Adesso il messaggio è: se protesti con la violenza ti
arresteremo, ma anche se protesti contro il governo
in una marcia pacifica e non violenta ti prenderemo
lo stesso (Lee Cheuk-Yan, segretario generale della
Confederazione dei sindacati di Hong Kong).
Secondo quanto riferiva ieri il South China Morning Post, per il secondo anno consecutivo la polizia di Hong Kong ha deciso di vietare la veglia di commemorazione del massacro di Piazza Tiananmen del 1989, in programma ogni anno il 4 giugno a Victoria Park. Anche quest’anno la polizia ha giustificato il divieto tirando in ballo le norme per la protezione dal Coronavirus ancora vigenti. Ovviamente si tratta di una pietosissima menzogna confezionata a Pechino e da vendere alla cosiddetta opinione pubblica nazionale e internazionale. Il Partito-Regime ha anche fatto sapere, tanto per non lasciare nulla all’immaginazione, che non tollererà più nemmeno a Hong Kong «manifestazioni antipatriottiche che minano l’ordine costituito e favoriscono la propaganda dei nemici della Cina».
Insomma, un motivo in più, almeno per chi scrive, per ricordare in modo non rituale il massacro di Piazza Tienanmen (si parla di un minimo di 10.000 morti) consumato nella notte del 3/4 giugno di trentadue anni fa dal famigerato 27esimo gruppo di armata dell’Esercito cinese. Ai “primitivi” (così venivano chiamati i ragazzi provenienti dallo Shanxi che componevano appunto il 27esimo gruppo) fu dato l’ordine di compiere una vera e propria strage che servisse da monito per il futuro. L’ordine arrivò direttamente da Yang Shangkun, allora Presidente della Repubblica Popolare Cinese, e Deng Xiaoping, il vero leader del Partito-Regime. Pechino non ha mai rilasciato un bilancio ufficiale delle vittime per non dichiarare il vero, e così mettere in imbarazzo anche i suoi partners commerciali occidentali, o, in alternativa, non dover difendere una bugia troppo grossolana.
Va ricordato che nel giugno 1989 la decisione di annegare nel sangue il movimento sociale presa dai vertici dello Stato cinese ebbe come sua non ultima causa l’apparizione, accanto alle organizzazioni studentesche che per prime presero l’iniziativa, di embrioni di un combattivo associazionismo proletario indipendente dalle organizzazioni “patriottiche” che agivano come mere cinghie di trasmissione del Partito Capitalista Cinese): una minaccia ai tempi di sviluppo a dir poco accelerati impressi alla modernizzazione capitalistica del Paese agli inizi degli anni Ottanta, e ai ritmi di sfruttamento, a dir poco brutali, dei lavoratori. Si trattava di difendere a tutti i costi il progetto di fare della Cina una potenza di rango mondiale tanto sul terreno della competizione economica, quanto su quello della contesa sistemica e geopolitica. L’ascesa di una nazione nello scacchiere mondiale non è mai stata un pranzo di gala, tanto più se si tratta di una nazione così ricca di peculiarità (storiche, nazionali, demografiche, ecc.) com’è stata e come continua a essere per molti aspetti quella cinese.
Allora i “Cari Leader”, quantomeno quelli legati a Deng Xiaoping, tremavano al solo pensiero che il movimento sociale della capitale potesse fungere da detonatore per la massa dei lavoratori sfruttati nei centri industriali del Paese, e saldarsi con la lotta delle minoranze etniche sottoposte a un controllo sempre più oppressivo e capillare da parte del centro. D’altra parte, quello che accadeva nella Russia di Gorbaciov e in tutto il mondo del “socialismo reale” europeo portava acqua al mulino della fazione “antidemocratica” del regime, che si servì del massacro di Piazza Tienanmen anche per ricompattare il Partito, avvezzo a dividersi nelle svolte storiche, e regolare definitivamente i conti con le fazioni “democratiche”.
«Da quel momento, il Pcc ha cercato di cancellare il massacro di Piazza Tiananmen dalla memoria collettiva, costruendo campagne ideologiche di revisionismo storico per riscrivere in chiave propagandistica gli eventi del 4 giugno, consolidando temi nazionalisti e accelerando la trasformazione verso un’economia di mercato “con caratteristiche cinesi” – ossia un’economia nella quale lo Stato mantiene un ruolo preponderante» (Limes). Si tratta del famigerato «Socialismo con caratteristiche cinesi» che tanto piace ai nipoti/nipotini di Stalin e Mao Tse-tung. Il Celeste Imperialismo/Capitalismo può contare soprattutto in Italia su molti suoi tifosi e simpatizzanti.
Sulla natura capitalistica della Cina, tanto per quanto riguarda la sua “struttura” economica quanto per ciò che concerne la sua “sovrastruttura” politico-istituzionale, rimando ai miei diversi scritti dedicati al grande Paese asiatico. Solo alcuni titoli: Tutto sotto il cielo – del Capitalismo; Pianeta Cina; La Cina è capitalista? Solo un pochino…; Chuang e il “regime di sviluppo socialista”; La “doppia circolazione” della Cina capitalista; Sulla campagna cinese; Žižek, Badiou e la rivoluzione culturale cinese; Da Mao a Xi Jinping. 70 anni di capitalismo con caratteristiche cinese.
Postato ieri su Facebook
MAO MAO E L’INARRIVABILE CREATIVITÀ DEL CAPITALE
«Mao Mao (letteralmente peloso peloso) è tra i modelli più richiesti della Cina, lo chiamano per le campagne pubblicitarie di automobili, motociclette, gioielli e altri beni di consumo di lusso. A Mao Mao capita di lavorare assieme a splendide ragazze, eppure l’attrazione principale è sempre lui: un tenero gattone inglese a pelo corto di due anni. Discendente di due vincitori di un concorso di bellezza felino, Mao Mao è in grado di vendere qualsiasi cosa, e ha fatto la fortuna del suo padrone, il signor Zheng Zhi. Mao Mao può rivendicare di essere il primo felino ad essersi avventurato nel mondo della moda e della pubblicità» (Il Messaggero). Chapeau!
Deng Xiaoping diceva: «Non importa il colore del gatto, purché questo acchiappi il topo». Cioè il consumatore, ossia il suo denaro. Potenza del Capitale! Sul “consumatore” è meglio stendere un velo pietoso – anzi peloso, considerato Mao Mao. Ovviamente non sto parlando solo della Cina, ma del mondo intero. Con i tanti nipoti e nipotini di Mao in circolazione è sempre meglio precisare.
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