Poi c’è la gente che ha pagato per le guerre,
ci sono i mutilati, i senza lavoro, i disperati,
le donne vedove, la gente senza la minima
risorsa, i profughi. Miscuglio sociale, di etnie,
di situazioni dure, di ferocie, che non può
portare simpatie né ai taliban né a chiunque
altro (E. Turri, Limes, ottobre 2001).
Voi avete l’orologio, noi abbiamo il tempo (Taliban).
La tragedia afghana può essere sintetizzata come segue:18 milioni di poveri, circa 1 milione di sfollati interni che si concentrano soprattutto nell’area metropolitana di Kabul, ultimo caposaldo di un regime ormai morente; oltre 2 milioni di sfollati che da anni sopravvivono miseramente nei Paesi che confinano con l’Afghanistan – soprattutto in Pakistan. I Paesi dell’Unione Europea sono pronti ad alzare una muraglia nei confronti dei profughi di guerra afghani, in fuga dalla miseria più nera e dalla violenza più cieca – come sempre nei conflitti, le donne rappresentano per i soldati un eccellente bottino di guerra. Come disse qualche mese fa il realista Mario Draghi, per fermare gli immigrati le democrazie europee devono collaborare anche con le dittature (vedi la Turchia di Erdogan): è venuto il momento di foraggiare anche i cattivi talebani? Vedremo, e a proposito di cattivi talebani, qui è appena il caso di ricordare che negli anni Novanta gli Stati Uniti favorirono l’installazione degli “studenti coranici” a Kabul in funzione antirussa e anti-iraniana. Scrive Gino Strada: «Per almeno due anni gli Stati Uniti avevano “trattato” per trovare un accordo con i talebani stessi: il riconoscimento formale e il sostegno economico al regime di Kabul in cambio del controllo delle multinazionali Usa del petrolio sui futuri oleodotti e gasdotti dall’Asia centrale fino al mare, cioè al Pakistan. Ed era innanzitutto il Pakistan (insieme a molti Paesi del Golfo) che aveva dato vita, equipaggiato e finanziato i talebani a partire dal 1994» (La Stampa, 13/8/2021) (1). Alle Potenze mondiali spesso capita di fare i conti senza l’oste, come si dice dalle nostre parti.
L’imperialismo non “esporta” né la democrazia né i diritti umani, ma fa piuttosto valere i suoi molteplici interessi con tutti i mezzi idonei allo scopo e adeguati alle congiunture storiche, le quali sono variabili per definizione. Questo discorso naturalmente vale anche per quei Paesi che, come la Cina, nella loro propaganda politico-ideologica non amano parlare né di democrazia né di diritti umani, per i motivi che è facile comprendere. Nella sua fumisteria propagandistica rivolta alla cosiddetta opinione pubblica interna e internazionale, il Partito-Stato cinese preferisce parlare di «collaborazione pacifica e armoniosa» tra i diversi popoli del mondo.
Giustamente Alberto Negri scrive oggi che «Il ritiro americano dall’Afghanistan è una vergogna ma anche una mossa calcolata. Il ritorno all’ordine talebano era prevedibile, forse persino auspicato. Fare gli stupiti è ipocrita. […] Un ritorno all’”ordine talebano” potrebbe anche non dispiacere troppo ad americani ed europei. Con il ritiro gli americani e la Nato hanno rifilato una pesante eredità all’Armata Rossa, ai cinesi e agli iraniani» (Il Manifesto). Curiosamente il bravo analista geopolitico continua a chiamare l’Esercito Russo «Armata Rossa» («ora l’Armata Rossa organizza manovre militari con Uzbekistan e Tagikistan»): anacronismo? pignoleria geopolitica? o nostalgia canaglia? In ogni caso, per chi scrive si trattava di Armata Russa, non Rossa (nell’accezione politica a tutti nota), già ai tempi dell’imperialismo “sovietico”. Tuttavia sotto certi aspetti Negri fa bene a mantenere la vecchia definizione, perché coglie in pieno la radicale continuità tra la Russia cosiddetta sovietica (quella che, ad esempio, invase l’Afghanistan nel dicembre del 1979) e la Federazione Russa del virile Presidente Putin: si tratta infatti della continuazione dell’Imperialismo Russo nelle mutate circostanze storiche. Ma questi sono meri dettagli storici – forse.
In effetti il ritiro degli Stati Uniti dall’Afghanistan si può rivelare una micidiale trappola per russi, cinesi e iraniani, o quantomeno è questo ciò che si augurano a Washington, fidando che col tempo dal male possa venire un po’ di bene – per gli interessi statunitensi, ovviamente. «Siedi lungo la sponda del fiume e aspetta che passi il cadavere del tuo nemico», dice l’antico e saggio consiglio di matrice orientale. Il problema è che tutti a questo mondo si credono saggi! In ogni caso, come scrive P. Haski, «La Cina è nella situazione paradossale di doversi preoccupare per il ritiro delle truppe americane alle sue frontiere e per l’arrivo di una forza “rivoluzionaria” alle sue porte» (Internazionale). Russia e Iran intanto bussano alla porta del Grande Gioco, e fanno sapere che senza di loro non è immaginabile nessuna «soluzione politica del conflitto». A suo tempo il regime iraniano accusò Washington di non averlo nemmeno consultato sulle sue intenzioni belliche e politiche: «È evidente», scrisse il 7 ottobre 2001 il giornale Iran, portavoce ufficiale del governo iraniano, «che gli Stati Uniti, per tessere una cooperazione politico-militare con Islamabad e con altri loro alleati nella regione, hanno preventivamente raggiunto un accordo sul dopo-taliban. È bene ricordarsi che a questo proposito gli Stati Uniti e i loro alleati non hanno assegnato alcun ruolo all’Iran e non l’hanno neppure consultato. Il risultato è che il nostro Paese riguardo al futuro dell’Afghanistan, rischia di contare meno del Tagikistan e dell’Uzbekistan». Allora Teheran esibì una difficile postura di equidistanza tra i contendenti, tradendo spesso il suo desiderio di assestare un colpo mortale ai sunniti organizzati dal saudita Bin Laden e ai talebani, che secondo gli sciiti iraniani praticano un «Islam delle caverne». Da quale pulpito arriva la predica, verrebbe da esclamare (2).
Tuttavia gli inquilini della Casa Bianca non si aspettavano un’avanzata così forte e rapida dei talebani in direzione della Capitale, il sole centro “borghese” del Paese, e un così rapido e totale sfaldamento delle cosiddette Forze di sicurezza afghane, la cui organizzazione/formazione ha rappresentato il cuore dell’Operation Freedom’s Sentinel [sic!] che dal gennaio 2015 prese il posto dell’operazione Enduring Freedom [Libertà Duratura: risic!] iniziata il 7 ottobre 2001. «La campagna in Afghanistan è costata, nel complesso, 785 miliardi di dollari agli Stati Uniti, secondo i dati diffusi dal Pentagono: 587,7 miliardi per l’operazione “Enduring Freedom” e 197,3 miliardi per “Freedom’s Sentinel” (Agi, 15/4/2021). Diciamo che per i “contribuenti” americani non si è trattato di un buon investimento. Secondo i calcoli fatti lo scorso aprile dal Watson Institute della Brown University, il totale dei costi diretti e indiretti del conflitto in Afghanistan, e di riflesso nel confinante Pakistan, solo per gli Stati Uniti si aggirano intorno ai 2.260 miliardi di dollari, «considerando anche gli altri costi finanziari e di gestione e le spese per l’assistenza medica e psicologia per i veterani di guerra».
Sosteneva nel marzo 2020 l’ambasciatore dell’Afghanistan in Italia: «Vorrei sottolineare come le forze di difesa e sicurezza nazionali afghane hanno svolto un lavoro straordinario nel contrastare sia i talebani che altri gruppi terroristici registrando perdite notevoli nel periodo 2015-2016. Credo che nessuno prevedesse che le nostre forze di sicurezza potessero avere un tale successo nel loro compito di lotta al terrorismo» (Notizie Geopolitiche, 11 marzo 2020). Alla luce dei fatti, non della facile propaganda, possiamo considerare quantomeno poco credibili le affermazioni dell’ambasciatore afghano.
È dal 2010 che Washington ha preparato militarmente, diplomaticamente e politicamente il graduale disimpegno americano in Afghanistan, e la cosa si è precisata meglio nel maggio del 2011, dopo l’uccisione di Bin Laden. Nel 2014 Obama annuncia ufficialmente il ritiro delle truppe americane dall’Afghanistan entro – e non casualmente – l’11 settembre 2021. Pian piano sono venuti allo scoperto i tentativi americani di prendere contatto con “l’ala moderata” dei talebani, i quali nel 2001 fuggirono saggiamente in Pakistan, consapevoli di non potere affrontare a viso aperto l’esercito più forte del mondo e in attesa dei tempi migliori che sapevano benissimo che sarebbero arrivati. «Voi avete l’orologio, noi abbiamo il tempo», amavano ripetere i talebani ai giornalisti occidentali che andavano a intervistarli.«Oggi siamo al punto in cui gli americani hanno chiesto ai talebani, attraverso i canali diplomatici, di usargli la cortesia di risparmiare l’ambasciata Usa a Kabul in cambio di aiuti economici prossimi venturi (C. Rocca, Linkiesta, 11/8/2021). Che vergogna, non solo per gli americani ma per tutti i sostenitori della Civiltà Occidentale!
«Il 2 ottobre 2002, il Parlamento Italiano autorizzava la partecipazione, a partire dal 15 marzo 2003 di un contingente militare di 1000 soldati. Prendeva cosi l’avvio la Missione della Task Force NIBBIO. La NIBBIO può essere a ragione considerata una delle più complesse e rischiose missioni compiute dalle Forze Armate Italiane dalla Seconda Guerra Mondiale» (Farnesina). Di certo si è tratta della missione militare più lunga. Quello in Afghanistan è stato dunque per l’imperialismo italiano l’intervento militare più lungo e impegnativo dopo la Seconda guerra mondiale. 50. 000 militari italiani coinvolti “a rotazione”, oltre 700 militari feriti, 53 militari morti. La spesa italiana dell’operazione afghana si aggira intorno agli 8,5 miliardi di euro. Il governo italiano si è preoccupato di precisare che il ritiro dell’Esercito Italiano dall’Afghanistan non equivale in nessun modo a un disimpegno italiano da quel Paese, che Roma continuerà a sostenere economicamente, politicamente e diplomaticamente. Non avevamo dubbi a tal proposito. Tra l’altro, è interessante ricordare che, come scriveva Eugenio Turri nell’ottobre del 2001, «il regime fascista assegnò una funzione importante alla nostra ambasciata a Kabul (ancor oggi una delle più prestigiose nella capitale), che doveva porsi in funzione anti-inglese a fianco dei tedeschi» (Limes) – i quali furono scelti dal sovrano afghano Amanullah come i migliori strumenti di modernizzazione del Paese.
Se per gli Stati Uniti l’impresa afghana si è rivelata (a quanto pare!) un totale insuccesso, la stessa cosa non si può dire per l’Italia, Paese che si è servito dell’intervento armato in quel Paese per riaffermare e consolidare il proprio status di media potenza, per sviluppare e affinare le proprie capacità diplomatiche in un’area lontana dal suo storico “giardino di casa” (l’area mediterranea e balcanica), e per mantenere moderno ed efficiente il proprio strumento militare. Naturalmente queste brevi considerazioni vanno lette al netto dei discorsi propagandistici intorno alla democrazia, ai diritti umani (soprattutto quelli che riguardano le donne), alla pace e a quant’altro hanno evocato in tutti questi anni i difensori dell’intervento imperialistico in Afghanistan.
Fa un certo effetto rileggere quanto sosteneva nel marzo del 2020 il già citato ambasciatore dell’Afghanistan a Roma Helena Malikyar: «È possibile dire che siamo sulla buona strada per lo sviluppo economico e l’autosufficienza. Per raggiungere questo scopo l’attuale governo ha progetti solidi e strategie per allontanarsi gradualmente dall’attuale livello di dipendenza dall’assistenza straniera e diventare sempre più autosufficiente grazie alle risorse naturali presenti nel territorio afghano come gas naturale, minerali preziosi e semipreziosi, marmo, terre rare e metalli. Con una buona pianificazione e una saggia gestione, l’Afghanistan potrà attrarre investimenti internazionali nelle nostre ricchezze minerarie e trarne enormi benefici anche se il settore minerario, come ben sappiamo, ha bisogno di tempo per generare dei profitti. L’agricoltura è alla base dell’economia afghana e con ingenti investimenti in questo settore è possibile sfruttare il suo enorme potenziale. Diversi prodotti agricoli afghani (zafferano, pinoli, liquirizia, ecc.) si stanno facendo strada verso i mercati internazionali ottenendo buoni risultati anche nel mercato interno. La nostra posizione geografica è anche una risorsa economica. L’attuale governo sta lavorando attivamente per trasformare l’Afghanistan da cortile di guerre per procura regionali nel “bivio dell’Asia” in termini di commercio. Con i sistemi stradali migliorati e l’estensione delle ferrovie con i paesi vicini, il presidente Ghani ha come obiettivo quello di trasformare l’Afghanistan in un hub logistico di transito per il commercio in Asia centrale, meridionale e occidentale» (Notizie Geopolitiche). Diciamo pure che l’ottimismo dell’ambasciatore afghano non era del tutto fondato.
Nonostante la sua arretratezza economico-sociale (3), l’Afghanistan ha rivestito negli ultimi due secoli una grande importanza strategica per i traffici tra Oriente e Occidente, e questo si spiega in primo luogo con la sua particolare collocazione geopolitica. Nel corso del XIX secolo il Paese asiatico è stato il teatro della dura contrapposizione tra l’impero britannico e quello zarista – la cui eredità fu presa, com’è noto, dall’imperialismo “sovietico”, che ,come già detto, invase l’Afghanistan nel 1979. Mutatis mutandis, oggi come ieri diversi attori regionali (Pakistan Iran, India, Turchia, Arabia Saudita) e mondiali (Stati Uniti, Russia, Cina, Unione Europea) sono interessati al suo controllo, e per diversi motivi: geopolitici, economici, di sicurezza – compreso il controllo dei flussi migratori provenienti dal Paese centrasiatico.
È difficile spiegare la situazione in Afghanistan senza conoscere la complessa composizione etnica, linguistica e religiosa della sua società (4), la quale non ha mai conosciuto una compiuta unità nazionale e una moderna statualità (5), costituendo un’eccezione storica nella pur complessa area centro-asiatica. La frammentazione etnica e tribale ha da sempre caratterizzato l’Afghanistan, «eccetto per un breve periodo, dopo la seconda guerra mondiale, allorquando si tentò di modernizzarlo: a Nord se ne occupò l’Urss e a Sud gli Stati Uniti. Quando questi ultimi si ritirarono, le divisioni etniche rimasero [e, tra l’altro, trovarono espressione nella formazione di due partiti nemici entrambi filosovietici: il Parcham (Bandiera) guidato dal tagiko Babrak Karmal, e il Khalq (Popolo) guidato dal pashtun Nur Mohammad Taraki], e la lotta fra le diverse etnie provocarono l’intervento “fraterno” dell’Urss» (C. Jean, Limes).
L’Unione Sovietica, che almeno dalla seconda metà degli anni Settanta del secolo scorso considerò l’Afghanistan come appartenente alla sua sfera di influenza, tentò una modernizzazione capitalistica a tappe forzate di quel Paese, come da tradizione stalinista, soprattutto attraverso l’imposizione di una riforma agraria «che colpiva i grossi proprietari terrieri senza tener conto delle peculiarità del paese e dei suoi delicati equilibri, talvolta anche iniqui ma ben radicati, e dei sentimenti di una popolazione che per oltre l’80% è rurale e dunque fortemente legata a tradizioni religiose e tribali» (M. Armellini, Limes, ottobre 2001). Abbiamo visto i pessimi risultati portati a casa dall’”Alleanza democratica”: «Vent’anni dopo l’11 settembre 2001, dopo averle provate tutte, siamo punto e da capo», confessa sconsolato Cristian Rocca. Tocca ora alla Cina il difficile compito storico di fare entrare il Paese centrasiatico nel moderno circuito capitalistico? Secondo studi dell’ISPI, la Cina si è già assicurata circa l’80% dei diritti estrattivi del suolo afghano, ricchissimo tra l’altro di minerali idonei a supportare la produzione delle merci cosiddette “intelligenti” (computer, cellulari, ecc.). «Va detto che negli ultimi anni, mentre la Nato garantiva (bene o male) la sicurezza, la Cina investiva in Afghanistan, soprattutto in un settore minerario dal vasto potenziale. Pechino si ritrova con tre obiettivi improvvisamente a rischio: mettere al sicuro gli investimenti in Afghanistan, evitare una minaccia di sicurezza in direzione dello Xinjiang e consolidare la sua alleanza con il Pakistan, dove sono stati investiti oltre 50 miliardi di dollari nel quadro del “corridoio economico sino-pachistano”. […] La Cina, in questo quadro, può contare su uno “strumento”: l’Organizzazione per la cooperazione di Shanghai (Sco), una struttura creata vent’anni fa insieme alla Russia con l’obiettivo iniziale di stabilizzare la regione dell’Asia centrale situata tra i due paesi. Da allora la Sco si è evoluta, aprendo ad altri paesi della regione (come partecipanti o osservatori) tra cui il Pakistan, l’India e l’Iran, altro vicino dell’Afghanistan. La Sco ha appena organizzato un vertice a Dushanbe, capitale del Tajikistan, incentrato sull’Afghanistan. Questa sorta di “piccola Nato” è controllata sempre più da Pechino e sempre meno da Mosca, e potrebbe ricoprire un ruolo importante nel mettere
in sicurezza questa regione particolarmente instabile situata al confine con la Cina. Pechino deve affrontare questi problemi stando sempre attenta a non trovarsi impantanata a sua volta nel caos afgano, che nell’ultimo secolo ha sfiancato l’impero britannico, l’Unione Sovietica e gli Stati Uniti. Ma d’altronde questo è il prezzo da pagare per diventare una superpotenza» (P. Haski, Internazionale). Come diceva il Padre della Cina capitalista (“comunista” solo per gli anticomunisti dichiarati e per quelli camuffati, cioè per i sostenitori del «socialismo con caratteristiche cinesi»), l’ascesa di una potenza mondiale non è un pranzo di gala.
Scrive Claudio Bertolotti analista dell’ISPI: «Dopo la base militare di Gibuti, in Africa, Pechino ha deciso all’inizio del 2019 di allestire una propria base in Tagikistan, ubicata a 12 chilometri a nord del corridoio afghano di Wakhan. Un’area che è un passaggio strategico non solamente per la Cina, ma per tutta l’Asia meridi onale; si tratta di una striscia di territorio afghano della provincia di Badakhshan, chiuso ai suoi lati dal Tagikistan, a nord, il Pakistan e il Gilgit-Baltistan – regione del Kashmir occupata dal Pakistan – che porta direttamente alla Cina, o meglio l’area del Tashkurgan nella problematica regione cinese dello Xinjiang abitata dai cinesi musulmani uyghuri (6). Una scelta, quella cinese, che è orientata a tutelare la grande opera strategica della “Nuova Via della Seta” (One Belt One Road), parte integrante della visione strategica del presidente Xi Jinping, e con essa il corridoio economico cino-pakistano».
Quando l’Unione Sovietica invase l’Afghanistan, dalla Cina arrivarono dure parole di condanna nei confronti di «un’azione che rappresenta un grave passo per la penetrazione verso Sud [della Russia] allo scopo di giungere all’Oceano Indiano e controllare le vie marittime. Essa è anche una parte importante della strategia sovietica per impossessarsi delle zone produttrici di petrolio e aggirare l’Europa in modo da assicurarsi l’egemonia mondiale». Oggi possiamo dire che il governo cinese esagerò nel valutare le reali capacità sistemiche dell’imperialismo russo – non certo le sue grandi ambizioni strategiche, peraltro in assoluta continuità con quelle coltivate dall’Impero zarista, come si ricava anche dalla lettura degli studi leniniani di fine XIX secolo sullo sviluppo del capitalismo in Russia: per Lenin l’area caucasico-asiatica rappresentava per quel Paese un’eccellente opportunità di penetrazione coloniale declinata secondo i canoni del moderno colonialismo capitalistico, così ben praticato dagli Stati Uniti. Sotto questo aspetto, la politica di penetrazione imperialista seguita dall’Unione Sovietica ancora prima dell’invasione militare delle sue Armate nel 1979 costituì l’ultimo serio tentativo di modernizzazione capitalistica dell’Afghanistan, tentativo che trovò il suo più grosso limite nella debolezza dello stesso capitalismo “sovietico”, la cui debole struttura produttiva e finanziaria era entrata in una pericolosa situazione di stallo già (quantomeno) nella seconda metà degli anni Settanta del secolo scorso. Sotto questo aspetto, e sempre alla luce della prospettiva storica, l’aggressione armata all’arretrato Paese centrasiatico tradiva la debolezza sistemica dell’imperialismo russo, che troverà nella sfortunata impresa afghana un ulteriore e “pesante” motivo di crisi.
Gli Stati Uniti allora reagirono secondo una duplice modalità: per un verso manifestarono la massima irritazione nei confronti di un’impresa che metteva in chiara luce la loro difficoltà nel penetrare in uno snodo cruciale dei traffici mercantili orientati all’approvvigionamento e allo sfruttamento delle preziosissime materie prime energetiche; per altro verso Washington guardava con celata simpatia all’impegno militare russo in un’area del pianeta segnata da gravi turbolenze politiche e sociali: basti pensare all’Iran di Khomeini. D’altra parte, al governo statunitense non mancavano di certo le informazioni circa la debolezza strutturale dell’economia sovietica, la quale non poteva trarre dall’invasione dell’Afghanistan alcun beneficio, almeno nel breve periodo. Tra l’altro, la Strategic Defense Initiative (comunemente nota come Scudo spaziale o Guerre stellari) elaborata dalla Presidenza Reagan nel 1983 mirava soprattutto a dissanguare finanziariamente la Superpotenza avversaria, già in debito d’ossigeno; come sappiamo, la strategia si rivelò vincente.
Come scriveva nella seconda metà degli anni Novanta Ettore Mo, inviato del Corriere della Sera in Afghanistan, «Il bilancio, dopo anni di lotta contro i sovietici, era molto pesante: un milione di morti, cinque milioni di profughi, un’economia completamente collassata». Quando analizziamo gli eventi afghani di questi giorni non dobbiamo dimenticare quanto accadde in quel Paese ben prima dell’ascesa al potere dei talebani.
A differenza di quello “sovietico”, l’imperialismo cinese è fortissimo dal punto di vista “basico”, fondamentale, cioè economico, e presto lo sarà anche dal punto di vista militare, una prospettiva che terrorizza gli Stati Uniti, i quali temono di essere buttati fuori dal Pacifico orientale egemonizzato dalla Cina. D’altra parte, per la Cina garantire la stabilità politico-istituzionale dell’Afghanistan è diventato un impegno imprescindibile anche alla luce del fragile equilibrio sociale che Pechino ha realizzato nello Xinjiang attraverso una durissima repressione della minoranza uigura e un loro ossessivo controllo. Questa micidiale azione di repressione e di controllo, nonché di esasperato sfruttamento della forza lavoro uigura (vedi, ad esempio, la produzione del cotone e del pomodoro), alimenta un risentimento che spesso sfocia in un radicalismo etnico-religioso molto contiguo al terrorismo di matrice jihadista. La propaganda del regime cinese cerca ovviamente di capovolgere i termini del problema, ossia di giustificare la politica repressiva cinese nello Xinjiang con la presenza di cospicue cellule terroristiche, ma chi conosce la storia di quella regione non ha difficoltà nello smontare quella propaganda. Mutatis mutandis, la Cina potrebbe trovarsi tra qualche tempo nella stessa situazione che costrinse l’Unione Sovietica a intervenire militarmente in Afghanistan per non trovarsi un nuovo Iran “rivoluzionario” alle porte di casa. Eccellenti opportunità e seri rischi sembrano dunque affollarsi al cospetto del Celeste Imperialismo.
(1) «Due o tre multinazionali onnivore, come la Unocal americana, la Delta Oil saudita e l’argentina Bridas Energy, avevano progettato un gasdotto lungo millequattrocento chilometri e un oleodotto che dal Turkmenistan, transitando estesamente in territorio afgano, avrebbe raggiunto le sponde pakistane del mare arabico. […] Il nodo più duro da sciogliere era l’ostilità di Kabul, che dal progetto non avrebbe tratto alcun vantaggio e si sentiva raggirata da un complotto internazionale. È a questo punto che il Pakistan fa scendere in campo nientemeno che Allah. Attraverso il suo luogotenente in terra, Omar, il mullah Polifemo con i suoi talebani» (Ettore Mo, Il Corriere della Sera).
(2) «Il fatto, spietato e regressivo, che racconto ci induce a uscire dalla cronaca e a cercare di entrare in una storia. Il fatto è accaduto il 2 agosto, quando Sajad Sanjari, al sorgere del sole, è stato giustiziato in segreto nel carcere di Dizelabad nella provincia di Kermanshah in Iran. Sajad era stato arrestato nell’agosto del 2010, quando aveva 15 anni per aver accoltellato un uomo che aveva cercato di violentarlo. È stato condannato a morte un anno e mezzo dopo, nel gennaio 2012 quando ancora non aveva compiuto diciotto anni. Dopo anni di processi si è stabilito che fosse consapevole perché ai tempi del reato aveva già i peli pubici…» (E. Zamparutti, Il Riformista, 13/8/2021).
(3) Scriveva Eugenio Turri nell’ottobre del 2001: «I “ritardi” storici dell’Afghanistan si spiegano anche con la particolare geografia del paese, la quale ha ben poco favorito la formazione di uno Stato forte, centralizzato, compatto e dialogante con il mondo che lo circonda. […] Il paese ha le sue parti più vitali, le aree che più contano, lungo le direttrici pedemontane, dove i fiumi che scendono dalle montagne della parte più interna portano le loro acque utilizzate per far vivere piccole e grandi oasi, nelle quali trovano sede le città maggiori e dove si pratica da millenni un’agricoltura irrigua di matrice persiana, stupefacente per sapienza delle tecniche. Oasi peraltro che hanno complessivamente una superficie esigua, pari a non più del 12% (la frazione coltivabile dell’intera superficie del paese). Il resto è per lo più dominio della pastorizia nomade. I nomadi hanno sempre avuto un ruolo importante nel paese. […] Tradizionalmente l’importanza dei nomadi non sta solo nella loro funzione di produttori o di allevatori (bestiame da carne e per pelli karakul), ma anche nel legare in certo modo il paese, di mettere in comunicazione i sedentari sparsi nelle piccole e più isolate oasi vallive e pedemontane con il resti del paese, praticando lo scambio, il commercio, esercitato in mercati ambulanti frequentati dai sedentari. Proprietà della terra e diritti sui pascoli sono in mano a grandi famiglie e spesso anche vaste superfici dei campi irrigui nelle oasi appartengono di diritto a grandi proprietari. Essi perpetuano una sorta di latifondo tribalistico che, nonostante le promesse, non è mai stato di fatto abbattuto. La modernizzazione in senso urbano, borghese, è stata sino ad oggi esigua. […[ A Nord si trovano le attività produttive principali, tra cui quelle estrattive, che comprendono anche la produzione di gas metano che i russi hanno fatto convergere nei decenni scorsi nel vicino Uzbekistan. Lungo i fiumi che scendono dalle montagne si trovano gli unici centri con attività industriali manifatturiere, come Pul-i-Kumri, sede di un’industria tessile impiantata dai tedeschi. Ovunque i bazar sono le basi di un buon artigianato (dei tappeti, degli oggetti in rame, della lavorazione del cuoio, eccetera). […] Alle tradizionali produzioni dell’allevamento e dell’agricoltura, che offre grano, carote, ortaggi meravigliosi, come i magnifici meloni di Kunduz, si aggiunge oggi il papavero da oppio, coltivato soprattutto al Sud, lungo la fascia irrigua del fiume Helmand ed anche al Nord, dove passano i trafficanti, legati a potentissime mafie, a fare incetta di prodotto grezzo, smistato poi nei canali diretti verso la Russia e l’Occidente. Di questo traffico sono complici non solo certi commercianti dei bazar ma anche gli stessi taliban, giustificandolo con la necessità di procurarsi armi per la loro guerra santa. […] Se si torna indietro nella storia recente si può vedere che se c’è stato un momento in cui il paese sembrava aprirsi, pacificato, all’esterno è stato con il re Zahir, con la sua politica di equilibrio nei confronti dell’Urss e degli Usa, facendoli intervenire in una serie di opere (strade, dighe, piani di valorizzazione territoriale). Poi, dopo il crollo della monarchia nel 1973, ebbe il sopravvento la maggiore aggressività dell’Urss, che portò al colpo di Sato, alla invasione e alla guerra sanguinosa. Da questa il paese non si è ancora liberato. Quella guerra ha interrotto i processi di trasformazione in atto, ha sconvolto il nomadismo e la precedente organizzazione produttiva, ha riconfermato la fiducia della gente nel mullah, portatore dell’unica cultura accessibile. Quanto è avvenuto in Afghanistan sembra la replica del khomeinismo in Iran, alimentato dalle schiere dei contadini inurbati a Teheran (passata da uno a otto milioni di abitanti nel giro di appena vent’anni) ma incapaci di adattarsi alla condizione urbana, sovvertitrice degli unici valori in cui credevano. Ma anche qui ci sono classi sociali diverse. L’aristocrazia che difende gli ultimi scampoli dei propri privilegi, i commercianti che accusano i taliban di aver soffocato l’economia del paese, la borghesia semioccidentalizzata che non era proprio esigua a Kabul, formatasi nelle università europee e americane, o in quelle russe, i giovani studenti eccitati dagli ulema, accesi ora di antiamericanismo ora di anticomunismo, eppure avidi di possedere le moto giapponesi da sfoggiare nelle strade dei bazar. Poi la gente che ha pagato per le guerre, i mutilati, i senza lavoro, i disperati, le donne vedove, la gente senza la minima risorsa, i profughi. Miscuglio sociale, di etnie, di situazioni dure, di ferocie, che non può portare simpatie né ai taliban né a chiunque altro» (Limes, Nel mondo di Bin Laden, pp. 57-61, ottobre 2001)
(4) «Con il 42% della popolazione, i pashtun sono il principale gruppo etnico del Paese, prevalentemente concentrato nelle province del sud, sudest e sudovest. I pashtun sono il maggiore gruppo etnico di lignaggio patriarcale del mondo, il loro numero si aggira intorno ai 42 milioni di persone divise principalmente tra Afghanistan e Pakistan. I tagiki,con il 27% della popolazione, sono il secondo gruppo etnico del Paese, predominante nel nord e nell’ovest. I tagiki parlano il dari, un dialetto del farsi e la loro storia e cultura sono indissolubilmente legati all’influenza persiana in Asia Centrale. A differenza dei pashtun, i tagiki mostrano una maggiore tendenza all’urbanizzazione, perché non hanno un’organizzazione tribale e sono conseguentemente meno restii ad aprirsi verso l’esterno. Altra etnia di area culturale persiana sono gli hazara, che rappresentano circa il 9% della popolazione e sono di confessione sciita. Gli hazara risiedono nelle province centrali del Paese, che per questo prendono il nome di Hazarajat. È proprio lo sciismo che ha portato gli hazara a subire la discriminazione e le violenze dei pashtun, sia durante il periodo monarchico, (in particolare sotto l’emiro di ferro Abdur Rahman) sia durante il regime talebano, che li considerava apostati ed eretici. Per quanto riguarda gli uzbeki, circa il 9% della popolazione, essi rappresentano invece la principale etnia di area culturale turca, accanto alla più esigua (3%) minoranza turcomanna. Gli uzbeki afghani sono sunniti e parlano in genere sia l’uzbeko che il dari, mentre le regioni dove essi si sono insediati sono quelle del nord del Paese, specie a ridosso del confine con il Turkmenistan. […] La provincia di Herat vanta le migliori strade del paese grazie alla fitta rete di interessi commerciali iraniani qui presenti, considerato che il valico frontaliero con l’Iran di Eslam Qal’eh è a soli 40 minuti di distanza. Herat in passato era un’importante satrapia dell’Impero Persiano, ed ancora oggi l’Iran investe pesantemente nella provincia anche perché rappresenta un ponte naturale per le risorse dell’Asia Centrale. Investendo ad Herat, infatti, l’Iran intende facilitare l’accesso al mare attraverso i propri porti per le risorse delle repubbliche centrasiatiche. In tale senso, Teheran mira a fare della provincia di Herat un corridoio commerciale in grado di veicolare le esportazioni dell’Asia Centrale verso i porti di Chabahar e Bandar-e-Abbas ponendosi così come valida alternativa al porto di Karachi e al Pakistan ed arginando l’influenza di Islamabad nel “Grande Iran”. L’influenza iraniana, specie ad Herat è notevolmente favorita dalla sua composizione etnica. La popolazione della provincia, infatti, stimata in oltre un milione e 700 mila abitanti, è in prevalenza costituita da farsiwan, ovvero tagiki di lingua persiana, seguiti da hazara e aimaq. La spessa matrice di interessi economici iraniani è una delle ragioni principali dietro alla buona condizione delle strade di Herat, relativamente al contesto nazionale. L’Iran è inoltre un importante fornitore di elettricità, fattore che fa di Herat la città meglio illuminata del Paese e che le ha guadagnato il nomignolo scherzoso di “Dubai d’Afghanistan”. Le merci che provengono dai valichi con l’Iran dimostrano anche, forse paradossalmente, come quel Paese rappresenti per Herat una sorta di “finestra sul mondo”. Ogni giorno, infatti, centinaia di camion giungono dall’Iran carichi di pneumatici giapponesi (Yokohama), prodotti elettronici asiatici provenienti dai porti franchi del Golfo, bombole di gas dal Turkmenistan, macchine usate europee (soprattutto tedesche) ed infine carburante iraniano, a pochi centesimi al litro in virtù degli elevati sussidi statali vigenti nel Paese degli Ayatollah» (Dinamiche etniche, tribali e politiche in Afghanistan, Centro Studi Internazionali, gennaio 2010). A sua volta l’etnia pashtun è divisa in tante tribù (almeno 60) e sotto-tribù tutt’altro che pacifiche. Tuttavia, sono due le tribù pashtun di gran lunga più importanti delle altre: quella dei Durrani (prevalente nel Sud e Sudovest del Paese) e quella dei Ghilzai (Sud ed Est). La competizione tra queste due tribù «dà vita a dinamiche conflittuali all’interno del mondo pashtun, che non fu mai politicamente unito fino al sorgere dell’impero Durrani nel 1747. Successivamente, per oltre due secoli e mezzo, i pashtun hanno dominato incontrastati la scena politica afghana, svolgendo un ruolo determinante nel “Grande Gioco” tra Russia zarista e Impero britannico. A complicare il contesto etnico afghano vi è però il fatto che la distribuzione dei pashtun sul territorio non è omogenea, ma comprende numerose enclavi nel nord e nel nordovest, retaggio delle politiche di “pashtunizzazione” praticate nel XVIII e XIX secolo dai sovrani Durrani, fondatori dello stato unitario afghano. Sono stati i pashtun a forgiare la moderna identità nazionale afghana e soprattutto sono stati loro a contaminarla con tratti della propria tradizione culturale. In un certo senso, la stessa esistenza del termine “afghano” è indissolubilmente legata alla fondazione dell’impero Durrani da parte di Ahmad Shah Durrani nel 1747. L’etnia pashtun è stata per secoli sfruttata prima dall’Impero britannico e poi dal Pakistan al fine di esercitare influenza in Afghanistan e contenere le rivendicazioni di Kabul nelle aree pashtun pakistane. Infine l’invasione sovietica del 1979 e il conseguente aumento del radicalismo islamico hanno dilaniato il tessuto sociale e l’ethos delle tribù» (ivi).
(5) «L’Afghanistan non è dunque mai stato uno Stato nazionale nel senso proprio del termine. Semmai, una confederazione tribale e multietnica in precario e instabile equilibrio ove le linee di divisione e le solidarietà etno-tribali e claniche hanno sempre giocato un ruolo decisivo nelle sorti del paese. […] I pashtun sono l’etnia maggioritaria del paese. Da sempre esprimono emiri, re, presidenti e primi ministri. […] Di fatto i pashtun, quale etnia egemone in Afghanistan, hanno sempre avuto interesse ad alimentare l’ambigua equazione che li assimila agli afghani tout court, al fine di occultare il peso degli altri gruppi etnici presenti nel paese» (Massimo Armellini, Limes).
(6) «La Cina ha regolarmente criticato la presenza statunitense e quella della Nato in Afghanistan, ma oggi si preoccupa per il precipitoso ritiro militare americano e per il rischio di destabilizzazione in un paese con cui ha una frontiera in comune, seppure lunga appena 76 chilometri e situata a oltre quattromila metri di altitudine. Il confine, però, collega l’Afghanistan alla provincia cinese dello Xinjiang, già al centro dell’attenzione per la “questione uigura”. La preoccupazione è aumentata il 14 luglio, con l’attentato che è costato la vita a nove ingegneri cinesi in viaggio a bordo di un bus nel nordest del Pakistan. Gli ingegneri stavano andando al cantiere del progetto idroelettrico di Dasu, costruito da un’azienda cinese nella provincia di Khyber Paktunkhwa, al confine con l’Afghanistan. L’attentato, che i pachistani hanno inizialmente cercato di far passare come la conseguenza di un malfunzionamento, non è stato rivendicato, ma gli analisti di Islamabad indicano due possibili “sospetti”: un gruppo armato del Belucistan pachistano (che già in passato ha attaccato gli interessi cinesi) o i taliban pachistani, jihadisti pashtun come i loro colleghi afgani. Le reazioni a Pechino sono state molto accese. Il quotidiano del Partito comunista Global Times, radicalmente nazionalista, ha chiesto rappresaglie: “La Cina deve agire per dimostrare alle forze antigovernative in Pakistan che nonostante la distanza di migliaia di chilometri chiunque compia attacchi terroristi contro i nostri compatrioti è destinato a pagare. Quali che siano gli autori degli attacchi contro il personale e i progetti cinesi, con le loro azioni si costituiscono come nemici della Cina. La Cina sosterrà fermamente gli sforzi del governo pachistano per sterminarli”» (Internazionale).
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