems. A far da concorrenti alla società tedesca nella gara per la joint venture c’erano società canadesi, russe e cinesi, ma nulla esclude che a metterci lo zampino per far saltare l’accordo vi siano gli Usa.
    Saluti

    Sebastiano Isaia:
    Un punto di vista alternativo (imperialista?): https://foreignpolicy.com/2019/11/13/coup-morales-bolivia-lithium-isnt-new-oil/

    S. B.
    Interessante e istruttivo. Resta il fatto che gli Usa non tollerano che la Cina metta radici nel suo “cortile di casa”. Non per nulla è in corso da mesi una guerra commerciale tra loro. Argentina e Cile, per quel poco che so, non stanno nazionalizzando e facendo accordi con la Cina. Infine, l’Australia è legata commercialmente più alla Cina che agli Usa. Pertanto, è la Bolivia per ora il problema.

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