Ho visto neonati aprire gli occhi in un nuovo mondo (Dina).
La Tenda Rossa
La scorsa settimana ho visto La tenda rossa, una miniserie televisiva del 2014 diretta da Roger Young, basata sull’omonimo romanzo del 1997 (The Red Tent, Tlon ed.) scritto da Anita Diamant e ispirato alla storia biblica di Dina.
Il libro della Diamant, praticamente introvabile nelle librerie italiane, narra dunque la storia di Dina (Giudizio) tratta dal Libro della Genesi (34); ma lo fa dal punto di vista di Dina, figlia di Giacobbe (l’ingannatore, il viandante, figlio di Isacco e nipote di Abraamo) e di Lea (figlia di Labano, ricco proprietario di bestiame, e sorella di Rachele, la moglie prediletta di Giacobbe). Figlia, sposa, madre, levatrice assai abile e bellissima donna dallo spirito aperto e indomito: si tratta insomma di una Dina che ha poco a che fare con la figura proposta dalla Bibbia – e con quella che incontriamo nel bellissimo racconto di Thomas Mann Le Storie di Giacobbe (1933): «Allora fu generata Dina, il musetto senza grazia e grottesco: una bambina infelice» (1). La scrittrice inglese ha infatti rovesciato completamente il racconto biblico, facendo ad esempio di una storia di violenza sessuale («Sichem, figlio di Camor l’Ivveo, principe del paese [Canaan], la vide, la rapì e si unì a lei violentandola») (2) una storia d’amore: «Non potrei mai conciliare la storia di Genesi 34 con uno stupro perché il principe non si comporta come uno stupratore. Dopo che si dice che il principe l’abbia “costretta” (una determinazione fatta dai suoi fratelli, non da Dinah) (3), si innamora di lei, chiede a suo padre di ottenere il permesso di Jacob per sposarla, e poi accetta la straordinaria richiesta che lui e tutti gli uomini della sua comunità si sottomettano alla circoncisione» (4).
D’altra parte, la Diamant non fa mistero delle sue intenzioni letterarie e, come vedremo tra poco, ideologiche: «Ho scritto La Tenda Rossa come un romanzo, non come un capitolo in più della Bibbia». Anche perché muoversi in questa direzione non avrebbe avuto alcun senso, sarebbe stata una pessima operazione letteraria viziata da un anacronismo a dir poco volgare. Almeno così la vedo io. Non di teologia o di storia in senso stretto dunque si tratta, quanto piuttosto del desiderio di riscrivere la storia dal punto di vista della donna, e per questo forse possiamo parlare di un’operazione di stampo “femminista”. È la stessa scrittrice inglese che autorizza questa lettura: «Nelle ultime generazioni, il lavoro di teologhe e artiste femministe ha fornito una nuova lente e nuove prospettive. Grazie a loro e alle conversazioni che hanno generato, siamo consapevoli dei silenzi nella Bibbia – come il silenzio di Dinah. Ci interroghiamo sulle donne che sono menzionate solo di sfuggita e anche sull’esperienza appena accennata di donne che sono in primo piano – da Rebecca nella Bibbia ebraica, a Maria nella Bibbia cristiana. Oggi, un gran numero di donne – in tutte le tradizioni di fede – leggono la Bibbia con una maggiore sensibilità alla presenza e all’assenza dei personaggi femminili» (5). Non è qui il luogo per entrare nel merito di simili operazioni culturali dalla robusta impronta politico-ideologica – e questo a prescindere dalla coscienza di chi la promuove. «Le mie convinzioni e i miei valori – osserva ancora la scrittrice – sono certamente presenti in tutto ciò che scrivo. Come potrebbe essere altrimenti?» Già, come potrebbe essere altrimenti?
Pur rimanendo abbastanza fedele allo spirito (più che al testo) biblico, con Le storie di Giacobbe (e con quelle dedicate a Giuseppe,1934/1936) Thomas Mann è riuscito a realizzare un’opera letteraria di rara creatività artistica e di bellezza poetica. Anche nel suo caso è possibile cogliere un’intenzione politicamente (e ideologicamente) assai pregnante (6).
Sorellanza
Anche il rapporto tra le donne di Giacobbe (le figlie di Labano Lea e Rachele e le loro due serve Zilpa e Bila) appare completamente capovolto nel racconto che ne fa Diamant: alla rivalità e alla gelosia che traspare – e che comunque si intuisce – da alcuni passi biblici subentra una relazione di sorellanza che ha proprio nella Tenda Rossa il suo cuore pulsante. La Tenda Rossa è la tenda delle mestruazioni («Le solite ricorrenze delle donne», come dice Rachele al padre nel racconto biblico (7), il luogo delle donne, dei bambini e della nascita. Dentro quella tenda le donne si danno convegno per parlare liberamente tra loro, per raccontare sempre di nuovo «le scappatelle di gioventù, la storia interminabile dei loro parti. Ho visto neonati aprire gli occhi in un nuovo mondo. Ho avuto motivo di ridere e di provare gratitudine. Sono stata amata» (8). Un mondo patriarcale centrato sulla pastorizia nomade che ancora ha un ricordo vivissimo del passato matriarcale centrato sulla successione ereditaria in linea materna e dominato dalle divinità femminili. Lì dentro le donne di Giacobbe continuano a venerare di nascosto le primitive divinità disprezzate dal Padre-Marito-Padrone, per il quale «Dio è il Dio di Israele» e che una volta confessò l’inaudito: «Ho visto Dio faccia a faccia e la mia vita è stata risparmiata» (Genesi, 32/30).
«Cos’è quindi questa tenda rossa? È il luogo in cui le donne si ritrovano durante il ciclo della luna nuova, scambiandosi storie e segreti, ringraziando la dea per il rinnovamento del proprio corpo che permette così di poter generare una nuova vita, dove si compie il mistero del parto. È il luogo in cui le donne sono padrone in un mondo dove esse non sono altro che cose appartenenti al marito, un luogo inviolabile e precluso agli uomini, non tanto forse per la sacralità dei misteri femminili, quanto per l’impurità dovuta al sangue che sgorga durante il ciclo e il parto. Ma solo per l’uomo ciò è qualcosa di scabroso, per le donne è qualcosa di sacro, qualcosa da celebrare, da restituire alla Terra perché conceda nuovi frutti» (9).
Con amore partorirai i figli!
Ciò che più mi ha colpito del film citato sopra sono state le scene dedicate alla nascita dei bambini: la donna soggetta al “travaglio” viene assistita da altre numerose donne che la sostengono, che l’accarezzano amorevolmente, che le parlano dolcemente, che le sussurrano frasi che sorridono alla speranza, che le suggeriscono cosa fare, come muoversi. Il dolore del travaglio è tenuto sotto stretto controllo da un insieme di pratiche “manipolative” e discorsive informate da uno spirito di solidarietà femminile che definire commovente è ancora troppo poco. Il parto non è presentato come un mero problema sanitario, ma appare piuttosto come un fatto umano assai simile a una rappresentazione artistica e religiosa, una prassi posta in una dimensione a suo modo sacra che esibisce al centro della scena la madre “in travaglio” assistita dalle sue compagne. Il pianto del neonato non spezza l’incantesimo d’amore creato dalle donne, ma lo arricchisce piuttosto di una nuova presenza, di un nuovo anello del prezioso braccialetto chiamato vita in comune. Si viene alla luce confortati dal tepore dell’amore (10). Come si partorisce oggi, e come si viene alla luce? Ma forse la giusta domanda è: dove si viene al mondo?
Nell’amore lascerai i tuoi cari!
Ci fu un tempo in cui i vecchi («Si chiamano anziani!») occupavano una posizione privilegiata nella comunità, in quanto depositari di esperienza e di saggezza. Alcune comunità conobbero anche il Consiglio dei Saggi, cioè dei vecchi – pardon, degli anziani. La comunità (anche solo la famiglia allargata dei figli e dei nipoti) ne aveva cura come di creature tanto fragili quanto preziose. La tenerezza degli adulti abbracciava allo stesso modo i bambini e i vecchi, i quali non morivano mai in solitudine, ma sempre circondati dai loro cari: figli, nipoti, parenti, amici. E fino all’ultimo istante la catena degli affetti rimaneva ben salda (11). La stessa cosa accadeva agli ammalati, qualunque fosse la loro età.
Come vivono oggi i vecchi, e come muoiono? Estendo la domanda agli ammalati che sopraffatti dal dolore chiedono di poter morire in pace, come ultimo ed estremo tentativo di riacciuffare, anche per un solo istante, la vita ormai annichilita dalla malattia. Come mi piacerebbe rendere eterno quell’attimo fuggente! Ritornando alla domanda di cui sopra, forse anche essa andrebbe riformulata come segue: dove si muore e si soffre?
Un luogo confortevole (umano) dove nascere, vivere e morire
Per quanto mi riguarda quel dove rimanda a un luogo ben preciso, ossia alla Comunità degli uomini e delle donne. Per carità, nessuna nostalgia per un mondo che peraltro è esistito solo nel mito, nella fantasia e nella speranza degli uomini: la salvezza dell’umanità non sta, come sempre, nel passato, ma nel futuro. Nel presente sperimentiamo il dominio del Moloch chiamato Capitale. Beninteso si tratta di un futuro non cronologicamente considerato, ma inteso come possibilità tutta da realizzare, “da mettere a terra”, come si dice oggi, ossia da costruire poste precise condizioni – la prima delle quali è compendiabile nel concetto di rivoluzione sociale anticapitalista.
La vita degli esseri umani è stata sempre socialmente mediata, e in questa mediazione la natura ha avuto sempre, e aggiungerei ovviamente, un’importanza vitale, decisiva. Ma anche nella “nuda vita” è impossibile non osservare una robusta “componente sociale”, tracce profonde di ciò che è peculiarmente umano. E peculiare dell’uomo è, appunto, porre la mediazione tra sé e la natura, la quale non è né buona né cattiva ma indifferente alla passione degli esseri viventi: chiedere agli animali presenti nella catena alimentare dei carnivori (12). Come nascono, come muoiono, come amano, come lavorano, in una sola parola come vivono gli uomini e le donne: ebbene, tutto questo rimanda direttamente alle relazioni sociali che governano la loro esistenza nelle diverse epoche storiche. Nascere e morire costituiscono insomma due fondamentali questioni storico-sociali che poco o nulla a che fare hanno con “problematiche” astrattamente naturalistiche, antropologiche, psicologiche o di altro tipo. Si può nascere e morire nell’amore non perché gli esseri umani sono buoni per natura (anche perché essi non sono “per natura”, ma “per società”, natura compresa), ma perché si possono creare le condizioni per una loro vita autenticamente umana. Forse nella Tenda Rossa questa possibilità chiede a gran voce di venire alla luce, come i neonati di cui parla Dina, la levatrice.
(1) T. Mann, Le storie di Giacobbe, p. 294, Mondadori, 1980.
(2) Genesi, 34/2. «Poi egli rimase affezionato a Dina, figlia di Giacobbe; amò la giovane e parlò al cuore di lei. E disse a Camor suo padre: “Dammi questa ragazza in moglie”» (Genesi, 34/3/4).
(3) I fratelli di Dina si opporranno alla riconciliazione tra le due famiglie proposta da Camor a Giacobbe, il quale accettò l’allettante riparazione offerta dal principe in cambio della circoncisione di tutti i maschi della città di Sichem. «Nostra sorella dovrebbe forse essere trattata come una prostituta?» (Genesi, 34/31).
(4) A. Diamant, La tenda rossa – Domande frequenti.
(5) A. Diamant, La tenda rossa – Domande e risposte.
(6) Nella struttura del romanzo […] è il filo delle intuizioni freudiane che conduce thomas mann alle forme originarie del mito e del rito, lo tenta a interpretare le leggi dell’ubbidienza e della trasgressione all’autorità dei Padri e delle divinità così come dalle pagine della Bibbia servivano a modello ai problemi e ai conflitti che la nuova scienza della psicologia del profondo aveva spiegato e spiegava ad una società convinta di aver superato la barbarie delle civiltà primitive. Thomas mann ne vuole invece far risorgere l’arcaica tremenda umanità, regolata dai bisogni primordiali e dalle loro reazioni, … per strapparla appunto a quella nuova barbarie che sorgeva, come begli anni seguenti dirà, affermando che quel lavoro è stato il suo tentativo di strappare il mito al fascismo L. R. Santini, Introduzione a Le storie di Giacobbe, p. 10.
7 Genesi, 31/35. Scrive Anita Diamant: «Non ho trovato alcuna prova che le donne in questo periodo storico in quello che oggi è l’Iraq e Israele usassero una tenda mestruale. Tuttavia, le tende mestruali e le capanne sono una caratteristica comune nelle culture pre-moderne di tutto il mondo, dai nativi americani agli africani. La rappresentazione di ciò che è accaduto all’interno della tenda nel romanzo è interamente una mia creazione. La mia ricerca si è concentrata sulla vita quotidiana delle donne nel Vicino Oriente antico. Consultai molto poco le fonti rabbiniche e mi concentrai invece sul cibo, l’abbigliamento, l’organizzazione sociale, l’architettura e la medicina dell’epoca – circa 1500 a.C.» (La tenda rossa – Domande frequenti). La mia ricerca si è concentrata sulla vita quotidiana delle donne nel Vicino Oriente antico. Ho scoperto dettagli allettanti su quelle vite – ad esempio, il processo di filatura della lana era praticamente incessante per quanto potevo dire. C’erano fusi per l’uso mentre si camminava, il che suggerisce che le mani delle donne erano raramente, se non mai, inattive» (La tenda rossa – Domande e risposte).
(8) A. Diamant, La Tenda Rossa, Prologo, Tlon, 2019, PDF, p. 17. Ciò che conosco del libro è solo il Prologo che ho trovato su internet. «Come tutte le sorelle che vivono insieme e condividono un marito, mia madre e le zie intesserono una tenace ragnatela di lealtà e rancori. Si scambiavano segreti come fossero braccialetti, e li lasciarono a me, l’unica femmina sopravvissuta. Mi dicevano cose che ero troppo giovane per ascoltare. Mi prendevano il viso fra le mani, facendomi giurare che avrei ricordato. … Le figlie femmine alleviavano il fardello delle madri, aiutandole a filare la lana, a macinare il grano e ad assolvere il compito interminabile di accudire i bambini, che andavano sempre a far pipì negli angoli della tenda, per quanto si dicesse di non farlo. Ma l’altra ragione per cui le donne volevano figlie femmine era tenere in vita i loro ricordi» (16-17).
(9) Dal Blog di Nora castelli.
(10) Il parto di Rachele raccontato da Thomas Mann: «Piena di fede aveva aspettato sette anni insieme a Giacobbe poi per tredici anni, incomprensibilmente, era stata delusa. Ma ora che la natura le concedeva finalmente ciò che aveva agognato, lo faceva a un prezzo davvero orribile, quale Lia, Bilha e Silpa insieme non avevano dovuto pagare per l’onore di diventar madri. Trentasei ore, da mezzanotte a mezzogiorno e poi ancora un’intera notte fino al nuovo mezzogiorno, durò la terribile opera della natura. […] Poi i dolori assalirono la partoriente ogni volta in modo più atroce e più a lungo. […] Ella si vergognava e si affliggeva della propria incapacità. Quando le doglie l’assalivano e sembravano non volerla più lasciare, Rachele non gridava: stringeva i denti e lavorava in muta lealtà con tutte le sue forze. Non voleva spaventare il suo signore di cui conosceva il cuore tenero e che negli intervalli della spossatezza, con l’anima straziata, le baciava le mani e i piedi. Ma che cosa le giovava tanta lealtà? Non era accetta» (Le storie di Giacobbe, pp. 304-305). Da questo orribile travaglio nascerà il bellissimo e amatissimo Giuseppe. Peggio andranno le cose, per Rachele, quando partorirà il suo secondo figlio, Benjamin: «La vecchia [levatrice] dovette strapparlo a forza dal povero ventre, perché stava soffocando. Rachele, che non poteva più gridare, perdette i sensi. Molto sangue ruppe fuori, così che il polso della sua mano non si batteva quasi più ma era come un sottile rivolo, che si andava perdendo. […] Allora la morte passò sul suo volto, e lo spense» (340-341).
(11) Pare che in alcune comunità, e solo in tempi eccezionalmente calamitosi, i vecchi prendessero, in assoluta autonomia, senza costrizione alcuna che non derivasse dalle condizioni oggettive, l’iniziativa del suicidio collettivo, per offrire ai bambini e ai giovani una possibilità in più.
(12) Di qui la splendida utopia di Isaia (quello serio e meritevole d’attenzione): «E il lupo dimorerà con l’agnello, e il pardo giacerà col capretto; e il vitello, il leoncello e la bestia ingrassata staranno insieme, ed un piccol fanciullo li guiderà. E la vacca e l’orsa pasceranno insieme»(Isaia, 11/6). La Riconciliazione Universale, ossia l’umanizzazione della natura per mezzo di Dio: è ciò che promette «Il regno pacifico e prosperoso del Messia». E cosa promette il regno pacifico e prosperoso dell’Uomo?