Dopo qualche giorno di “latitanza”, il Presidente Xi Jinping si è fatto vivo mediaticamente, probabilmente per confutare le notizie di un suo indebolimento politico circolate in questi epidemici giorni. Ieri il Financial Time si chiedeva se il ciclo dinastico di Xi fosse al tramonto, se pendesse sulla sua graziosa testa la revoca del mandato del Cielo, se il Celeste Imperatore devoto a Mao e a Deng Xiaoping non fosse sul punto di vivere sulla sua pelle il «momento Chernobyl» che dal 1989 angoscia il Partito-Regime. Un po’ si prevede, un po’ si “gufa”, com’è ovvio in questi casi. Naturalmente il Caro Leader indossava la mascherina d’ordinanza, e altrettanto ovviamente egli ha usato il classico registro dell’orgoglio nazionale: «Wuhan è una città eroica e il popolo dello Hubei e di Wuhan sono popoli eroici che non sono mai stati schiacciati da alcuna difficoltà e pericolo nella storia. Finché i nostri compagni lavorano insieme, combattono con coraggio per superare le difficoltà possiamo certamente ottenere una piena vittoria nella lotta contro l’epidemia». Si combatte l’epidemia virale, si sperimentano procedure idonee ad affrontare crisi sociali di vasta portata e ci si addestra in vista di future guerre con i nemici strategici del Celeste Imperialismo. Ma la preoccupazione più immediata, per il regime cinese, è quella di contenere e soffocare le prime avvisaglie di uno smottamento nel prestigio di cui esso ha indubbiamente goduto nel Paese durante il lunghissimo ciclo espansivo dell’economia cinese, economia capitalistica a tuttotondo, come capitalistico, “senza se e senza ma”, è il Partito-Regime che si fa chiamare “comunista” – in primis per la felicità degli anticomunisti! Questo è sempre bene ribadirlo anche in spregio degli italici tifosi del “Socialismo con caratteristiche cinesi” – tipo Oliviero Diliberto, l’ex leader del Pdci ed ex ministro della Giustizia che insegna diritto romano all’università di Wuhan. «Criminalizzare le usanze di questo popolo è sbagliato e il livello di igiene a Wuhan è altissimo», sostiene Diliberto. Ma non si tratta affatto, almeno per chi scrive, di «criminalizzare le usanze» del popolo cinese, ma di combattere il regime cinese, il capitalismo cinese, l’imperialismo cinese, e questo discorso per l’autentico comunista vale per tutti i Paesi del mondo – a cominciare dall’Italia, per quanto mi riguarda. Da buon non-comunista Diliberto loda invece «l’efficienza estrema» del regime cinese, il quale «ha costruito in sei giorni un ospedale da mille posti»: in fretta e furia, con metodi socialmente “discutibili” (l’assenza di sindacati indipendenti aiuta!), per recuperare il tempo perduto dopo censure, repressioni e menzogne!
Intanto anche ai vertici del PCC si insinua il dubbio circa la necessità di riformare in profondità l’assetto politico-istituzionale del Paese, le cui “rigidità” tipiche dei regimi autoritari a partito unico non sembrano più adeguate ad affrontare le sfide che la globalizzazione e la modernizzazione lanciano alla Cina del XXI secolo. La cinghia di trasmissione, dall’alto verso il basso e dal basso verso l’alto, rappresentata dal Partito-Regime potrebbe bloccarsi con esiti a dir poco catastrofici. La crisi virale di queste settimane (crisi sociale a tuttotondo, è bene precisarlo) potrebbe essere un salutare campanello d’allarme per svegliare i Cari Leader. Sembra che alcuni esponenti “apicali” del PCC ragionano nei termini qui sinteticamente esposti. Naturalmente quando un Caro Leader cinese sente parlare di glasnost e di perestrojka fa gli scongiuri, diciamo. Basterà?
Diceva il Grande Timoniere (della Rivoluzione nazionale-borghese): «Chi ha paura della critica: il Partito comunista o il Kuomintang? È il Kuomintang quello che teme la critica; che vieta la critica. Per questo motivo non ha potuto sottrarsi al naufragio». Chi ha paura della critica? Chi vieta la critica oggi in Cina?