«Nella sola Yangon, le forze di sicurezza birmane hanno ucciso ieri 59 manifestanti e ferito altri 129. Lo riferisce il sito di informazione birmano Myanmar Now, citando fonti di tre ospedali dell’ex capitale e aggiungendo che gli stessi dottori credono che il bilancio sia ancora più alto. Se confermato, la giornata di ieri sarebbe la più sanguinosa dall’inizio delle proteste contro il golpe del primo febbraio» (ANSA).
Se il movimento di protesta pesta la coda del dragone…
«La legge marziale è stata introdotta dalla giunta militare del Myanmar in due distretti di Yangon dopo assalti e saccheggi in alcune fabbriche di proprietà cinese. L’annuncio è giunto domenica, al termine di una giornata di scontri tra manifestanti e reparti dell’esercito e della polizia. Secondo Myanmar Now, agenzia di stampa con sede a Yangon che trasmette in birmano e in inglese, la legge marziale è stata introdotta nei distretti di Hlaing Tharyar e Shwepyitha. Stando all’ambasciata di Pechino, “fabbriche sono state saccheggiate e distrutte e molti dipendenti cinesi sono stati feriti e bloccati”. In un messaggio diffuso sui social network la rappresentanza diplomatica ha chiesto alla giunta “di adottare misure efficaci per fermare tutte le azioni violente, punire i responsabili nel rispetto della legge e garantire la sicurezza delle aziende e del personale cinese in Myanmar”» (Avvenire). A quanto pare il regime militare birmano ha subito accolto la richiesta cinese.
Per dirla alla “vecchia” maniera:
Contro la dittatura militare sostenuta dalla Cina! Contro il sistema capitalistico birmano (in ogni sua configurazione politico-istituzionale)! Contro il capitalismo/imperialismo cinese! Contro ogni forma di xenofobia (ad esempio, nei confronti dei lavoratori cinesi impiegati nelle zone industriali del Myanmar)! Per l’unità di classe dei lavoratori birmani e cinesi!
Myanmar. Ieri la giunta militare ha mietuto altre 90 vittime, potendo ancora contare sull’appoggio di Cina e Russia. «Le vittime totali della repressione seguita alla protesta potrebbero oggi raggiungere quota 400, in una delle giornate più sanguinose tra quelle seguite al colpo di Stato del primo febbraio» (Il Messaggero).
Mentre in questi giorni Pechino cerca di mantenere un profilo basso nella crisi birmana, che disturba non poco la sua “pragmatica” linea politica (fare affari con chiunque), Mosca ci tiene invece a far sapere al mondo che la sua “amicizia” nei confronti del “popolo birmano” è più forte che mai.
«Il Paese guidato ora dalla giunta militare si candida a diventare l’ennesimo punto di attrito tra Occidente e Russia. Mosca ha mandato il suo viceministro della difesa Alexandr Fomìn a incontrare il capo delle forze armate birmane, Min Aung Hlaing nella capitale birmana, Naypyitaw, dove ha precisato che per la Russia, il Myanmar dei generali è un “alleato affidabile”. E sempre Fomin ha aggiunto che “la Russia aderisce a una linea strategica per intensificare le relazioni tra i due paesi”, oltre a sottolineare un particolare non trascurabile: il generale birmano ha “preso parte alla nostra parata lo scorso anno, per il 75esimo anniversario della vittoria sovietica nella Seconda Guerra Mondiale”. Parole di un certo peso dopo il colpo di stato del primo febbraio 2021 e anche dopo che gli Stati Uniti, la Gran Bretagna, l’Australia e l’Unione Europea hanno imposto sanzioni al consiglio militare al potere e alla vasta rete di imprese legate all’esercito» (askanews).
«SIPRI (Stockholm International Peace Research Institute) conferma che le importazioni di armi del Myanmar per il 2010-19 hanno raggiunto i 2,4 miliardi di dollari, di cui 1,3 miliardi di dollari in armi fornite dalla Cina e 807 milioni dalla Russia. Gli aerei da combattimento russi, tra le nuove risorse militari del Myanmar, sono MiG-29, SDu-30MK e JF-17 e i velivoli da addestramento K-8, Yak-130 e G 120TP. Secondo fonti stampa, alcuni giorni prima del colpo di stato, il ministro della Difesa russo, generale Sergei Shoigu, ha visitato il Myanmar per finalizzare un accordo per una nuova fornitura di armi: il sistema missilistico terra-aria Pantsir-S1, droni di sorveglianza Orlan-10E e apparecchiature radar. Le importazioni di armi dalla Russia risalgono alla cooperazione tecnico-militare iniziata nel 2001 e successivamente, con l’accordo di cooperazione militare del 2016. Questo ha spianato la strada per l’addestramento in Russia di migliaia di ufficiali militari del Myanmar, oltre 6.000 fino al 2019. Molti ufficiali birmani parlerebbero fluentemente il russo» (Il Tazebao).
Sempre secondo la SIPRI, la Cina rappresenta il 50% delle principali importazioni di armi del Myanmar, «comprese navi da guerra, aerei da combattimento, droni armati, veicoli blindati e sistemi di difesa aerea», mentre la Russia ha fornito il 17% delle importazioni militari, «principalmente aerei ed elicotteri da combattimento».
Oggi questo micidiale dispositivo militare è puntato contro una popolazione inerme e sempre più disperata. L’obiettivo della giunta militare è oltremodo chiaro: terrorizzare chi è disposto a scendere in strada per protestare, ed esasperare fino al parossismo una parte della popolazione per costringerla a sostenere il regime «che lavora per il ripristino della pace e della democrazia». Anche qui, sporchi – e insanguinati – giochi di Potere (nazionale e internazionale) sulla pelle della povera gente.
Leggi: MYANMAR. AUTODIFESA E VALUTAZIONE CRITICA DELLA SITUAZIONE
Vabbè certi paesi manco sanno cosa sia la democrazia!
Marco Lupis, Huffingtonpost:
«Sono le 11 a Mandalay, un gruppetto di giovani è seduto per terra, sta protestando pacificamente. Intonano slogan contro il golpe militare. Improvvisamente, da dietro l’angolo spunta un camion pieno zeppo di militari, armati fino ai denti. Lanciato a folle velocità piomba sul gruppetto di ragazzi, che scappano prontamente in ogni direzione, riuscendo ad evitare di venire investiti. Mentre i soldati saltano a terra e cominciano a inseguirli e a sparargli contro, una ventina di loro riescono a trovare rifugio in una casa vicina, dove una donna, incinta, ha aperto loro la porta. Sa di rischiare la vita, ma li nasconde lo stesso. Poi, in un gesto strano, illogico, esce in strada e chiude a chiave la porta alle sue spalle. Aspetta. Non scappa, aspetta. I soldati devono avere visto la scena, perché le si avvicinano e cominciano a minacciarla e spintonarla con il calcio dei loro fucili. Le ordinano di aprire la porta, ma lei si rifiuta. È una donna giovane, minuta, sola, inerme. Dentro di se porta una vita. Ha solo il tempo di alzare gli occhi per guardare in faccia i soldati che urlano sempre più forte. Uno tira fuori la pistola che porta alla cintola, e senza un attimo di esitazione, senza dire niente, le spara alla testa. La donna crolla per terra in un lago di sangue. I soldati scavalcano il suo cadavere e quello del suo bambino che non nascerà mai, senza nemmeno guardarlo, come fosse un impiccio da nulla sulla loro strada, un cane da allontanare a calci, un mucchio di stracci. Sfondano la porta che la donna appena giustiziata aveva chiuso dietro di se, con quel gesto così illogico, così ingenuo, così umano, come se potesse bastare una modesta serratura a fermare la furia omicida dei soldati. Si sentono delle urla, poi alcuni spari. Poi il silenzio. I militari trascinano fuori i cadaveri di una ventina di ragazzi. Sono da poco passate le 11 del mattino di sabato 13 marzo a Mandalay. Li hanno uccisi tutti. Uno aveva soltanto 13 anni. È una scena di ordinaria follia, in Myanmar, quella appena descritta».
Da Facebook, 24/3/2021
MYANMAR. CONTINUA IL MASSACRO
«Una bambina di sette anni è stata uccisa dalle forze di sicurezza a Mandalay: si tratta della vittima di più giovane età delle repressioni della protesta in Myanmar, come riporta la Bbc. Secondo la ricostruzione della stampa locale, le forze di sicurezza avrebbero colpito accidentalmente la piccola, sparando contro il padre che l’aveva in braccio. Secondo Save the Children oltre 20 bambini sono stati uccisi dall’inizio delle proteste ai primi di febbraio. I militari citano 164 vittime, mentre l’Associazione di assistenza per i prigionieri politici (AAPP) stima almeno a 261 il bilancio dei morti durante le repressioni» (AskaNews).
Commenti:
G. D.D.F.: Temo che questo possa avvenire anche qua perché quando brucia la casa del tuo vicino corri nella tua recita un proverbio, questi con la scusa dell’ordine si arrogano del diritto di vita o di morte delle persone e secondo me la genesi dell ‘ingiustizia risiede nella sete di potere che ha conquistato quasi tutti gli uomini non ne parliamo delle donne.
J. P.: Dalla pulizia etnica dei rohingya si è velocemente passati alla carneficina generalizzata del proletariato senza distinzioni fittizie, perché il conflitto è sempre e solo di classe.
ACCADE IN MYANMAR
Ennesimo massacro ieri in Myanmar. L’esercito birmano ha circondato i manifestanti scesi in strada a Pegu e ha sparato nel mucchio con armi pesanti. Il «covo di briganti» chiamato ONU teme che la sempre più violenta repressione del movimento di lotta contro il regime militare sostenuto (per adesso) dalla Cina e dalla Russia (e, per un’elementare proprietà transitiva, da coloro che in Italia e in Europa simpatizzano o per l’una o per l’altra, ovvero per entrambi i Paesi nel nome di un vetero antiamericanismo spacciato per “antimperialismo”); l’ONU, dicevo, teme a questo punto il divampare di una vera e propria guerra civile nel cuore dell’Asia. Intanto, la Thailandia, Paese “amministrato” a sua volta da una giunta militare e alleato strategico degli Stati Uniti, continua a respingere il flusso di birmani in fuga dalla violenza e dalla miseria più nera. Molti analisti geopolitici definiscono “fallito” lo Stato birmano; un “fallimento” che sta costando molto in termini di sangue versato, di repressione e di miseria.
«C’era il colore del sangue su scalinate e cartelloni pubblicitari, lungo le strade della vecchia capitale Yangon e sui muri di molte case in tutto il Myanmar. Non sangue vero, ma vernice. Ma a simboleggiare il sangue vero versato» (La Repubblica, 9/4/2021).
Pingback: KAZAKHSTAN. IL GIORNO DOPO | Sebastiano Isaia