«Il capitale è violenza sociale concentrata. […] La lotta quotidiana tra capitale e lavoro è una vera lotta di guerriglia, è una guerra civile fra la classe dei capitalisti e la classe degli operai» (K. Marx).
«Per Lassalle il punto fondamentale dell’agitazione diventò l’aiuto statale invece dell’aiuto reciproco. […] Qui, dove l’operaio viene diretto burocraticamente fin dall’infanzia e crede all’autorità, alle istituzioni superiori, è necessario prima di tutto insegnarli a muoversi autonomamente» (K. Marx). Inutile dire che l’emergenza cosiddetta pandemica ha stretto ancora più fortemente i bulloni del controllo sociale, accentuando il senso di dipendenza dei lavoratori, e di tutti gli individui, nei confronti delle «istituzioni superiori». Prima della pandemia eravamo messi malissimo, dopo…
È evidente che il Capitale vuole approfittare della crisi sociale in corso per schiacciare ancora di più i lavoratori, soprattutto quelli sfruttati nell’industria, nel comparto agroalimentare e nella logistica, cioè nel cuore pulsante del processo di produzione capitalistico, senza il quale non sarebbe possibile nemmeno il gigantesco edificio della speculazione finanziaria. Oggi anche molti sociologi stanno scoprendo che le tecnologie cosiddette intelligenti, lungi dal liberare i salariati dalla fatica fisica e psicologica, ne stanno piuttosto peggiorando le condizioni di vita e di lavoro, accentuando la loro condizione di sudditanza nei confronti del Capitale, proprio come accadde nel corso della Prima rivoluzione industriale. Tutte le volte che da qualche parte leggiamo “dittatura degli algoritmi”, e feticismi tecnologici di simile conio, dobbiamo tradurre senz’altro come segue: dittatura dei rapporti sociali capitalistici.
Leggo da qualche parte: «I padroni non si sporcano le mani direttamente, spingono alla guerra tra poveri. Stanno a guardare, se la ridono e continuano a fare profitto, dal momento che il diritto alla “libera impresa” prevarica, grazie alle leggi borghesi, quello del diritto alla vita». Come affrontare nel modo migliore la guerra che il Capitale conduce ogni giorno contro i lavoratori? Credo che per noi proletari un buon punto di partenza sia capire che lo Stato difende gli interessi dei padroni, della classe dominante, e che quindi è esclusivamente sulla nostra forza che dobbiamo contare per resistere alla «violenza sociale concentrata» di cui parlava il comunista tedesco. Resistere con ogni mezzo necessario. Resistere al dominio sociale capitalistico che sfrutta, uccide, inquina, infetta, prepara guerre “fredde” e “calde”, divide lo stesso fronte dei lavoratori (vedi alla voce “razzismo” e “guerra tra i poveri”) e, infine, produce illusioni e “soddisfazioni” (materiali, spirituali, affettive e psicologiche) a ritmo industriale.
Adesso un punto di vista interno alla logica capitalistica sui noti fatti.
1. Dario di Vico, Il Corriere della Sera, 19 giugno
«Camionisti contro facchini è un pessimo film che sta andando in onda da troppo tempo nei piazzali della logistica italiana, nelle lunghe notti dei picchetti davanti alle fabbriche o davanti ai centri di stoccaggio della grande distribuzione. Nelle notti di un nuovo rancore in cui la paura di essere licenziati e quella di essere investiti fa tutt’uno. Che da un giorno all’altro potesse accadere qualcosa di tragico era un copione, purtroppo, già scritto. In tanti lo sapevano. Gli episodi di contrapposizioni dure, senza filtri, si sono susseguiti con regolarità nelle ultime settimane. Sarebbe potuto succedere a Lacchiarella alle porte di Milano, nel grande polo logistico piacentino di Castel San Giovanni o nell’Interporto di Bologna. Troppe contraddizioni sono state lasciate incancrenire, troppi conflitti non trovano da tempo uno straccio di regolazione. Dentro le fabbriche esiste – nel rispetto dei ruoli – uno spirito di comunità dell’impresa e del lavoro, fuori c’è il Far West. E il sistema della logistica italiana ne esce devastato nell’immagine e nelle relazioni. Ed è paradossale che ciò avvenga nella stagione del massimo successo dell’ecommerce e di super-Amazon.
Del resto purtroppo nella competizione internazionale del traffico delle merci noi non possiamo vantare grandi imprese e il valore aggiunto dell’economia dei flussi globali è appannaggio dei grandi vettori tedeschi o olandesi. Siamo presenti più in basso nella scala del valore con un trasporto su gomma che la fa da padrone sulla rotaia ed è polverizzato in migliaia di piccole ditte, costrette a loro volta a una competizione al ribasso e a subire la concorrenza sleale dei camionisti dell’Est europeo. In questo paesaggio il lavoro è il più classico dei vasi di coccio, i contratti vengono aggirati tramite le cooperative spurie che si assicurano commesse con una marginalità minima e meno riescono a retribuire le braccia più possono pensare di sopravvivere. In realtà di cooperativo non hanno nulla, sono delle imprese grigie in mano ad avventurieri spregiudicati. Così i piazzali della logistica della seconda potenza manifatturiera d’Europa sono diventati un’estrema periferia del mercato, un girone dantesco di illegalità, soprusi, conflitti a sfondo razziale. È una terra sconsacrata dove le (false) cooperative non rappresentano il lavoro associato ma sono sinonimo di caporalato, dove non c’è la forza e il prestigio dell’industria italiana, quella che macina export e riscuote consensi internazionali, dove la grande tradizione del sindacalismo confederale sembra esangue.
Lavoratori come lo scomparso Adil Belakhdim non appartengono alla tradizione dei facchini italiani del ‘900, sono un nuovo tipo di classe operaia con la quale bisogna saper interloquire, superare incomprensioni e barriere e costruire un’altra idea di solidarietà e protagonismo. È un processo lungo, dall’esito non scontato ma le Camere del lavoro del nuovo secolo o le si apre su quei piazzali o niente. Tocca, dunque, ai grandi soggetti di rappresentanza riprendere il pieno controllo del territorio, dimostrare nei fatti di essere capaci di elaborare soluzioni, di porre le basi di una competizione leale e dare un giusto prezzo al lavoro. Non ci si può riempire la bocca di dotte discussioni sul “capitale umano” e poi far finta di non vedere cosa accade nella filiera del trasporto merci. Tocca però anche allo Stato dare il segnale di una lotta senza quartiere all’illegalità. Nell’Italia che vuole riconquistare il posto che le compete in Europa non possono esistere zone franche».
2. Dario Di Vico, Il Corriere della Sera del 18 giugno
«Mario Sassi è un ex manager della grande distribuzione e ha passato molte notti sui piazzali della logistica, quella terra di nessuno del nuovo conflitto sociale dove i Cobas bloccano i cancelli e si scontrano gli autisti dei camion in attesa. «Chiunque si interessi per lavoro di magazzini logistici, cooperative serie o spurie e sindacati del trasporti, sa che sui piazzali le notti sono lunghe e le contrapposizioni tra gli uni e gli altri sono durissime». Anni tra rivendicazioni continue e picchetti duri, con la merce che deve arrivare per tempo nei supermercati e i facchini senegalesi contro i sudamericani in un assurda guerra tra poveri. Dopo i fatti di Tavazzano dove le cronache giornalistiche hanno illuminato scene da nuovo far west, Sassi ha raccontato sul blog, che si occupa di mondo del lavoro, la sua esperienza.
A Tavazzano, davanti alla ditta Zampieri — spiega Sassi — è andata in onda un’ennesima replica. Spesso si tratta di fatti che restano confinati ai comunicati dei Cobas e si concludono con una scazzottata tra autisti inviperiti, gomme bucate, scontri tra etnie contrapposte. «La scelta del blocco improvviso e notturno dei piazzali è strategica per i Cobas perché a quelle ore di solito la polizia è lontana o non arriva in tempo». La mobilitazione per i picchetti duri avviene anche con il tam-tam sulla Rete e qualche volta coinvolge anche i giovani dei vari centri sociali, come è accaduto spesso attorno a Lacchiarella o in altre località dell’hinterland. “Il sindacalismo confederale ha
“Il sindacalismo confederale ha sottovalutato l’emergere di questo fenomeno, anzi all’inizio erano stati proprio Cgil-Cisl e Uil a dar vita alle prime cooperative di facchini. Ma allora i contratti di lavoro erano riconosciuti e rispettati” .Poi, secondo Sassi questo meccanismo è scappato di mano. Le cooperative più serie hanno saputo reggere ma una buona parte è stata travolta dall’ingresso sul mercato di soggetti spregiudicati che hanno creato finte cooperative e praticato il dumping salariale con il ricorso agli immigrati. E questo ha incrinato gli storici rapporti tra sindacato, imprese e cooperative.
La seconda rottura è stata la sottovalutazione della nascita della terza classe operaia, per usare una classificazione del sociologo Antonio Schizzerotto, quella senza memoria storica, senza radici e spesso inerme di fronte al predominio dei caporali. “Il sindacalismo confederale ha sempre rappresentato i lavoratori dei trasporti, altra mentalità, altra idea della rappresentanza, e così si è ritrovato incapace di intercettare soggetti totalmente diversi”. In questa divaricazione si sono inseriti i Cobas che hanno messo nel mirino i confederali, li hanno accusati di essere complici delle imprese e hanno cavalcato la rabbia, le difficoltà linguistiche e persino le contrapposizioni tra etnie. Per governare queste discontinuità ci sarebbero volute delle controparti aziendali capaci e invece è emersa, sempre secondo Sassi, “una debolezza delle direzioni del personale non attrezzate ad affrontare un nuovo tipo di conflitto perché legate agli schemi del ‘900”. “Se a questo aggiungiamo le pretese del massimo ribasso nelle gare per l’aggiudicazione della gestione dei magazzini da parte dei clienti e una conduzione molto spregiudicata e rigida delle risorse umane completiamo il quadro”. E capiamo come i Cobas si siano potuti affermare. […] Le aziende che operano nella logisticaper venirne a capo dovrebbero affidarsi a interlocutori seri, azzerare il rapporto con le cooperative meno trasparenti e accettare un aumento dei costi come giusto prezzo per avere il controllo della situazione e non vivere con il telefono acceso tutta la notte. “I Cobas non avendo regole da rispettare si muovono nelle pieghe del diritto e nelle contraddizioni come pesci nell’acqua e si giovano anche del fatto che le forze dell’ordine non sono attrezzate a contrastare fenomeni improvvisi e imprevedibili anche per loro”.
Questa situazione dura da troppi anni. Adesso è addirittura peggiorata e gli ultimi fatti lo dimostrano, le aziende hanno cominciato anche a commettere errori imperdonabili sostituendosi alle autorità di polizia e venirne a capo non sarà facile. “Il confine tra diritti e soprusi è stato varcato, ci sono organizzazioni para-criminali che ricattano le imprese, l’immigrazione legale è fusa con quella clandestina, legalità e illegalità non si distinguono più” dice Sassi. Bisogna ricostruire quel confine prima che la situazione degeneri con ulteriori e prevedibili violenze che potrebbero far impallidire il ricordo di Tavazzano. Sono in troppi a scommettere sul caos».