Sul Manifesto Roberto Prinzi riassume con asciutto realismo geopolitico i termini della questione: «”È un momento unico per ricostruire un’antica amicizia e una vicinanza che non hanno mai conosciuto interruzioni”. Le parole di Mario Draghi pronunciate ieri a Tripoli al premier del Governo transitorio di unità nazionale libico Dabaiba non lasciano spazio a dubbi: l’Italia vuole giocare la parte da leone nella ricostruzione della “nuova” Libia, riportando le lancette dell’orologio (dirà in seguito Dabaiba) al Trattato di amicizia italo-libico del 2008. Allora a Palazzo Chigi c’era Berlusconi mentre a reggere le sorti del paese nordafricano il rais Gheddafi, allora grande amico di Roma scopertosi nemico solo tre anni dopo al punto da essere deposto dalle bombe della Nato […] Affinché ciò accada, ha spiegato il premier italiano, è necessario però che regga il cessate il fuoco. Ma su questo punto ha ostentato sicurezza: “Mi sono state date rassicurazioni durante il nostro incontro straordinariamente soddisfacente, caloroso e ricco di contenuti”. La lista di aggettivi positivi non è apparsa affettata: Roma si sfrega le mani pensando a come la “stabilità libica” potrà tradursi favorevolmente sia nel contrasto all’immigrazione (incubo dell’intera Europa), ma anche per le aziende nostrane. La diplomazia economica italiana lavora per la transizione energetica della Libia che darà più spazio alle energie rinnovabili».
Draghi sprizza ottimismo da tutti i pori: «C’è voglia di fare, c’è voglia di futuro, voglia di ripartire e in fretta». Certo, l’Italia dovrà vedersela con l’agguerrita concorrenza russa, turca, egiziana, francese e inglese, ma il Presidente del Consiglio ostenta sicurezza circa le capacità del nostro Paese di riconquistare e consolidare le importanti posizioni economiche e strategiche perse in Libia negli ultimi anni. Per il presidente di Federpetroli Italia Michele Marsiglia «gli argomenti all’ordine del giorni non vertono solo sull’energia ma sul piano operativo ci sono temi come infrastrutture e flussi migratori nonché la tanto chiacchierata Autostrada della Pace. E questo vuol dire che la missione di oggi vuol portare l’Italia ad essere sempre più presente nel paese con un ruolo decisivo nelle politiche del Mediterraneo». Secondo Sandro Fratini, presidente di ILBDA (Italian Libyan Business Development Association), «le aziende italiane possono e devono avere un ruolo centrale nell’accompagnare [quanto siamo gentili!] i libici verso la costruzione di uno Stato moderno ed avanzato. In Libia, si sta aprendo un ventaglio di opportunità per tantissimi giovani. Non solo nel settore petrolifero ed energetico, ma anche per chi opera nei settori dell’edilizia, commercio, comunicazione, tecnologia, aviazione, scienza, farmaceutica, fino alla ristorazione. I libici ci chiedono materiali e prodotti italiani, ma hanno anche bisogno di ingegneri ed architetti per completare i progetti architettonici ed infrastrutturali in stallo da anni». Insomma, c’è una grassa fetta di torta che il capitalismo italiano deve intercettare con assoluta necessità e rapidità, perché di certo la concorrenza di “amici” e nemici dichiarati non starà a guardare senza coltivare il “nostro” stesso ambizioso disegno economico e geopolitico. Il fatto che Mario Draghi abbia scelto la Libia per la sua prima missione all’estero dal suo insediamento la dice lunga sull’importanza che il “Sistema-Italia” attribuisce alla presenza italiana nel Paese africano che in larga misura è una “nostra” creazione.
«Esprimiamo soddisfazione per quello che la Libia fa per i salvataggi. Nello stesso tempo aiutiamo e assistiamo la Libia. Il problema non è solo geopolitico, è anche umanitario. Da questo punto di vista l’Italia è forse l’unico Paese che continua a tenere attivi i corridoi umanitari» (M. Draghi). E che fa la Libia per i salvataggi? È presto detto: la cosiddetta Guardia Costiera libica, che l’Italia finanzia e arma, intercetta i disperati che cercano di arrivare sulle coste siciliane e li riaccompagna, per così dire, nei lager libici «dove le donne vengono violentate, le famiglie depredate di tutto, gli uomini torturati, seviziati e persino uccisi» (Notizie Geopolitiche, febbraio 2020). Peraltro, molti libici che lavorano per la Guardia Costiera libica organizzano i viaggi della disperazione. Altro che «corridoi umanitari», signor Presidente del Consiglio!
Molti progressisti hanno espresso un’indignata riprovazione per l’elogio della cattura e della tortura confezionato da Draghi per ingraziarsi la controparte libica. Leggo da qualche parte su Facebook: «Draghi esprime soddisfazione alla Libia per i salvataggi. Forse era una barzelletta. I migranti vengono uccisi o messi in lager. I diritti umani sono sottozero. Si vergogni per quello che ha pronunciato. In quanto volontaria impegnata al servizio degli umili e fragili nativi e stranieri, non posso che sentirmi tradita da un governo che mi umilia!!!». Ecco, io non mi sento in alcun modo tradito, offeso e umiliato da un governo che ovviamente lavora per conto del capitalismo e dell’imperialismo tricolore, non certo per difendere e promuovere i cosiddetti «diritti umani», né per sostenere la causa degli umili, nativi o stranieri che siano. Mi piacerebbe molto che l’indignazione delle persone umanamente sensibili sposasse un punto di vista radicalmente anticapitalista.
Com’è noto, l’inchiesta della procura di Trapani nella quale sono state ascoltate le conversazioni di numerosi giornalisti e avvocati hanno avuto l’input dell’ex Ministro dell’Interno Marco Minniti (*). «L’ordine di indagare sulle Ong partì dal Viminale. Il 12 dicembre del 2016, all’esordio del governo Gentiloni, Angelino Alfano lascia il Ministero dell’Interno passando il testimone a Marco Minniti.Lo stesso giorno parte una lunga informativa. Dopo avere indicato le Ong come “fattore di attrazione”, viene precisato che è stata avviata “un’attività di raccolta informazioni circa le modalità di salvataggio dei migranti in mare, svolte dalle navi di proprietà delle Ong”. Nell’informativa vengono segnalati quattro casi di sconfinamento nelle acque libiche, da parte di alcune organizzazioni umanitarie: Moas e Medici senza frontiere» (Domani). Come scriveva qualche giorno fa Luigi Ferrarella sul Corriere della Sera, si trattò (e si tratta) della «prosecuzione di una guerra (politica) con altri mezzi (giudiziari)». Si trattava di controllare e screditare chiunque denunciasse la criminale gestione dei flussi migratori affidata dal governo italiano alla Guardia Costiera libica. «Intercettateci tutti!», amano dire i manettari che, dicono, non hanno nulla da nascondere. E lo Stato è ben contento di accontentarli. Con escrementizia coerenza, il principe dei giustizialisti duri e puri, colui che sprizza manette da tutti i pori, insomma Marco Travaglio, direttore del Fascio Quotidiano, difende “senza se e senza ma”, e sulla scorta della Sacra Costituzione Italiana, la strategia investigativa della procura Trapani. Escrementizia coerenza, appunto.
(*) «Domenico (Marco) Minniti, ministro dell’Interno tutto rigore e sicurezza. Il controllo dell’immigrazione diventa una questione di vita o di morte per il dirigente dem. L’intero mandato di Minniti al Viminale è incentrato sull’argomento. Fin dal primo giorno, quando comincia a lavorare sul “Memorandum di intesa tra Italia e Libia” mentre Angelino Alfano non ha ancora portato le sue cose alla Farnesina, dove è stato spostato dal nuovo premier Paolo Gentiloni. L’esponente del Pd ha già tutto in mente e a due mesi dal suo insediamento è già pronto l’accordo con i libici per bloccare i migranti alla fonte. Poco importa come. L’importante è la firma di Fayez al Serraj, primo ministro del governo di unità nazionale di Tripoli, sul documento controfirmato dal presidente del Consiglio italiano. Obiettivo prioritario del Memorandum: “Arginare i flussi di migranti illegali e affrontare le conseguenze da essi derivanti”. In cambio l’Italia avrebbe fornito “supporto tecnico e tecnologico agli organismi libici incaricati della lotta contro l’immigrazione clandestina”. In altre parole: addestramento, mezzi e attrezzature alla forza di sicurezza comunemente definita Guardia costiera libica, formata da un ambiguo coacervo di milizie dismesse e trafficanti. Senza parlare dei campi dove i migranti vengono trattenuti, considerati da tutte le organizzazioni internazioni per i diritti umani come dei veri e propri centri di tortura, dove i “prigionieri” subiscono violenze di ogni tipo. Del resto, Minniti è persona abituata a ragionare secondo la neutra logica dei costi/benefici. Perché per perseguire un obiettivo ci vuole disciplina e un certo pelo sullo stomaco. Per raggiungere uno scopo non bisogna fermarsi, come gli avrà probabilmente insegnato Francesco Cossiga, l’amico con cui nel 2009 dà vita ad Icsa (Intelligence culture and strategic analysis) una fondazione dedicata all’analisi dei principali fenomeni connessi alla sicurezza nazionale. E Minniti non si ferma mai» (Il Dubbio).
«Da quando il governo italiano guidato da Paolo Gentiloni, con ministro dell’Interno Marco Minniti, ha firmato nel febbraio 2017 il Memorandum con il governo di Tripoli, le industrie aerospaziali e di armamenti hanno fatto affari d’oro con i ministeri degli stati membri e con Frontex. Aziende come Airbus, le israeliane Iai e Ebit e l’italiana Leonardo Finmeccanica hanno ottenuto commesse per milioni di euro. Minniti ora è entrato in Leonardo, nominato poche settimane fa a capo della fondazione MedOr, nuovo soggetto creato dalla ex Finmeccanica che si occuperà anche di Libia. Dell’accordo ha beneficiato anche l’Agenzia Frontex, diventata uno degli organismi più finanziati dell’Unione, con un budget attuale di 500 milioni e di oltre un miliardo nei prossimi sei anni. […] A febbraio scorso Minniti è stato nominato nella fondazione MedOr di Leonardo. Di cosa si occupa MedOr? “Permetterà in particolare di consolidare le relazioni con gli stakeholder dei paesi di interesse, al fine di qualificare Leonardo come un partner tecnologico innovativo nei settori dell’aerospazio, della difesa e della sicurezza”. Settore di investimento, quest’ultimo, che ha risentito positivamente dell’accordo Italia-Libia firmato dall’ex ministro. Minniti, contattato, esclude che si possa parlare di conflitto di interesse: “Da ministro non trattavo appalti e non ho avuto alcun ruolo nei contratti di cui parlate”. Poi ci tiene a precisare che la fondazione di Leonardo non ha scopi di business: “Ha altre finalità, costruire un punto di vista comune su aree strategiche per l’Italia, come può essere il Mediterraneo, come del resto fanno molti altri paesi da tempi lontanissimi”» (Domani). Non c’è dubbio.
L’onesto Minniti, degnissimo discendente dell’italico “comunismo” (leggi stalinismo con caratteristiche togliattiane), ha illustrato una prassi sintetizzabile con un “vecchio” concetto: IMPERIALISMO. E anche l’Italia “nel suo piccolo”…

Limes
Aggiunta dell’11 Aprile 2021
La scottante frase draghiana ormai è arcinota: «Con questi dittatori, di cui uno ha bisogno, bisogna essere pronti a cooperare». Altrettanto noto è che la realpolitik di Mario Draghi ha potuto brillantemente esercitarsi anche con la Libia: «Esprimiamo soddisfazione per quello che la Libia fa per i salvataggi». Ormai abbiamo capito: ci sono dittatori e aguzzini «di cui uno ha bisogno» e con cui «bisogna essere pronti a cooperare». Molti si sono indignati dinanzi al cinico realismo del Presidente del Consiglio, ma si tratta di un’indignazione che non spiega niente e che testimonia piuttosto quanto chi la esprime comprenda pochissimo il mondo che ci tocca subire.
Scrive Francesca Sforza (La Stampa): «Oltre agli americani, tradizionalmente su questa posizione, il premier Draghi incontra il sostegno dell’opinione pubblica e dell’intero arco parlamentare italiano – ostile alla Turchia in chiave anti-islamica a destra e filo-curda a sinistra». Qui urge una mia precisazione, se non altro in quanto componente «dell’opinione pubblica» (dell’«arco parlamentare italiano» non dico niente per non destare l’attenzione di qualche zelante Procura della Repubblica): dal mio punto di vista il democratico Premier italiano e l’autoritario Presidente turco pari sono sotto ogni punto di vista. Mi correggo: in quanto anticapitalista italiano la mia ostilità politica è esercitata soprattutto nei confronti del Presidente del Consiglio italiano. A casa mia l’orgoglio nazionale è messo malissimo.
Il ministro turco dell’industria Mustafa Varank ha dichiarato che la Turchia non può prendere lezioni da un Paese che «ha inventato il fascismo» (vero!) e che «lascia morire i richiedenti asilo» (verissimo!). «Il portavoce dell’Akp, il partito di Ergogan, ha usato parole durissime: “Hanno chiamato il nostro presidente dittatore e poi hanno aggiunto che devono collaborare con noi sull’immigrazione. È il massimo dell’ ipocrisi [giustissimo!]. Queste persone che trattano i migranti in maniera dittatoriale e immorale [verissimo!], pensano di doverci dare lezione di democrazia”» (La Repubblica). Diciamo pure, con il poeta, che la più pulita di «queste persone», italiane o turche che siano, ha la rogna.
Perché l’Italia ha bisogno del dittatore turco? In primo luogo per una ragione di interscambio economico: ci sono in ballo 17/20 miliardi di euro l’anno. Buttali via, soprattutto in tempi di crisi! Ambienti politici vicini a Leonardo hanno subito temuto per la commessa in ballo con la Turchia. Non a torto: «La prima a finire nel mirino è stata Leonardo, la holding tecnologica a controllo statale. Dopo due anni di trattative, proprio in questi giorni era prevista la firma del contratto per l’acquisto di dieci elicotteri d’addestramento AW169. Una commessa del valore di oltre 70 milioni di euro, che doveva essere la prima trance di un accordo per sostituire i vecchi Agusta-Bell 206 della scuola delle forze armate turche: l’importo complessivo per l’azienda italiana potrebbe superare i 150 milioni. Dopo le parole di Draghi i turchi hanno fatto sapere che “al momento” l’operazione è sospesa. Avvisi simili sono stati recapitati anche ad altre compagnie nazionali attive in Anatolia. Tra loro ci sono almeno due società private e Ansaldo Energia, proprietaria del 40 per cento di un gruppo che da un anno sta negoziando con banche e autorità turche la gestione dei debiti per centinaia di milioni accumulati dalla centrale elettrica di Gebze, nella zona industriale di Istanbul. È chiaro che Ankara intende far valere la rilevanza delle relazioni economiche tra i due Paesi. Prima del Covid, l’interscambio era arrivato a toccare 17 miliardi l’anno con quasi 1500 società italiane impegnate in Turchia: una delle più importanti è Ferrero, che produce lì una parte consistente delle nocciole con un business da centinaia di milioni l’anno» (La Repubblica).
L’esperta diplomazia italiana è al lavoro per chiudere la crisi politica con la Turchia e assicurare all’Italia la continuità delle relazioni economiche con quel Paese, il quale peraltro è attraversato da una grave crisi economica che minaccia di destabilizzare il già fragile quadro politico-sociale turco. La continua svalutazione della lira turca è un termometro di questa pessima situazione. L’altro termometro è squisitamente politico-sociale, e registra un’azione sempre più repressiva da parte dello Stato turco nei confronti di tutte le opposizioni sociali e politiche del Paese. Questo sempre a proposito di “fascismo” e di “democrazia”.
Come sappiamo la Turchia è per l’Italia (ma anche per la Francia) sia un partner economico e geopolitico, sia un avversario geopolitico e, soprattutto in prospettiva, economico. Discorso diverso si deve fare per la Germania, che non ha alcun interesse nel pestare i calli al dittatore turco, il quale oltretutto assicura la stabilità nell’area del Mediterraneo Orientale, anche per quanto riguarda i flussi migratori che partono da quell’area. Ormai da decenni le relazioni tra la Germania e la Turchia hanno una connotazione davvero “speciale” – anche per la forte presenza dei lavoratori turchi nel Paese leader dell’Unione Europea. Nel Mediterraneo Orientale e in Nord’Africa gli interessi economici e geopolitici di Italia, Francia, Grecia e Turchia entrano in reciproca frizione, e qualche scintilla diplomatica (e non solo: vedi l’esercitazione navale greco-cipriota dell’agosto 2020 chiamata Eunomia) si è pure vista nei mesi scorsi. Non a caso la Grecia e Cipro, che con l’Italia stanno cercando di arginare l’aggressiva proiezione turca nel Mediterraneo Orientale, hanno subito mostrato “comprensione” per il premier italiano.
D’altra parte non bisogna sottovalutare il nuovo pensiero strategico adottato dalla Turchia e sintetizzato nel concetto, elaborato fin dal 2006 dagli ammiragli turchi, di Patria blu: «Siamo orgogliosi di proteggere il nostro vessillo glorioso in tutte le acque. Siamo pronti a proteggere con forza ogni fascia dei nostri 462 mila chilometri quadrati di Patria blu» (R. T. Erdoğan). È sufficiente guardare la carta geografica del Mediterraneo Orientale per farsi un’idea della posizione strategica che la Turchia occupa in quell’area sempre più importante anche dal punto di vista energetico – produzione e distribuzione di petrolio e di gas. In questo contesto, «Ogni scintilla può portare alla catastrofe», come disse usando un’immagine perfetta il ministro degli Esteri Heiko Maas nell’agosto del 2020, nel pieno della crisi greco-turca. Allora la ministra della Difesa Florence Parly dichiarò: «Il nostro messaggio è semplice: priorità al dialogo, alla cooperazione e alla diplomazia affinché il Mediterraneo orientale sia uno spazio di stabilità e di rispetto del diritto internazionale e non un terreno di giochi di potenza»: per gli imperialisti europei i cattivoni sono sempre gli altri, i “dittatori” della concorrenza.
La posta in gioco descritta da Angelo Panebianco: «In Libia Draghi è stato tre giorni fa. Allo scopo di riannodare i legami (spezzati o, quanto meno, assai logorati) fra l’Italia e un Paese le cui sorti hanno uno stretto legame con il nostro interesse nazionale: si tratti di rifornimenti energetici, della presenza in Libia delle nostre imprese, di flussi migratori, di contrasto al terrorismo o di sicurezza militare. Una Libia che è oggi spartita fra russi e turchi. Gli uni e gli altri ritengono di essersi conquistati sul terreno il diritto di essere lì, avendo partecipato, su fronti opposti, alla guerra fra la Tripolitania e la Cirenaica. L’Italia è impegnata ad appoggiare gli sforzi dell’attuale governo libico di riconquistare l’unità del Paese. Se coronati da successo danneggerebbero gli interessi sia di Erdogan che di Putin. La Libia non potrà essere davvero riunita se l’esercito turco e i mercenari russi non se ne andranno. Quello italiano è un tentativo necessario ma difficile. Puntiamo sui rapporti economici per ricostituire i nostri legami con la Libia. Ma può la capacità di offrire cooperazione economica sconfiggere le posizioni di forza di coloro (come appunto Erdogan) che hanno soldati e armi sul terreno? I precedenti storici non sono incoraggianti. In ogni caso, il governo Draghi è impegnato, in Libia, in una partita i cui esiti saranno assai importanti per l’Italia. In sintesi: di quanta sicurezza disporremmo (non solo noi, anche il resto dell’Europa), se il Mediterraneo diventasse stabilmente un mare russo/turco? Alzare il tiro della polemica con Erdogan, serve forse a perseguire diversi obiettivi. È un messaggio implicito alla Nato (di cui la Turchia fa tuttora parte), un messaggio che dice: non possiamo più trattare Erdogan con i guanti, come se la Turchia fosse ancora l’alleato di un tempo. È un richiamo agli Stati Uniti, è la richiesta di un loro rinnovato impegno nel Mediterraneo. Potrebbe essere anche un messaggio alla Germania: lo scambio denaro contro controllo delle frontiere forse dovrebbe essere rinegoziato in modo più favorevole per l’Europa. È infine, certamente, un messaggio indirizzato agli italiani: non possiamo evitare di cooperare col dittatore di turno quando ciò serva a tutelare certi nostri vitali interessi ma dobbiamo anche essere consapevoli del fatto che ci sono grandi differenze fra noi e il suddetto dittatore, dobbiamo monitorare con attenzione le conseguenze spiacevoli che da queste differenze possono in ogni momento derivare» (Il Corriere della Sera).
«Conseguenze spiacevoli»: che linguaggio felpato! E poi, «spiacevoli» fino a che punto? Lo scopriremo solo… Intanto, godiamoci l’orgasmo patriottico di Massimo Giannini: «Mettiamo in fila i fatti degli ultimi dieci giorni. Il capo del governo ha prima lanciato un segnale chiaro a Putin, facendo arrestare una spia che vendeva segreti a Mosca. Poi è volato a Tripoli a dare sostegno al governo provvisorio di Dbeiba e a supportare la presenza dell’Eni (anche se ha commesso il grave errore di “ringraziare” la Guardia Costiera libica per i salvataggi, mentre avrebbe dovuto denunciarne i misfatti) [sic!]. Infine ha sferrato il colpo a freddo su Erdogan. Tre atti che sembrano uniti da una sola trama: dimostrare ai russi e ai turchi che in Libia, e non solo in Libia, l’Italia c’è e vuole giocare la sua partita (La Stampa). Sia chiaro, io tifo contro!
L’ALBUM DI FAMIGLIA DI MARCO MINNITI
GROSSI GUAI NEL NOSTRO CORTILE DI CASA
PER UNA STRETTA DI MANO…
SULLA GUERRA PER LA SPARTIZIONE DELLA LIBIA
È FACILE ESSERE “BUONISTI” ACCUSANDO L’IMPERIALISMO DEGLI ALTRI!
DUE PAROLE SUL PERICOLOSISSIMO INTRIGO LIBICO
LIBIA E CONTINUITÀ STORICA
A TRIPOLI, A TRIPOLI!
L’IMPERIALISMO ITALIANO NEL“PARADOSSO AFRICANO”
IL PROFITTO È GRANDE, E L’IMPERIALISMO È IL SUO PROFETA!
TU CHIAMALO SE VUOI, IMPERIALISMO
OCCHIO AL DITTATORE!
«Il premier del Governo di unità nazionale della Libia, Abdulhamid Dabaiba, inizierà oggi 12 aprile, una visita in Turchia a capo di una delegazione governativa di alto livello. Muhammad Hammouda, secondo quanto riferisce l’emittente televisiva libica “Libya 24”. “Una delegazione composta da 14 ministri e una serie di altri funzionari governativi guidati da Dabaiba visiterà la Turchia lunedì”, ha detto Hammouda, senza menzionare la durata della visita. I colloqui verteranno su “una serie di pratiche comuni nel settore dei servizi (energia e salute), sul ritorno delle aziende turche in Libia e sul completamento dei progetti in stallo”, ha aggiunto il portavoce.
Oltre a Dabaiba, la delegazione comprende i ministri degli Esteri (Najla Al Mangoush), dell’Interno (Khaled Mazen), della Salute (Ali Zanati), del Governo locale (Badr al Din al Toumi), delle Finanze (Khaled Abdullah), dei Trasporti (Muhammad al Shahoubi), dell’Economia e del commercio (Muhammad al Hawaij), del Petrolio e del gas (Muhammad Aoun), della Pianificazione (Fakher Abu Farna), dell’Industria e dei minerali (Ahmed Abu Hisa), delle Abitazioni e delle costruzioni (Abu Bakr Al Ghawi), dell’Istruzione superiore e della ricerca scientifica (Imran Abdul Nabi). In Turchia andranno anche il ministro di Stato per la comunicazione e gli affari politici, Walid al Lafi, il ministro di Stato per gli affari governativi, Adel Jumaa, oltre al capo di stato maggiore, generale Muhammad al Haddad, al presidente del della Compagnia elettrica nazionale libica (Gecol), Wiam al Abdali, e ad altri funzionari di alto livello» (Parstoday).
Si prospetta insomma una forte “collaborazione strategica” (economica, politica, militare) tra Turchia e Libia. «Ma la Libia è cosa nostra!» Vallo a spiegare alla concorrenza!
«Il caso Zaki non ferma gli accordi militari: Roma consegna la seconda fregata al Cairo. Alla vigilia del dibattito parlamentare sulla cittadinanza allo studente di Bologna, la nave fa rotta verso l’Egitto» (La Stampa). Che vuoi farci, «con questi dittatori, di cui uno ha bisogno, bisogna essere pronti a cooperare». Tanto più che la concorrenza è pronta a soffiarci gli affari! È un mondo difficile, come dice la canzone.
LO STATO ITALIANO SOSTIENE POLITICAMENTE ED ECONOMICAMENTE GLI AGUZZINI DEI MIGRANTI – anche perché la vista della morte in mare guasta le nostre giornate (forse).
Jena (La Stampa, 13/5/2021): «Dice giustamente Draghi che non lasceremo morire in mare gli immigrati, però li rimandiamo in Africa: così li lasciamo morire sulla terraferma».