LA CINA È CAPITALISTA? SOLO UN POCHINO…

Leggo da qualche parte: «Nell’ampia terza parte – sulla natura del sistema politico-economico cinese – gli autori affrontano, con l’ausilio delle “lenti di Marx” e dell’ampio e originale apporto di statistiche e studi economici, una questione (se non la questione) fondamentale per l’orientamento del movimento operaio e comunista su scala mondiale: alla domanda che dà il titolo al libro – la Cina è capitalista? – il lettore attento troverà dati, argomenti e ragionamenti per la comprensione del percorso del “socialismo con caratteristiche cinesi”, ben distante da quello capitalistico». Mi sono occupato del libro di Rémy Herrera e Zhiming Long in un post scritto un anno fa: Il colore del gatto cinese. Che colore ha il metaforico (“denghiano”) gatto cinese? Il colore del Capitale, è ovvio! La cosa appare ovvia, beninteso, solo a chi non ha gli occhi foderati di prosciutto ideologico, come diceva l’oculista di Treviri. C’è gente che guarda la realtà del capitalismo planetario (dagli Stati Uniti alla Cina, dall’Europa all’Africa, ecc.) inforcando le “lenti di Stalin” o di Mao, e pensa di analizzare quell’escrementizia realtà «con l’ausilio delle “lenti di Marx”»: ne vien fuori un guazzabuglio politico-ideologico a dir poco rivoltante, anche perché costringe l’anticapitalista a fare i salti mortali per far capire ai suoi interlocutori che il povere Marx non c’entra nulla con la Russia di Stalin e con la Cina da Mao Tse-tung a Xi Jinping.

In ogni caso, «del «movimento operaio e comunista su scala mondiale» di cui straparlano taluni, è meglio tenersi alla larga: potrebbe trattarsi dell’ennesima fregatura organizzata dal “fronte antimperialista” ai danni di qualche ingenuo. Il socialismo con caratteristiche cinesi: che ciclopica panzana!

Solo un pochino…

Nel suo libro Enterprise, industry and innovation in the People’s Republic of China: questioning socialism from Deng to the trade and tech war, «Alberto Gabriele introduce il concetto di “impresa non capitalistica orientata al mercato”, che si applica a tutte le aziende produttive che non possono essere considerate pienamente capitalistiche in base alla struttura dei diritti di proprietà. In Cina, queste imprese comprendono le imprese statali e le cooperative, ma anche molte altre aziende, tra cui le imprese indirettamente controllate dallo Stato e le stesse unità produttive agricole a base familiare. Il nucleo strategicamente dominante della economia cinese rimane sotto il controllo strategico dello Stato. Contrariamente a quanto ritengono molti osservatori occidentali, che vedono la Cina come ormai dominata dal capitalismo (sia pure definito, utilizzando erroneamente una categoria fumosa e comunque adatta tutt’al più a descrivere fenomeni completamente diversi, come “capitalismo di stato”), le imprese non capitalistiche orientate al mercato producono una parte maggioritaria del prodotto nazionale cinese».

Il concetto di «impresa non capitalistica orientata al mercato» contiene almeno una fondamentale contraddizione che conferisce alla sua formulazione un carattere particolarmente “bizzarro”, diciamo così. L’impresa, storicamente e socialmente parlando, è il luogo nel cui seno avviene il processo di produzione del plusvalore, fondamento economico di ogni tipo di profitto e di rendita. L’impresa o è capitalistica, e quindi orientata necessariamente al mercato (un’altra realtà fondamentale del capitalismo), o semplicemente non è. Non è certo un caso se Marx o Engels non parlarono mai, con riferimento all’auspicata futura Comunità umana, di “impresa socialista”, un vero e proprio ossimoro, una contraddizione in termini. Stesso discorso vale per il concetto di azienda.

Dal concetto di impresa si ricava, com’è noto, quello di imprenditore, il quale può avere una natura individuale oppure collettiva – vedi le Società per azioni, le cooperative, lo Stato e così via. Ciò che caratterizza la natura sociale di un’economia non è affatto il carattere giuridico della proprietà, la quale può appunto assumere nell’ambito di uno stesso Paese molteplici e più o meno contingenti configurazioni giuridiche, ma il rapporto sociale di produzione. Come si sa (?), fu soprattutto Engels a individuare nello Stato capitalista l’ideale del capitalista complessivo (o collettivo): «Né la trasformazione in società per azioni né quella in proprietà dello Stato sopprime l’appropriazione capitalistica delle forze produttive. […] Lo Stato moderno, qualunque ne sia la forma, è una macchina essenzialmente capitalistica, uno Stato dei capitalisti, l’ideale capitalista complessivo. Quanto più si appropria di forze produttive tanto più esso diventa realmente il capitalista generale, tanto più sfrutta i cittadini dello Stato borghese. I lavoratori restano operai salariati, proletari. La categoria del capitale non è abolita, ma è spinta al contrario al più alto grado» (Anti-Dühring). Su questo fondamentale aspetto della questione rimando i lettori a un mio PDF: Dialettica del dominio capitalistico.

A quanto mi risulta in Cina, come in ogni altro Paese del mondo, il lavoro (salariato) è sottomesso al Capitale – pubblico e privato, nazionale e multinazionale. La merce Made in Cina non è, marxianamente parlando, una cosa, un semplice prodotto del lavoro umano, ma soprattutto l’espressione più verace (e disumana) di un rapporto sociale di dominio e di sfruttamento – dell’uomo e della natura. «In base alla struttura dei diritti di proprietà», e soprattutto in base della struttura dei rapporti sociali di produzione, tutte le aziende produttive che operano (che sfruttano lavoro vivo) in Cina possono essere considerate pienamente capitalistiche.

In estrema sintesi! L’impresa, al pari del mercato, non è una semplice forma organizzativa socialmente neutra: in quanto sede del processo di produzione di valore essa è la forma tipica della produzione capitalistica. Il superamento del capitalismo non è un problema di forme di proprietà (pubblica o privata) o di gestione (centralizzata o decentralizzata, “autoritaria” o “democratica”), ma di forme sociali di produzione, ossia di rapporti di classe: vedi il rapporto Capitale-Lavoro (salariato), il rapporto sociale fondamentale di questa epoca storica.

Ai miei occhi voler dimostrare la natura socialista (o in ogni caso “problematica”, bisognosa di una sospensione del giudizio) dell’economia cinese, o solo di una sua parte, appare come un’impresa che definire ridicola, oltre che ultrareazionaria (stiamo parlando della seconda potenza capitalista/imperialista del mondo!), è dir poco, troppo poco. Ma si approssima il Santo Natale che, benché con caratteristiche epidemiche, ispira sentimenti “buonisti” anche in chi scrive.

Ma, si dirà (anche dal fronte degli apologeti del capitalismo liberale/liberista, i quali hanno in odio il «capitalismo totalitario comunista cinese»: sic!), abbiamo pur sempre a che fare con un regime politicamente non capitalista, se proprio non vogliamo definirlo socialista o comunista per mera pignoleria dottrinaria. Sbagliatissimo! Qui la pignoleria dottrinaria non c’entra niente; abbiamo piuttosto a che fare con l’analisi sociale e storica, la quale ci dice che la “sovrastruttura” politico-istituzionale della Cina si armonizza perfettamente con la sua “struttura” economica, e questo già ai tempi di Mao Tse-tung, eroe di una straordinaria rivoluzione nazionale-borghese mitizzata come “rivoluzione socialista” secondo i ben noti usi e costumi stalinisti: basta aggiungere ai fatti e alle cose la parolina magica “socialismo”, e il gioco ideologico è fatto. Qui rimando i lettori ai miei diversi scritti sulla Cina (*).

Insomma, il Partito-Regime cinese è “comunista” esattamente come chi scrive è un “marziano”. «Ma a Marte non esistono creature visibili all’occhio umano». Ma va?

In conclusione (si fa per dire)! Lungi dal «rappresentare nella sostanza il primo esempio al mondo di una nuova formazione economico-sociale» (a suo tempo si disse la stessa cosa per la Russia di Stalin), come sostiene chi «guarda da molto tempo e con simpatia allo sviluppo progressivo dell’economia cinese», la Cina del XXI secolo rappresenta una gigantesca realtà sociale la cui economia e la cui dinamica sistemica (inclusa quella geopolitica: vedi alla voce Imperialismo) si spiega solo a partire dal rapporto sociale di produzione capitalistico.

(*) Sulla campagna cinese; Žižek, Badiou e la rivoluzione culturale cinese; Tutto sotto il cielo – del Capitalismo; Da Mao a Xi Jinping. 70 anni di capitalismo con caratteristiche cinesi.

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16 pensieri su “LA CINA È CAPITALISTA? SOLO UN POCHINO…

  1. Commenti da Facebook

    C. F.:
    Sono totalmente d’accordo, ma fino a prova contraria, nessuna rivoluzione ha modificato i “rapporti sociali di produzione” ovvero i “rapporti di classe”. Il rapporto tra capitale e lavoro non cambia anche se l’impresa privata si trasforma in impresa di Stato. I lavoratori restano operai salariati, proletari. La domanda che mi pongo allora è la seguente: visti i reiterati insuccessi è davvero possibile modificare questi rapporti in considerazione delle enormi difficoltà politico/organizzative (forse anche di natura antropologica) esistenti? E qualora non fosse possibile non sarebbe opportuno rassegnarsi all’idea che il “comunismo” più che una “bella” utopia non può essere? Altrimenti non solo ci facciamo del male ma raccontiamo (con tutte le buone intenzioni) delle frottole. Confido in una tua risposta “concisa” anche se mi rendo conto che non è facile renderla tale visto la complessità (almeno per me) della questione.

    Sebastiano Isaia:
    Ti ringrazio per l’attenzione che mi dedichi. «Visti i reiterati insuccessi»: dove? quando? Te lo domando per capire se abbiamo in testa la stessa cosa, lo stesso concetto quando parliamo di “rivoluzione sociale”, “socialismo”, “comunismo” e quant’altro. Per quanto mi riguarda, non vedo «reiterati insuccessi» dopo la sconfitta subita dal proletariato russo e internazionale con la controrivoluzione stalinista – momento centrale della controrivoluzione capitalistica che, tra l’altro, partorì il fascismo. Ma forse ho inteso male ciò che scrivi. Nella fattispecie, Il “progetto socialista cinese” non è fallito semplicemente perché esso non è mai esistito – se non nella versione ideologica del PCC che di socialista non aveva nulla. L’esperienza del periodo maoista (individuo un nome tanto per intenderci) appare invece complessivamente vincente sul piano storico, perché essa riuscì, pur con molti limiti e contraddizioni, a portare il Paese unito alle soglie del suo definitivo decollo capitalistico: come ho scritto altrove, si tratta di un successo interamente conseguito sul terreno capitalistico, il solo praticato dal cosiddetto PCC e dalla Rivoluzione cinese – una rivoluzione nazionale-antimperialista-borghese, non “socialista”. A mio avviso ciò che fallì, e comunque occorre precisare i contorni di questo fallimento, non fu il tentativo di costruire il socialismo in un solo Paese (la Cina), ma piuttosto l’ipotesi di uno sviluppo autarchico del capitalismo cinese, ipotesi che prese corpo non sulla base di una precisa scelta ideologica, sebbene sarà presentata dal Partito-Stato proprio in questi termini (prassi del resto tipica nello stalinismo e nel maoismo), ma a causa di fattori interni e internazionali ben individuabili, come cerco di argomentare, ad esempio, nello scritto sulla Campagna cinese. Ovviamente questo è solo il mio punto di vista. Per finire, alla tesi circa la natura antropologica delle difficoltà che si affastellano sul terreno dell’emancipazione delle classi subalterne (e dell’intera umanità) non ho mai dato alcun credito e anzi l’ho sempre combattuta. Ti ringrazio nuovamente e ti saluto.

    C. F.:
    Ti dedico attenzione perché la meriti in quanto studioso dotato di una evidente capacità analitica e uno spiccato senso critico. Abbiamo in testa la stessa cosa se il riferimento è alla controrivoluzione stalinista in Russia ma io pensavo anche all’esito che hanno avuto le Rivoluzioni a seguire: Cinese, Vietnamita, Cubana. Ovviamente, ci sono coloro che non condividono questo “punto di vista”, in particolare quelli che si sono infatuati della Cina e dei suoi governanti: confuciano – “comunisti” – ultra capitalisti. Basta, ad esempio, leggere qualche articolo pubblicato dal “giornale comunista on line” Contropiano per rendersene conto. Ripeto è solo un esempio perché la stessa infatuazione si riscontra in altre testate “comuniste” e negli interventi che vengono fatti da molti “compagni” in questa Agorà virtuale. Resta comunque la domanda formulata nel mio precedente commento: è davvero possibile (ovviamente con una “improbabilissima” rivoluzione) modificare i rapporti di classe alla luce di quanto storicamente acquisito? O si tratta semplicemente di una utopia tenuto conto che il sistema economico capitalistico ha la straordinaria capacità. di perpetuare la sua esistenza (sotto qualunque cielo) nonostante le sue patologiche contraddizioni e “perversioni”. In altri termini questo sistema è davvero superabile? Se prima avevo dei dubbi che non lo fosse, adesso ne ho “quasi” la certezza. Un grazie a te.

    M. L.:
    Impossibile o difficile? Comune di Parigi, Russia, Cina, Cuba, Corea del Nord, Vietnam, Cambogia, Venezuela… Qualche cigno bianco e svariate truffe bastano a liquidare ogni possibilità della comparsa sulla scena del cigno nero? L’induzione può essere una cattiva consigliera oppure una compassionevole consolatrice nel momento in cui si è raggiunti lo sfinimento. Ma quando sentiamo l’irrefrenabile impulso di crollare stremati, ricordiamoci della sorte del tacchino di Bertrand Russell. Invece, se decidiamo che non si tratta del cerchio quadrato o dell’incontrastabile Legge della Natura, allora ci conviene ricorrere a un’altra categoria, quella che assegna un compito: la necessità. Lo so, non occorre che me lo si ricordi che qui siamo nel territorio delle vocazioni; ma una volta che ci caschi dentro come fai a uscirne? “If there’s been a way to build it / There’ll be a way to destroy it”, cantava una canzone veritiera. Non mi si chieda però quale sia “the way”, perché non ne ho la più pallida idea. Per certo posso dire solo che trovarla è divenuto un incarico crudelmente gravoso, ma quanto mai urgente.

    Sebastiano Isaia:
    Per economia di pensiero, mi cito (e mi scuso): «L’esperienza della Pandemia sta portando altra velenosissima acqua alla tesi secondo cui oggi ci riesce più facile immaginare la fine del mondo che la fine del capitalismo. La rivoluzione sociale appare anche ai miei anticapitalistici occhi abissalmente lontana; ma penso anche che se per un qualche motivo essa diventasse improvvisamente possibile nella testa di molte persone, altrettanto repentinamente quello straordinario evento diventerebbe talmente vicino nella realtà, da poterne quasi avvertire l’odore, per così dire. Come ho scritto altrove, non ho la pretesa di pensare che con me debba finire la storia, e che altri dopo di me non possano conoscere la rivoluzione sociale e la Comunità umana; bisogna essere davvero arroganti, presuntuosi e soprattutto deboli di immaginazione, per cristallizzare in eterno (fortunatamente solo nel pensiero!) il pessimo presente. Intanto, così come respiro, mangio, dormo, eccetera, rinnovo sempre di nuovo la mia irriducibile ostilità nei confronti di questa società disumana: più che di scelta, dovrei piuttosto parlare di fisiologia!» (Il virus e la nudità del Dominio).

    C. F. :
    Rinnovo anch’io la mia irriducibile ostilità nei confronti di questa società disumana ma non mi consolo con l’immaginazione. Confido invece che altri dopo di me abbiano quell’idea purché non sia pallida com’è stato finora.

  2. Mio post su Facebook (28/12/2020).

    ACCADE NELLA CINA CAPITALISTA
    È severamente vietato raccogliere litigi e provocare problemi!

    La blogger cinese Zhang Zhan, ex avvocato di 37 anni, attivista e “citizen journalist” che era stata arrestata a maggio per le notizie diffuse sull’epidemia di Covid-19 da Wuhan e incriminata con l’accusa di ««false informazioni attraverso testi, video e altri media internet come WeChat, Twitter e YouTube», nonché per aver «raccolto litigi e provocato problemi» (sic!), è stata condannata ieri da un tribunale di Shanghai a 4 anni di carcere. «Sebbene il processo di Zhang sia il primo in Cina che abbia visto imputato un blogger che ha coperto l’epidemia con i suoi racconti, è improbabile che sia l’ultimo. Chen Qiushi, Fang Bin e Li Zehua sono altri citizen journalist che hanno riferito da Wuhan e dei quali non si hanno notizie da febbraio» (Il Messaggero). Com’è noto, durante i mesi più duri della pandemia il regime cinese ha cercato di contenere con ogni mezzo il flusso di informazioni che sulla crisi sanitaria circolava in Cina soprattutto attraverso i social network, e che veniva alimentato proprio dai cosiddetti giornalisti di strada, secondo le modalità sperimentate con successo dal movimento di protesta di Hong Kong – duramente represso (anche grazie alle nuove leggi sulla sicurezza nazionale varate a fine maggio e all’alibi della lotta al Covid-19) ma non ancora del tutto sradicato.
    La “narrativa” di regime sul successo della Cina nella guerra mondiale al Coronavirus rendeva evidentemente necessario l’uso del pugno di ferro nei confronti dei pochi ma assai coraggiosi “citizen journalist”.
    «Zhang Zhan ha partecipato al processo su una sedia a rotelle ed era in cattive condizioni di salute – ha denunciato l’avvocato Zhang Keke. Detenuta dallo scorso maggio, a giugno Zhang ha iniziato a rifiutare il cibo in segno di protesta contro il suo arresto» (RaiNews).

    Commenti:

    C. T.: Il fatto che la Cina sia capitalista è ovvio e banale, meno che per i residui del ridicolo maoismo italiano. Più interessante è che in Cina sulla base del sempiterno e perdurante dispotismo orientale o asiatico si sia innestato il totalitarismo burocratico sedicente “comunista”.

    N. G.: Ho idea che siano metodi che cominciano a non dispiacere alle nostre latitudini, a livello di massa, prima ancora che negli apparati governativi e giudiziari, e loro emanazioni e propaggini amministrative. Si sente in giro molta voglia di Cina. Non so se sia solo io a percepirla.

    Sebastiano Isaia:

    Condivido la tua sensazione. Avanza ai piani bassi dell’edificio sociale la richiesta, forse ancora non generalizzata ma certamente assai diffusa, di Legge e Ordine, un classico dei periodi di crisi sociale. Anche la richiesta di introdurre nel sistema penale italiano la pena di morte è sempre più popolare presso il “popolino”. La società capitalistica crea indigenza (relativa e, spesso, assoluta), insicurezza, paure d’ogni sorta, precarietà, frustrazioni, invidia sociale, e gli strati sociali più esposti a questa vera e propria guerra esistenziale istintivamente sono attratti dall’idea che un “principio d’ordine” possa ristabilire una condizione meno stressante e più facile da comprendere. Meglio un piatto di lenticchie oggi, anche in un regime autoritario, che una vita di stenti nella cosiddetta “libertà”: molti la pensano così, ed è per questo che lo spauracchio della “Cina comunista” (sic!) che minaccia la “libertà” e i “diritti umani” a taluni non fa alcuna paura. Anche perché la Cina capitalista, che si appresta a conquistare il primato nella competizione capitalistica mondiale, oltre al piatto di lenticchie, oggi offre molti “beni e servizi”.

  3. Marx dichiarava di non avere la ‘ricetta’ in tasca per costruire il socialismo ! A sua volta il capitalismo, come formazione economico/sociale, così dinamica e coercitiva nei suoi meccanismi ha dovuto impiegare circa 700 anni per avere ragione su una società feudale sostanzialmente statica sia economicamente che socialmente!!! Sappiamo che il capitalismo ha un forte dinamismo, una velocità di rotazione del capitale e un processo di omologazione delle organizzazioni e degli individui molto potente. Ma altrettanto potenti sono le sue contraddizioni! Va ricordato che i due momenti storici dove sono state tentate esperienze socialiste, queste sono scaturite dall’esplodere delle sue contraddizioni manifestatitisi attraverso due guerre mondiali ! Tornando a Marx nessuno ha in tasca la “ricetta dell’avvenire” e i soggetti sociali che vogliono rivoluzionare il mondo del Kapitale se la devono cercare all’interno della prassi con tentativi ed errori. Pure in fretta prima che il kapitale porti a distruzione il pianeta.

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