A testimoniare della natura squisitamente sociale – e per nulla naturale – della crisi sanitaria mondiale di questi mesi, giunge anche la ritorsione del Presidente Trump nei confronti dell’Organizzazione Mondiale della sanità, accusata non solo di grave negligenza e pressappochismo in tutta la questione epidemica, ma di essersi mossa di fatto in piena sintonia con gli interessi cinesi, cosa che l’avrebbe portata addirittura a «insabbiare informazioni e dati sulla diffusione dell’epidemia» (*). Bisogna dire che la decisione di Trump non giunge inattesa, dal momento che essa «è stata annunciata da giorni e sostenuta persino dai media americani anche più progressisti» (Notizie Geopolitiche). Scrive Enrico Oliari: «Il sospetto della Casa Bianca e non solo è che l’asse tra i cinesi e l’Oms sia consolidato, anche perché nel 2017 l’etiope Ghebreyesus fu eletto con i voti di quasi tutti i paesi africani, gli stessi in cui Pechino detta legge attraverso il neoimperialismo coloniale. Di certo la polemica torna utile allo stesso presidente nella logica dello scarica barile, dal momento che i suoi ordini e i contrordini sulla gestione dell’epidemia negli Usa si stanno traducendo nei dati di oggi: 600mila contagiati e 25mila morti» (Notizie Geopolitiche).
Per il Corriere della Sera «L’Oms si è mossa in ritardo e, pur lanciando allarmi, per molto tempo ha evitato di sollecitare interventi radicali dichiarando la pandemia soltanto dopo un mese. Il direttore generale Tedros Adhanom Ghebreyesus è andato a Pechino ad omaggiare Xi Jinping per la sua presunta trasparenza anche se la Cina ha nascosto a lungo le reali dimensioni dell’epidemia: ed è verosimile che l’organizzazione si sia comportata in questo modo perché marcata stretta dalla Cina». Come si vede, anche qui viene avanti il rapporto che la Cina ha stretto con il direttore dell’OMS e, più in generale, le conseguenze sul piano geopolitico della dinamica e capitalisticamente aggressiva presenza dell’imperialismo cinese in Africa – e non solo
In un’intervista a Repubblica, l’ambasciatore della Cina in Italia Li Junhua ha dichiarato che «La Cina è pronta a fare da guardiano all’ordine mondiale e da riparatrice dell’economia globale»: è chiaro che questa chiara strategia non può non inquietare l’imperialismo americano, il quale evidentemente capisce che l’ordine mondiale che la Cina intende difendere inizia a penalizzarlo in modo sempre più serio e su diversi fronti.
Da più parti in Occidente si sostiene che la Cina stia approfittando della crisi epidemica per espandersi economicamente, politicamente e ideologicamente in quei Paesi europei fiaccati dalla crisi epidemica. La particolare struttura politico-istituzionale della Cina avrebbe permesso a questo Paese di mostrare una grande resilienza sistemica e un’eccezionale capacità di reazione, e ciò l’avrebbe messo nelle condizioni di avvantaggiarsi delle altrui debolezze. Come sempre nelle guerre, alla fine c’è chi perde e chi vince. Naturalmente le classi subalterne di tutti i Paesi, sia che appartengano al novero dei vinti che a quello dei vincitori, da questa guerra escono sempre e puntualmente come perdenti, ma questo è un altro (forse) discorso. Ha ragione chi teme il rafforzamento dell’imperialismo cinese anche grazie all’epidemia in corso? Non c’è dubbio. Ma non si tratta, ovviamente, di cattiveria, ma della natura del capitalismo/imperialismo mondiale. Di solito le nazioni si scandalizzano per l’altrui attivismo imperialista, mentre il loro proprio imperialismo non lo vedono neanche: «Il nostro Paese desidera per il mondo pace, armonia, prosperità e uguaglianza tra le nazioni». Come no! Perché dunque scandalizzarsi della pratica imperialista della Cina? Chi si scandalizza mostra di difendere interessi che fanno capo ad altri imperialismi: ad esempio a quello americano, o a quello europeo – che ancora fatica a trovare una “sintesi” nell’Unione Europea.
«Il coronavirus è l’ultima arma del nuovo imperialismo cinese?», domanda Luca Forestieri di Rolling Stone alla sinologa Giada Messetti. «Finita la pandemia», continua Forestieri, «l’equilibrio di forze potrebbe cambiare e la Cina di Xi Jinping potrebbe soffiare agli Stati Uniti il primato di maggiore economia mondiale». Che ne pensa di questo scenario l’autrice di Nella testa del dragone (Mondadori, febbraio 2020)? La via della seta e la via della sanità hanno a che fare con le mire egemoniche dell’imperialismo cinese? Ecco la risposta della sinologa: «È un modus operandi esattamente com’è stato quello degli USA dopo la seconda guerra mondiale: avere un controllo geopolitico di alcune parti del mondo da parte della Cina. Anche gli USA non hanno dato i soldi all’Europa [dopo la Seconda guerra mondiale] per benevolenza. E così la Cina: ha un surplus pazzesco e cerca nuovi mercati in cui vendere le merci. […] È il soft power cinese che si sostituisce a quello americano. Una volta erano gli americani che aiutavano. Adesso sono i Cinesi che si stanno raccontando all’esterno come coloro in grado di fornire aiuti e assistenza. Tanto che in Cina si parla già di “Via della Seta sanitaria”». È la contesa interimperialistica, e tu non puoi farci niente, sciocco occidentale! A proposito: si scrive «modus operandi», si legge prassi imperialista.
«Più capitalista o più socialista. Come sarà la Cina del futuro?», chiede ancora Luca Forestieri, il quale evidentemente non ha letto i miei fondamentali scritti (faccio dell’ironia!) sulla Cina, a Giada Messetti. «Non so rispondere, ma penso che la Cina diventerà sempre di più un modello a cui noi guarderemo. Il capitalismo cinese è un mix tra socialismo e capitalismo perché sono riusciti a rendere cinese il capitalismo occidentale». Ma non sarebbe stato più corretto e semplice rispondere che quello cinese non è che un capitalismo “con caratteristiche cinesi”? Un «mix tra socialismo e capitalismo» è una formula che sarebbe molto piaciuta a Marx: anche qui, faccio della facile ironia. Come ho scritto non so quante volte commentando le risibili (qui invece faccio dell’eufemismo) tesi dei tifosi occidentali del “Socialismo con caratteristiche cinesi”, la “sovrastruttura” politico-istituzionale della Cina è (è sempre stata, da Mao a Xi Jinping, con la mediazione di Deng Xiaoping) perfettamente adeguata alla sua “struttura” economica-sociale, la quale è capitalistica al 100 per cento. «Ma il Partito che dà sostanza al regime autoritario cinese si chiama comunista!». Ecco, appunto, si chiama…
Naturalmente i sostenitori dell’imperialismo occidentale hanno tutto l’interesse ad accreditare la natura “comunista” del regime cinese, in modo da celare gli interessi imperialistici che difendono dietro una cortina di lotta ideologica (secondo il ben noto e rodato schema dello scontro fra le civiltà), e da poter dimostrare ai lavoratori occidentali quanto poco appetibile sia un “regime comunista”, il quale quanto a sfruttamento della forza lavoro e a oppressione politica («In Cina gli operai se li sognano i sindacati liberi e indipendenti!) vince la gara con i regimi democratici occidentali.
Ancora la sinologa Messetti: «L’Occidente ha sfruttato la Cina per avere profitti più alti perché avevano bisogno di manodopera a basso costo. La Cina l’ha fatto, ma quando ha acquisito le competenze, ha detto “Ok, noi ora vogliamo diventare la potenza tecnologica più avanzata del mondo”. Non è rimasta passiva, ma ha girato le cose a suo vantaggio. E ora è arrivato il suo momento. La Cina se ne frega della cultura occidentale, fa come dice lei perché crede che il suo metodo sia superiore al nostro. Ed è la prima volta che l’Occidente si ritrova in questa situazione dopo secoli in cui si è sentito superiore rispetto agli altri». Non c’è che dire, l’imperialismo occidentale ha trovato pane imperialistico per i suo denti – e sempre posto che abbia un senso mettere l’Europa e gli Stati Uniti in un solo fascio, mentre in realtà molte e profonde le faglie di scontro sistemico tra le due sponde dell’Atlantico, e questo ancora una volta porta acqua al mulino del Celeste Imperialismo.
Per Vittorio Emanuele Parsi (Il Messaggero) la frenata economica di Cina e Stati Uniti provocata dalla pandemia potrebbe rivelarsi «la vera chance per l’Europa», la quale potrebbe approfittare della momentanea debolezza di quei due Paesi per acquistare autonomia e capacità di iniziativa geopolitica. Secondo Francesco Bechis, l’attivismo cinese in Europa si spiega anche con una serie di problemi che la Cina si trova a dover affrontare: «Ora che gli Stati Uniti di Donald Trump hanno iniziato a rispondere con i fatti e a venire in soccorso degli alleati europei, la “coronavirus diplomacy” cinese nel Vecchio Continente è entrata in una nuova, più aggressiva fase della campagna diplomatica per stringere rapporti (e contratti) con i partner del Vecchio Continente nel guado dell’emergenza sanitaria. Due le ragioni che spiegano una così brusca accelerazione. La prima: la crisi economica. Oggi mantenere un accesso privilegiato al mercato europeo non è un optional, è questione di vita o di morte per l’economia cinese. La caduta a picco del Pil, che, scrive Reuters, gli analisti stimano in un -6,5% sull’anno precedente da gennaio a marzo, -9,9% su base trimestrale, preoccupa non poco le feluche cinesi. Per trovare un precedente bisogna risalire al 1992. Se si pensa che nel primo trimestre del 2019 il Pil cinese è cresciuto del 6% si ha una dimensione del baratro. La seconda: non tutto fila liscio nella campagna cinese in Europa a suon di aiuti internazionali, mascherine, equipaggiamento medico. Negli ultimi giorni, il piano di Xi Jinping ha iniziato a mostrare le prime crepe» (Formiche.net). Staremo a vedere. Naturalmente Bechis, essendo un sostenitore del “mondo libero e democratico”, si augura che la controffensiva americana abbia pieno successo. Personalmente tifo invece per la catastrofe del Capitalismo/Imperialismo mondiale preso in blocco, nella sua disumana ed escrementizia totalità, ma questi sono dettagli che forse ai lettori non interessano.
Il noto scienziato sociale Alessandro Di Battista non ha invece alcun dubbio su dove punti l’ago della bilancia nella lotta per il potere mondiale: «La Cina vincerà la Terza guerra mondiale senza sparare un solo colpo. Noi abbiamo carte da giocare in Europa, come il rapporto con la Cina» (Il Fatto Quotidiano). Alla luce della sapienza geopolitica del “leader di riserva” dei pentastellati, dire che «La Cina è vicina», come si diceva una volta, suona del tutto anacronistico: la Cina è già qui e non se ne andrà più, per la felicità dei tifosi del “modello cinese”.
Scrive Jacob L. Shapiro: «Stati Uniti e Cina sono i due pilastri dell’economia globale. Insieme, assommano il 40% del pil mondiale. Eppure, la minaccia unica e planetaria posta dal coronavirus non ha avvicinato i due paesi. Anzi, li ha ulteriormente allontanati. In questo momento le relazioni bilaterali sono ai minimi dagli anni della guerra in Vietnam, quando Pechino inviò centinaia di migliaia di soldati nel Vietnam del Nord per supportare i vietcong. Il mondo già ne soffre, ma è molto probabile che abbia a soffrirne ancora di più» (Limes). Il futuro non promette nulla di buono? Niente sarà più come prima, è d’altra parte il mantra del momento: non so a chi legge, ma a me quel mantra suona oltremodo sinistro. La “nuova normalità” si annuncia ancora più brutta di quella vecchia, su ogni aspetto della vita individuale e sociale. Ora, e per non dar libero corso al mio antipatico pessimismo, non si vede perché «la minaccia unica e planetaria posta dal coronavirus» avrebbe dovuto avvicinare i due Paesi che oggi si contendono il primato mondiale in ogni ambito della contesa imperialistica: in quello economico, tecnologico, scientifico, geopolitico, militare, ideologico. La stessa lotta alla pandemia si è presto e necessariamente trasformata in una continuazione della guerra mondiale sistemica con altri mezzi, in un suo importante, e per molti analisti geopolitici perfino decisivo, momento di quella guerra. Per Le Monde, la pandemia forza tendenze già presenti sulla scena geopolitica da molto tempo e segna il definitivo tramonto dell’Occidente, la cui egemonia sistemica (economica, politica, culturale) sul mondo passa decisamente nelle mani dell’Oriente più estremo: dalla Cina alla Corea del Sud – che non a caso hanno offerto al mondo i due modelli ritenuti più di successo nella lotta al Covid-19. Avremo modo di verificare la solidità di questa tesi, la quale peraltro riprende la ben nota “profezia” di Oswald Spengler esposta nel suo famoso libro pubblicato nell’estate del 1918 – nel pieno della Spagnola.
«Il virus – osserva Shapiro – colpisce gli esseri umani indipendentemente dal colore della pelle, dal credo religioso, dalla nazionalità. Il virus non guarda se il suo ospite è americano, cinese, spagnolo o sudafricano. Il dolore di perdere i propri cari, la paura di lasciare casa, la necessaria ma innaturale necessità di isolarci dalle nostre comunità, l’incertezza economica sono divenute esperienze universali nelle ultime settimane. Per il Covid-19, siamo tutti uguali». Com’è ingenuo, signor Shapiro! Per il virus un “ospite vale l’altro”, ma la malattia che esso innesca impatta non su un’astratta umanità, ma su una Società-Mondo che mostra di essere radicalmente ostile agli uomini in generale, e alle classi subalterne in particolare. Senza contare poi, che è stata la distruzione degli ecosistemi prodotta dal capitalismo a gettare il famigerato virus nella mischia sociale, per tacere delle altre cause squisitamente sociali che ne hanno determinato la diffusione planetaria e la sua pericolosità per la salute umana. Ma su questo aspetto rimando ai miei precedenti post dedicati alla “problematica”.
(*) REVISIONI CON CARATTERISTICHE CINESI
«Coronavirus, la Cina ha rivisto, a sorpresa, i conti dell’epidemia, conti che fin dall’inizio hanno sollevato perplessità in Occidente: la città di Wuhan, il focolaio del Covid-19, ha annunciato i numeri di contagi e decessi aumentandoli, rispettivamente, di 325 unità a 50.333 e di 1.290 unità a 3.869 totali. Il quartier generale municipale impegnato nella prevenzione e controllo del virus ha spiegato in una nota, secondo i media locali,… che la “revisione è conforme a leggi e regolamenti, e al principio di essere responsabili verso la storia, le persone e i defunti”» (Il Messaggero). «Non c’è mai stato un insabbiamento delle informazioni sull’epidemia di Covid-19 in Cina, il governo di Pechino non consente operazioni del genere. Lo ha dichiarato il portavoce del ministero degli esteri cinese, Zhao Lijian» (La Presse). Quasi quasi ci credo. Quasi. Però no, meglio di no. Non vorrei attirare su di me l’ira dello spettro del dottor Li Wenliang, e la rabbia dei “giornalisti di strada” di Wuhan che il Partito-Regime ha silenziato “solo” perché hanno denunciato le sue menzogne sulla crisi sanitaria. Piuttosto è lecito attendersi ulteriori “revisioni”, e perfino qualche “autocritica”. Chissà!