LA CINA CAPITALISTA NELLA “TRANSIZIONE ECOLOGICA”

1. La muraglia cinese di Xi Jinping

Scrive Lucio Caracciolo sulla Stampa di oggi: «C’erano una volta due Cine, la comunista e la nazionalista. Mao e i suoi eredi, padroni della Repubblica Popolare Cinese, contro Chiang Kai-shek arroccato a Taiwan. Oggi c’è una sola Cina, comunista e nazionalista, incarnata da Xi Jinping. La coreografia di massa con cui il leader ha celebrato in Piazza Tiananmen i cent’anni di vita del Partito comunista ha sanzionato al suono dell’Internazionale la crasi nazionalcomunista (il primo aggettivo è decisivo, il secondo irrinunciabile ma decorativo)». Più che «decorativo» il secondo aggettivo è semplicemente falso, e parlare di un «comunismo imperiale» a proposito del regime cinese suona, oltre che comico, ridicolo in modo difficilmente eguagliabile. Ma i tempi sono quel che sono, e personaggi come Caracciolo possono cianciare di “nazionalcomunismo” e di “comunismo imperiale” senza temere di cadere nel ridicolo. Altro che «crasi» (commistione di concetti e parole): trattasi piuttosto di crisi del “pensiero raziocinante”, per dirla con il filosofo.

Scriveva ieri Simone Pieranni sul Manifesto: «Il Partito comunista cinese, nato a Shanghai nel 1921, ha percorso i primi anni della sua vita all’interno di una delle fasi più travagliate della storia cinese. Nato con l’impeto del movimento del 4 luglio 1919 e sulle ceneri dell’ultima dinastia, al suo primo congresso contava 53 iscritti e si premurava di rappresentare per lo più il proletariato urbano, protagonista allora di grandi scioperi, repressi dai signori della guerra. Sarà Mao, con le sue inchieste sulle campagne dell’Hunan, a riportare il Pcc sui sentieri rurali, finendo per organizzare i contadini e affrontare tempeste politiche (anche interne) e militari».

Non si trattò di un mero ripiegamento tattico, ossia della continuazione della stessa guerra di classe (proletaria) con altri mezzi, ma di una radicale trasformazione del PCC, che da Partito del proletariato urbano cinese diventò il Partito della rivoluzione nazionale-borghese basata sui contadini come “massa di sfondamento”. Dall’anticapitalismo strategico, il PCC passò all’antimperialismo nazionalista, pur conservando il vecchio nome – anche in questo degno prodotto dello stalinismo. Dall’internazionalismo proletario predicato e praticato, il Partito che sarà di Mao passerà al nazionalismo rivoluzionario (borghese, nell’accezione storica del concetto), senza peraltro abbandonare mai una fraseologia pseudo “comunista” di stampo stalinista – con caratteristiche più orwelliane che cinesi. Rimando i lettori ai miei diversi scritti sulla natura sociale del PCC e della Rivoluzione Cinese culminata nel 1949 con la proclamazione della Repubblica Popolare – in Cina da quell’anno tutto diventa rigorosamente “popolare”, compreso l’oppressione del Partito-Stato ai danni del popolo.

«Il popolo cinese non ha mai oppresso nessuno», ha detto a ragione ieri Xi Jinping celebrando il totalitarismo politico-istituzionale che regge la Cina ormai da 72 anni; il Partito Capitalista Cinese, detto “Comunista”, continua invece a opprimere il popolo cinese, a cominciare dai lavoratori, sul cui sfruttamento intensivo il Capitalismo cinese ha fondato le sue eccezionali fortune – in questo del tutto simile ai concorrenti cosiddetti “democratici”, a cominciare dal Capitale a stelle e strisce. Nel XXI secolo l’intero pianeta è dominato dai rapporti sociali capitalistici di produzione, con quel che necessariamente ne segue su ogni aspetto della nostra vita quotidiana. Tutto sotto il Capitale.

Al «popolo cinese» Xi-Mao ha fatto sapere che esso non si libererà mai dalla dittatura del PCC: inutile coltivare impossibili quanto rischiose utopie: un Paese, un sistema (capitalistico), un Partito!

«Il popolo cinese», ha aggiunto il Carissimo Leader, «non permetterà ad alcuna forza straniera di intimidirlo, prevaricarlo, soggiogarlo, renderlo schiavo. Chiunque volesse cercare di farlo si schiaccerebbe la testa e verserebbe il suo sangue contro una muraglia d’acciaio forgiata da un miliardo e quattrocento milioni di cinesi». Che pacifiche e armoniose parole! Quando vuole il Celeste Imperialismo sa essere chiaro fino alla brutalità. Altro che la fascistissima «foresta di 8 milioni di baionette bene affilate e impugnate da giovani intrepidi e forti»!

2. Il Medio Oriente ha il petrolio, noi le terre rare (Deng Xiaoping, 1992).

Quante volte al giorno, negli ultimi due anni, abbiamo sentito parlare di “transizione ecologica” o abbiamo letto da qualche parte che il XXI secolo sarà il secolo della “transizione ecologica”? Tante volte. Troppe. Diciamo pure fino alla nausea! “Transizione ecologica” e “resilienza”: ecco i mantra più ripetuti dei nostri giorni, i termini che stabiliscono il grado di modernità di chi ci parla del presente e del futuro. Al netto della propaganda e delle frasi fatte, ciò che quella locuzione modaiola chiama in causa è una gigantesca guerra sistemica (economica, scientifica, geopolitica, militare) di portata mondiale che aderisce come un guanto al concetto di imperialismo. A tutti gli effetti la cosiddetta “transizione ecologica” designa la prassi dell’imperialismo del nostro tempo. La rivoluzione capitalistica che si annuncia è talmente vasta, capillare e profonda, da coinvolgere direttamente nel suo dispiegarsi gli assetti politico-istituzionali dei maggiori Paesi capitalistici del pianeta, chiamati a supportare la “transizione ecologica” con ogni mezzo necessario. È questo che rende particolarmente pericolosa questa rivoluzione sistemica, la quale espone l’umanità alla possibilità di una guerra mondiale senza precedenti.

Enrico Salvatori e Giovanni Brussato hanno pubblicato per la rivista Fare Futuro un’interessante ricerca sugli aspetti economici, tecnologici e geopolitici della mitica “transizione ecologica”, il cui titolo dice tutto intorno al taglio politico di questo pur eccellente lavoro: Sottomessi alla Cina nella transizione verde. Si tratta, com’è facile capire, del punto di vista dell’imperialismo “democratico”, il quale ha nell’Unione Europea e negli Stati Uniti d’America il suo pilastro fondamentale. I nemici dell’imperialismo cinese si rendono conto di aver perso molto terreno nei confronti del gigante asiatico e cercano di correre ai ripari, ben consapevoli della posta in gioco.

Il paradosso a cui assistono i nemici del Celeste Imperialismo è il seguente: le catene di approvvigionamento, produzione e  commercializzazione delle tecnologie cosiddette green (dalle batterie agli ioni di litio alle celle fotovoltaiche) sono saldamente nelle mani del capitalismo cinese, e nel prossimo futuro questo primato strategico sembra destinato a rafforzarsi. A questa posizione di leadership mondiale nelle tecnologie “green” fa puntuale riscontro un crescente predominio cinese nel comparto della logistica. Questo per un verso. Per altro verso la Cina detiene il primato nell’uso delle materie prime energetiche più inquinanti e impattanti in termini di emissioni di gas a effetto serra: petrolio, gas, carbone. «Il destino della transizione energetica europea è, in senso letterale, sulle spalle del gigante delle emissioni globali: la Cina, le cui emissioni globali superano quelle di USA ed UE insieme. […] Un altro aspetto strategico è il rafforzamento dei legami economici con la Russia: nonostante divergenze presenti e passate, il deterioramento delle relazioni con l’Occidente ha spinto i due paesi a cooperare più strettamente negli ultimi dieci anni in particolare nel settore dell’energia. La Russia prevede di aumentare le esportazioni annuali di carbone in Cina fino a 20 milioni di tonnellate all’anno per i prossimi 20 anni; nel complesso, i funzionari russi hanno affermato di voler raddoppiare il carbone esportato in Asia fino a 85 milioni di tonnellate all’anno entro il 2030» (Sottomessi alla Cina nella transizione verde, pp. 8-13). Anche la politica cinese nei confronti di Taiwan, dello Xinjiang, del Myanmar e dell’Africa ha molto a che fare con la “transizione ecologica” e con i bisogni del Capitale cinese di approvvigionarsi dei vitali (almeno nel breve periodo), quanto assai poco “ecosostenibili”, combustibili fossili.

Invito i lettori a leggere il PDF, il quale è ricco di utili informazioni.

«Per quanto riguarda l’Italia sarà fondamentale recuperare il suo ruolo “baricentrico” sullo scacchiere geopolitico, perché riacquisire la piena sovranità nella politica estera è fondamentale per rimpadronirsi di una sana e proficua politica energetica» (p. 51). In effetti, da qualche anno a questa parte l’iniziativa geopolitica dell’italico imperialismo in Africa e nel Vicino Oriente si è fatta più chiara e “assertiva”, ovviamente sempre nei limiti concessi a una piccola potenza regionale – oggi incalzata nel suo “cortile di casa” anche dalla Turchia e dall’Egitto.

3 pensieri su “LA CINA CAPITALISTA NELLA “TRANSIZIONE ECOLOGICA”

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