«Mentre il coronavirus stravolge la vita di milioni di persone anche negli Usa, i cinesi-americani affrontano una doppia minaccia. Non solo stanno lottando come tutti gli altri per evitare il virus, ma stanno anche lottando con il crescente razzismo. Anche altri asiatici-americani – con famiglie coreane, vietnamite, filippine, del Myanmar e di altri paesi – sono sotto minaccia. Nelle interviste della scorsa settimana, circa due dozzine di americani asiatici in tutto il paese hanno dichiarato di avere paura: di fare la spesa, di viaggiare da soli in metropolitana o in autobus, di far uscire i propri figli. Molti hanno raccontato di essere stati insultati in strada. Un’improvvisa ondata di odio che ricorda quella affrontata da musulmani americani e da altri arabi dopo gli attacchi terroristici dell’11 settembre 2001. Trump sta usando un linguaggio che secondo gli asiatici americani sta provocando attacchi razzisti. Trump parla di “virus cinese”, e martedì ha detto ai giornalisti che chiama il virus “cinese” per controbattere alla campagna di disinformazione da parte di Pechino, affermando che i cinesi sono la fonte dell’epidemia» (Dagospia).
Anche in Italia, prima che cominciasse il nostro turno nella sperimentazione dell’evento epidemico, e prima che in tutto il mondo ci schifassero come portatori del maledetto “virus cinese”, si diffuse una certa ostilità, per così dire, nei confronti dei cinesi (e “affini”) presenti sul sacro suolo nazionale, percepiti come potenziali untori e costringendoli a una precoce “quarantena autoimposta” – di certo caldeggiata (ordinata?) anche dal regime cinese, allora in debito di popolarità presso l’opinione pubblica internazionale, oltre che su quella nazionale. Detto en passant, dopo aver accusato, più o meno velatamente, gli Stati Uniti di essere all’origine dell’epidemia esplosa a fine novembre dello scorso anno a Wuhan, da qualche giorno Pechino sembra aver cambiato capro espiatorio propagandistico, visto che sta cercando di accreditare, manipolando dichiarazioni rilasciate da noti virologi italiani, la tesi secondo cui è l’Italia, non la Cina, il Paese responsabile della pandemia targata COVID-19. La misericordiosa e filantropica Via della Salute Roma-Pechino si è già interrotta? Di certo una simile “antipatica” manovra propagandistica da parte dei “compagni” cinesi, il governo italiano non se l’aspettava.
Naturalmente il Coronavirus non è né cinese, né americano, né italiano: esattamente come il rapporto sociale capitalistico oggi dominante in tutto il mondo, quel virus (e la malattia a esso correlata) non ha nazione, ed anche per questo non ha alcun senso stabile il punto zero geografico della pandemia. Per dirla volgarmente, tutto il mondo è Paese, ovvero: il mondo è diventato un solo grande Paese – capitalistico, e per questo radicalmente ostile all’umanità e alla natura. Le peculiarità nazionali (locali) che hanno contribuito alla genesi della famigerata pandemia (le contraddizioni e i limiti del gigantesco e devastante sviluppo capitalistico che ha interessato la Cina negli ultimi quattro decenni, la struttura politico-istituzionale del regime cinese, ecc.), non bastano, a mio avviso, a connotare come “cinese” il Coronavirus. Esattamente come le mitiche “catene del valore” che si aggrovigliano intorno alla nostra sempre più precaria esistenza, anche le malattie virali hanno una dimensione globale, non conoscono confini nazionali. Il virus che minaccia i nostri polmoni parla la lingua del Capitale, ossia del Moloch che lo ha gettato nella mischia sociale – il metaforico dito non indica il pipistrello, o un altro “vettore animale”, ma una peculiare relazione sociale.
L’analogia con la guerra mondiale non potrebbe essere più adeguata e stringente: non ha alcuna importanza, al fine della ricerca delle “vere e ultime” responsabilità del conflitto bellico, quale Paese ha fatto la prima mossa (ad esempio, la Germania o il Giappone), perché le ragioni di quel conflitto (ad esempio, la spartizione delle materie prime e dei mercati internazionali) chiamano in causa il Sistema Imperialista Mondiale nel suo complesso.
Non abbiamo insomma a che fare con il supposto nemico invisibile di cui parlano tutti i governi del mondo e che la scienza medica cerca di contenere e distruggere – dando nuova linfa ai teorici del governo dei competenti; abbiamo a che fare con la ciclopica realtà di una Società-Mondo in grado di renderci difficile, e a volte perfino impossibile, la vita in tutti i modi possibili e immaginabili – anche se l’immaginazione spesso non riesce a tenere il passo della realtà. Ma ci vogliono occhiali speciali per vedere la sostanza sociale del virus; ci vuole un pensiero non ancora del tutto piegato alla “cultura del realismo”, per capirne il linguaggio. Perché la Cosa qualcosa ci dice, anzi ci grida.
Ieri sul Financial Time Gideon Rachman, riflettendo sulle conseguenze economiche e politiche della pandemia in corso, faceva sfoggio del suo proverbiale ottimismo: «Il problema è quando lo stato-nazione sfocia in un nazionalismo incontrollato, che porta a un crollo nel commercio globale e al quasi abbandono della cooperazione internazionale. Gli scenari peggiori da questo punto di vista riguarderebbero il collasso dell’Unione Europea e la rottura delle relazioni tra Stati Uniti e Cina, che potrebbe plausibilmente culminare in una guerra». Plausibilmente. Non si tratta di capire quanto sia realistica la “profezia” di Rachman, ma di comprendere quanto pessima sia la nostra condizione, “qui e subito”; una condizione che rende plausibile ogni genere di catastrofe. Certamente ci aspettano tempi di “lacrime e sangue”, di sacrifici imposti dalla crisi economica innescata dalla pandemia (ma già a fine gennaio l’economia italiana tendeva alla recessione), e non a caso nel nostro Paese si parla sempre più spesso di un futuro “governo di unità/solidarietà nazionale” – magari con Mario Draghi investito di “pieni poteri”… Più in generale, da tutte le parti ci spronano ad accettare l’idea che niente sarà più come prima, che dobbiamo cambiare i nostri “stili di vita”, adeguarli alle minacce che ci giungono da un mondo sempre più complesso ed enigmatico, nel quale anche una stretta di mano può risultaci fatale. Impariamo a respirare con moderazione: l’aria potrebbe essere infetta. Che brutti tempi!
Scrivevo su un post di qualche giorno fa: «A proposito di cigni neri e di opportunità offerte dall’attuale crisi sociale, ho l’impressione che la “nuova normalità” post-crisi sarà peggiore di quella vecchia, come vuole la pessimistica (ma quanto realistica!) tesi secondo cui, posta questa disumana società, il peggio non conosce alcuna saturazione». Il problema è che le nostre capacità di adattamento sembrano quasi illimitate – come ebbe a dire anche Primo Levi, riflettendo sull’infernale vita nei lager nazisti: «I migliori di noi, i più sensibili, erano tutti morti già da un pezzo».
Mi rendo conto di aver depresso alquanto i lettori e quindi desidero concludere questa triste riflessione con una nota positiva. Inutile dire che il Paese può contare sulla responsabilità e sulla solidarietà del sottoscritto: dai, ridiamo! Pare che ridere aiuti a irrobustire il nostro sistema immunitario: per dirla con Vasco Rossi, voglio dare un senso a questo post! Vediamo se ci riesco toccando un ben diverso registro.
Il leader della CGIL Maurizio Landini ha dichiarato oggi: «L’interlocuzione con il governo sta andando bene. Dobbiamo salvaguardare la salute dei lavoratori e l’economia del Paese. Come sindacato il nostro obiettivo è evitare che la paura possa trasformarsi in rabbia. Oggi si tratta di unire questo Paese, non di dividerlo». L’obiettivo degli anticapitalisti è invece quello di trasformare in coscienza rivoluzionaria la paura e la rabbia dei lavoratori e di chiunque vive con sofferenza la disumana e irrazionale realtà di questa società. Il fatto che questo obiettivo oggi appaia completamente “fuori scala”, irrealistico, ebbene ciò non toglie nulla alle ottime ragioni dell’anticapitalista e testimonia piuttosto della tragedia che stiamo vivendo come umanità. L’estrema debolezza (“rarefazione”) politica degli anticapitalisti non è solo un loro problema, tutt’altro.
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