L’ayatollah Khomeini per molti è santità.
Abbocchi sempre all’amo. Le barricate in
piazza le fai per conto della borghesia
che crea falsi miti di progresso.
Franco Battiato, Up Patriots To Arms.
1. Un’equazione che non ammette nessuna soluzione?
La questione israelo-palestinese sembra un’equazione con infinite incognite e con nessuna soluzione possibile. Almeno così è stato nel corso degli ultimi 73 anni, ossia dalla proclamazione dello Stato di Israele in poi. Uno Stato, non dimentichiamolo, con una precisa e sempre difesa caratterizzazione etnico-religiosa. Alla filosofa Donatella Di Cesare «la formula “due popoli, due Stati”, che ricorre ancora qui e là, sulla bocca di qualche moderato, non è mai parsa così logora, quasi stantia, come in questi giorni» (La Stampa). Come la capisco!
La formazione di nuovi stati nazionali è un anacronismo storico in un’epoca segnata dal dominio totale e mondiale del Capitale; tuttavia la complessa e contraddittoria natura del processo sociale capitalistico ci costringe a misurarci con questo anacronismo storico-sociale che si nutre di vecchie e di nuove contraddizioni.
Emancipazione dagli opposti nazionalismi dei proletari israeliani e palestinesi, con ciò che ne segue, compatibilmente con gli odierni rapporti di forza tra le classi, sul piano della prassi – politica ed “esistenziale”: è, questa, la sola “soluzione politica” della rognosissima questione di cui ci occupiamo che riesce simpatica a chi scrive. Mi si può obiettare che la soluzione appena prospettata appare più una formula utopistica, tratta dal libro dei sogni, che un realistico contributo agli sforzi in corso a tutti i livelli della diplomazia mondiale. A questa obiezione purtroppo non ho da opporre alcun argomento contrario, se non osservare che anche la realpolitik esibisce più di qualche tratto irrealistico. Diversi analisti geopolitici (a cominciare da Lucio Caracciolo) confessano di non vedere alcuna “soluzione politica” possibile per il conflitto israelo-palestinese, e ciò che rimane da sperare è, sempre al loro giudizio, che quel conflitto non degeneri in una guerra totale ancora più micidiale e pericolosa per gli equilibri regionali e internazionali. Si tratterebbe insomma di gestire e tenere a bada una guerra permanente asimmetrica a bassa intensità.
La triste realtà è che la radicalizzazione dei senza riserve palestinesi si dà in senso islamista, e non in senso classista, anticapitalista, internazionalista. Del resto si tratta di una dinamica che, mutatis mutandis, osserviamo in tutte le parti del mondo.
2. Un’agenzia di interessi chiamata Hamas
Su Limes Lorenzo Trombetta focalizza la sua analisi su Hamas, rendendo evidente ciò che nel mio precedente post intendevo dire quando individuavo in Hamas (oltre che nell’Autorità nazionale palestinese di Mahmud Abbas) un problema, e non una soluzione, per i diseredati palestinesi. Riporto una parte dell’articolo di Trombetta.
«Il movimento politico-militare palestinese ha da tempo abbandonato la sua vocazione rivoluzionaria ed è disponibile a negoziare con tutti – a partire, naturalmente, da Israele. L’organizzazione politico-militare Hamas, che da circa 15 anni domina la Striscia di Gaza,è oramai un’agenzia di servizi. I clienti del movimento islamico palestinese sono numerosi: Israele, prima di tutto. Poi l’Iran. Il Qatar e la Turchia. L’Egitto. Ma il negozio è aperto al pubblico. E se domani l’Arabia Saudita, gli Emirati Arabi Uniti o addirittura gli Stati Uniti trovassero la formula giusta per rivolgersi, formalmente o sotto banco, a quest’agenzia di servizi, il portafoglio di clienti potrebbe allargarsi. Qualcuno potrà inarcare il sopracciglio e pensare che sia poco opportuna questa descrizione mentre è in corso l’ennesima carneficina in Medio Oriente. Sono ore in cui si ripropone una polarizzazione retorica ormai abituale: per alcuni Hamas è una formazione terroristica, per altri è un movimento di resistenza. Eppure è bene suggerire un cambio di prospettiva, soprattutto per comprendere l’estrema viziosità del circolo in cui si avviluppano da anni l’azione e la retorica delle parti coinvolte. Si può guardare al fenomeno Hamas tenendo conto delle risorse in campo, degli interessi in gioco e dei rapporti di potere tra gli attori che negoziano e che periodicamente si fanno la guerra. […]
Israele non è intenzionato a negoziare, se questo significa sedersi al tavolo e smettere di espandere le colonie in Cisgiordania erodendo spazio vitale ai palestinesi. Nell’ottica di governi come quelli guidati negli ultimi anni da Benjamin Netanyahu, è meglio avere come controparte un soggetto come Hamas, pronto a lanciare una pioggia di razzi sui coloni e sostenuto dall’arcinemico iraniano. Ecco perché l’attuale spirale di violenza assomiglia drammaticamente a quella già vissuta numerose altre volte nel 2012, 2014 e 2018. Israele non intende annientare Hamas perché ha bisogno di una controparte come Hamas. Proviamo a immaginare lo scenario in cui riesca a cancellare dalla Striscia di Gaza il movimento islamico. Si aprirebbe un dilemma irrisolvibile: che strategia elaborare rispetto alla questione palestinese? Invece, dovendosi relazionare con Hamas, lo Stato ebraico può tranquillamente far valere il proprio strapotere militare. Così la tattica (le guerre periodiche) può tenere nascosta la strategia (distruggere qualsiasi idea di statualità palestinese). […]
Bisogna considerare il capitale su cui si basano la forza e la longevità di Hamas: il territorio e la popolazione della Striscia di Gaza, strategico rettangolo di terra tra il deserto del Sinai egiziano, il mar Mediterraneo e Israele. Hamas senza Gaza sarebbe un lemma in un dizionario enciclopedico. E senza la gente della Striscia perderebbe un pilastro della sua legittimità: “il popolo”. Prima di tutto, Hamas non è un monolite, bensì una struttura articolata al suo interno composta da individui organizzati in fazioni, caratterizzati da percorsi umani e professionali diversi, sparsi dentro e fuori la Palestina, più o meno affiliati con attori stranieri. […] Quello che però tiene unita questa struttura poliedrica è il comune interesse a tenere aperto il negozio, per continuare a esercitare potere. Anche dopo l’ennesimo scambio di razzi e bombe con Israele».
3. Leviathan
In un comunicato il Presidente di FederPetroli Italia Michele Marsiglia offre un suo contributo alla comprensione della posta in gioco nel conflitto in corso. Riporto il testo del comunicato, ripromettendomi di approfondire l’assai interessante questione, la quale si presta a molte letture geopolitiche.
«A largo delle coste israeliane ci sono enormi risorse di gas naturale, parliamo di Leviathan, uno dei giacimenti di gas più grandi al mondo nel Mar Mediterraneo. Possiamo parlare di religione, di territori occupati e di altre variabili tra i due popoli ma da anni l’interesse è focalizzato sullo sfruttamento delle risorse minerarie Offshore. Sfruttando l’enorme bacino di gas sia Israele che i territori palestinesi potrebbero raggiungere un’indipendenza energetica e diventare nello stesso tempo esportatori del gas estratto e prodotto. Geograficamente, l’area che si affaccia sul Mar Mediterraneo è strettamente collegata alla Striscia di Gaza. Se anche la zona di terra sotto controllo dell’Autorità Palestinese riuscisse a trovare fondi finanziari da parte altri paesi arabi per lo sfruttamento delle risorse, in un solo anno sia la Striscia che la zona della West Bank (Cisgiordania) non avrebbero più bisogno di Israele per il proprio fabbisogno energetico, considerando che oggi la Striscia vive di corrente alternata durante il giorno. Parliamo di 50 chilometri di area in estensione di giacimento in acque profonde a circa 1.500 metri. C’è gas per oltre 50 anni di autonomia. Leviathan in piena produzione di idrocarburo sconvolgerebbe gli equilibri commerciali del Medio Oriente».
Inutile dire che per chi scrive Leviathan sta per Capitale, per rapporto sociale capitalistico di dominio e di sfruttamento, di uomini e natura.
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