Non è nel passato ma solo nell’avvenire che la
rivoluzione sociale del [XXI] secolo potrà trovare
la fonte della sua poesia. Non potrà iniziare da se
stessa prima di essersi liberata da ogni credenza
superstiziosa nel passato (K. Marx).
Leggo da qualche parte: «A differenza del fascismo, lo stalinismo non fu una controrivoluzione. Non riportò al comando la vecchia aristocrazia, ma plasmò una struttura socio-economica nuova creando una nuova élite economica, manageriale, scientifica e intellettuale reclutata in seno alle classi inferiori, inclusi i contadini. Questa è la chiave per comprendere il consenso di cui godette lo stalinismo, malgrado il terrore e le deportazioni di massa. Questa è anche la ragione che spiega l’autentico slancio che contraddistinse la resistenza russa contro l’invasione nazista durante la seconda guerra mondiale: operai e contadini difesero ciò che rimaneva della rivoluzione, un’economia senza capitalisti e proprietari terrieri. E lo fecero non a causa, ma nonostante il regime stalinista» (1). A mio avviso le cose stanno in modo affatto diverso.
Lo stalinismo (da molti considerato come un pilastro del cosiddetto «comunismo novecentesco») fu una controrivoluzione a tutti gli effetti se considerato dalla prospettiva della rivoluzione sociale anticapitalista in Russia e in Europa, mentre esso è da considerarsi come un fenomeno storicamente progressivo esclusivamente dal punto di vista capitalistico. Questa complessa dialettica storica ha contribuito a complicare non poco la lettura del fenomeno che chiamiamo, in modo assai riduttivo e che si presta ad equivoci “personalistici”, stalinismo, il quale fu, appunto, un fenomeno politico-sociale inspiegabile alla luce di una singolo personalità, per quanto geniale o “demoniaca”.
Se si vuol comprendere la matura dello stalinismo, occorre considerare la Rivoluzione d’Ottobre come parte del processo rivoluzionario apertosi in Europa con lo scoppio della Prima guerra imperialistica mondiale. Lenin sostenne sempre che «il proletariato russo, cosciente del suo isolamento rivoluzionario, vede chiaramente che condizione necessaria e presupposto fondamentale della sua vittoria è l’intervento unitario degli operai di tutto il mondo o di alcuni paesi avanzati dal punto di vista capitalistico. La rivoluzione russa è solo uno dei reparti dell’esercito socialista internazionale, dal cui intervento dipende il successo e il trionfo della rivoluzione da noi compiuta» (2). Se si separa la Rivoluzione d’Ottobre dal processo rivoluzionario sviluppatosi in Europa dopo il 1914, si fa di quella rivoluzione un mero atto volontaristico, dando di fatto ragione ai menscevichi e a Kautsky che accusarono Lenin di aver creduto prossima la rivoluzione in Occidente, e di aver forzato, sul fondamento di una concezione del mondo che rinnegava il “materialismo storico”, i tempi di una rivoluzione non ancora matura.
Che il reale significato storico della rivoluzione in Russia andasse ricercato soprattutto nel contesto sociale internazionale nel cui seno quel Paese si collocava, fu cosa che Rosa Luxemburg capì benissimo già a partire dalla “prova generale” del 1905: «La rivoluzione russa ha per obiettivo immediato l’abolizione dell’assolutismo e l’instaurazione d’un moderno Stato di diritto, borghese e parlamentare. Dal punto di vista formale, è esattamente lo stesso obiettivo che si proponeva in Germania la Rivoluzione di Marzo e in Francia la Grande Rivoluzione di fine Settecento. Ma le condizioni, l’atmosfera storica in cui queste rivoluzioni, formalmente analoghe, ebbero luogo, sono radicalmente diverse da quelle della Russia odierna. […] In Russia ne è risultata una situazione strana e irta di contraddizioni: la rivoluzione, borghese per i suoi obiettivi formali, è compiuta da un proletariato moderno dotato di coscienza di classe, in un contesto internazionale posto sotto il segno della decadenza della democrazia borghese. […] La rivoluzione odierna, dunque, pur nella particolare situazione dell’assolutismo russo, realizza i risultati universali dello sviluppo capitalistico internazionale, e più che un ultimo epigono delle vecchie rivoluzioni borghesi, appare come precursore della nuova serie delle rivoluzioni proletarie dell’Occidente. Proprio per aver imperdonabilmente ritardato la sua rivoluzione borghese, oggi il paese più arretrato addita vie e metodi dell’ulteriore lotta di classe al proletariato tedesco di Germania e ai paesi capitalisti più avanzati» (3). Lenin e Trotsky costruirono la loro strategia di «rivoluzione doppia» o «permanente» sul fondamento della dialettica storico-sociale colta con precisione dalla rivoluzionaria polacca: «Sia Lenin che Trockij erano pienamente convinti della necessità della rivoluzione europea per il trionfo finale del socialismo in Russia; a nessuno dei due in quel momento sarebbe passata per la testa l’idea che la rivoluzione socialista potesse trionfare in Russia senza lo scoppio della rivoluzione socialista in Europa » (4).
Lungi dall’essere stato la continuazione della Rivoluzione d’Ottobre con altri mezzi, in una congiuntura storica ormai mutata, come ebbe cura di tramandare anche il PCI gramsciano/togliattiano, lo stalinismo fu a tutti gli effetti una controrivoluzione antiproletaria di respiro internazionale. Solo se si acceda a questa consapevolezza è possibile comprendere, senza ricorrere alla fumisteria ideologica travestita da “dialettica materialistica”, come un soggetto politico che si proclamava essere il partito più rivoluzionario del mondo ha potuto teorizzare il “socialismo in un solo Paese” e le “vie nazionali al socialismo”, due parole d’ordine che dal punto di vista del comunismo marxiano non sono delle semplice eresie dottrinarie, ma in primo luogo delle assolute sciocchezze ultrareazionarie. Della «doppia rivoluzione» (borghese/proletaria) pensata da Lenin rimase in piedi solo il lato borghese, la prospettiva capitalistica, l’accumulazione del capitale a tappe accelerate fatta passare dai “teorici” del nuovo corso stalinista (molti dei quali furono fucilati nel periodo delle “grandi purghe”) come «accumulazione primitiva socialista»: sic!
Purtroppo la «condizione necessaria» e il «presupposto fondamentale» della vittoria del potere sovietico, ossia «l’intervento unitario degli operai di tutto il mondo o di alcuni paesi avanzati dal punto di vista capitalistico» non si realizzarono, e la «piccola isola, in mezzo al circostante mondo imperialistico» (Lenin) fu investita in pieno dalla controrivoluzione capitalistica interna e internazionale che alla fine spazzò via «questo isolotto» che aveva «mostrato quello che può fare la classe operaia». «Non v’è alcun dubbio che la vittoria finale della nostra rivoluzione, se questa rimanesse isolata, se non vi fosse un movimento rivoluzionario negli altri paesi, sarebbe una causa senza speranza» (5). Parole a dir poco profetiche. In realtà si trattava di una previsione del tutto scontata per un autentico anticapitalista, il quale agisce sempre avendo in mente il quadro internazionale dei rapporti di forza tra le classi.
«Il proletariato internazionale verrà, inevitabilmente verrà, ma avanza con un lentezza incredibilmente maggiore rispetto a ciò che noi attendavamo e volevamo» (6). Com’è noto, il proletariato internazionale non venne. Questo vuol forse dire che il menscevismo russo e internazionale ebbe ragione nel condannare come volontaristico e antimaterialistico il Grande Azzardo tentato dal Partito di Lenin? A mio avviso no, proprio perché la strategia leniniana della «doppia rivoluzione» si fondava anche e inscindibilmente sul terreno della lotta di classe internazionale – peraltro già Marx ed Engels avevano concepito l’idea che la rivoluzione russa poteva servire «da segnale a una rivoluzione operaia in Occidente, in modo che entrambe si completino (7).
Lo stalinismo rappresentò piuttosto la più radicale negazione del comunismo, e gli anticapitalisti del XXI secolo devono ancora fare i conti con quella che a tutti gli effetti può essere considerata come la più grande menzogna del XX secolo. Una menzogna che rappresenta un capitolo particolarmente odioso del metaforico Libro nero del capitalismo mondiale. Per questo non condivido la tesi trotskista della «degenerazione burocratica» del Partito bolscevico e del regime sovietico, il quale avrebbe comunque lasciato sostanzialmente in vita le conquiste sociali dell’Ottobre rivoluzionario, nonostante e contro la “cricca burocratica stalinista”. Affronto la questione della burocrazia (e oggi della tecnocrazia) come – supposta – nuova classe dominante in uno scritto intitolato Dialettica del dominio capitalistico. Lo stalinismo, dunque e in estrema sintesi, come espressione/strumento: 1) della controrivoluzione interna e internazionale dopo l’ondata rivoluzionaria del primo dopoguerra; 2) dell’accumulazione capitalistica a ritmi accelerati in Russia e 3) della continuità imperialistica della Russia (di qui anche la scelta di promuovere innanzitutto l’industria pesante, a detrimento dell’industria dei beni di consumo e dell’agricoltura). Altro che «comunismo novecentesco»!
Sulla mia interpretazione della sconfitta della Rivoluzione d’Ottobre rimando a Lo scoglio e il mare. Altri scritti sulla Rivoluzione d’Ottobre: Lenin e la profezia smenaviekhista; Il Grande Azzardo. Sul Capitalismo di Stato, che molti associano del tutto arbitrariamente al “socialismo”, rimando anche al post La relazione Capitale-Lavoro come rapporto di classe.
Quanto alla «resistenza russa contro l’invasione nazista durante la seconda guerra mondiale» faccio sommessamente notare che il Secondo macello imperialistico, definito “guerra di liberazione” dai vincenti, iniziò con l’alleanza tra la Germania nazista e l’Unione Sovietica stalinista (8), la quale passò dall’altra parte della barricata interimperialistica solo quando l’amico Adolf pensò bene, contro i consigli del Comando supremo dell’esercito tedesco, di rompere il patto di ferro con Baffone e di “spezzare le reni” una volta per tutte al Paese del falso socialismo. Difendendo il suolo della “Madre Russia” gli operai e i contadini non difesero «ciò che rimaneva della rivoluzione» (ossia nulla), ma l’imperialismo “sovietico”, esattamente come fecero purtroppo le classi subalterne degli altri Paesi coinvolti nel macello mondiale.
Chi oggi, nell’epoca del dominio mondiale e totalitario dei rapporti sociali capitalistici, si pone il problema di come costruire, o anche solo immaginare, una prospettiva autenticamente anticapitalista, sbaglia di grosso, a mio avviso, se continua a credere che il cosiddetto «comunismo novecentesco» (da Stalin a Mao e ai loro epigoni più o meno originali) avesse e abbia ancora a che fare, anche solo in minima parte, con l’autentico comunismo. Mi dispiace molto vedere delle persone umanamente e politicamente sensibili andare appresso a delle ideologie ultrareazionarie.
(1) F. Ciabatti, La rivoluzione oltre il comunismo novecentesco, Sinistrainrete.
(2) Lenin, Rapporto alla conferenza dei comitati di fabbrica del governatorato di mosca, 23 luglio 1918, Opere, XXVII, p. 508, Editori Riuniti, 1967.
(3) R. Luxemburg, Sciopero di massa, partito, sindacati, 1906, pp. 91-95, Newton Compton, 1977.
(4) E. H. Carr, La rivoluzione bolscevica. 1917-1923, p. 64, Einaudi, 1964.
(5) Lenin, Rapporto sulla guerra e sulla pace, 1918, Opere, XXVII, p. 80, Editori Riuniti, 1967
(6) Lenin, Rapporto sulla politica estera, maggio 1918, ibidem, pp. 344-345.
(7) K. Marx, F. Engels, Prefazione all’edizione russa del 1882 del Manifesto, Opere, VI, p. 663, Editori Riuniti, 1973.
(8) Come storico dello stalinismo Viktor Suvorov, ex ufficiale del controspionaggio militare sovietico il cui vero nome è Vladimir Rezun, lascia alquanto a desiderare. Concordo invece con lui quando scrive: «Curioso davvero: la Germania ha aggredito la Polonia, quindi la Germania ha iniziato e partecipato alla guerra europea e, di conseguenza, mondiale. L’Unione Sovietica ha fatto lo stesso, e nello stesso mese, però di lei non si dice che ha iniziato la guerra. E la sua partecipazione alla guerra mondiale viene calcolata soltanto a partire dal 22 giugno 1941. Perché?» (V. Suvorov, Stalin, Hitler. La rivoluzione bolscevica mondiale, Spirali, Milano, 2000). Già chissà perché. Azzardo una capziosa risposta sotto forma di domanda (retorica): non sarà perché la storia è scritta dai vincitori?
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