Dal punto di vista dell’anticapitalista non c’è nulla di più infondato e forviante del discorso incentrato sulla ricerca del Paese che aggredisce e del Paese che subisce l’aggressione, e questo apparve chiaro ai marxisti già allo scoppio della Grande Guerra, quando tutti i Paesi belligeranti sostenevano di difendersi dall’altrui aggressività: «La nostra è una guerra puramente difensiva». Oppure: «Noi combattiamo contro la barbarie per difendere la civiltà». Per i Francesi e gli inglesi la barbarie aveva allora il volto della Germania del Kaiser, e per quest’ultima la barbarie aveva il volto della Russia zarista. Gli alleati dell’una o dell’altra Potenza “aggredita” sul piano nazionale e “culturale” ne riprendevano i motivi propagandistici, adattandoli ai propri interessi nazionali. A questa logica ultrareazionaria i marxisti opposero il disfattismo rivoluzionario: «Trasformare la guerra imperialista in guerra civile!»
L’aggressore è insomma sempre l’altro, e anche quando un Paese prende per primo l’iniziativa e aggredisce un altro Paese, il suo governo sostiene di praticare una strategia di “difesa preventiva”: «Abbiamo sventato un proditorio attacco da parte del nemico». Altra variante: «Ci siamo visti nella necessità di difendere i nostri compatrioti che vivono come minoranza etnica in un Paese che ha deciso di spazzarli via. Lo abbiamo invaso per evitare un genocidio!» La politica nazista delle annessioni, magari ratificate da “liberi” plebisciti, seguiva questo “aureo” schema: «Dove vive un tedesco, lì arriva la responsabilità di Berlino nei suoi confronti».
La verità è che aggressori e aggrediti; grandi, medie e piccole nazioni sono parte di un’unica realtà sociale, di una sola società che oggi ha le dimensioni del mondo e che non cessa un solo istante di generare conflitti, violenze e diseguaglianze d’ogni tipo. La realtà distrugge continuamente l’illusione reazionaria della sovranità nazionale, e non spetta certo agli anticapitalisti sostenere quell’illusione, la quale è particolarmente velenosa se somministrata alle classi subalterne, che poi sono le vere vittime del Sistema Imperialista Mondiale sia in guerra che nella cosiddetta pace. Come insegna la storia, la guerra è la continuazione della “pace” con altri mezzi, e viceversa. «Il dominio di classe non è più capace di travestirsi con una uniforme nazionale; contro il proletariato i governi nazionali sono uniti» (K. Marx).
Grande o piccola che sia, la nazione è il carcere all’interno del quale i nullatenenti scontano la loro condanna: questo carcere va distrutto, non difeso, ed è per questo che la lotta contro lo spirito nazionalista che avvelena i proletari rappresenta, oggi più che mai, il cuore pulsante dell’iniziativa anticapitalista. L’uniforme nazionale di cui parlava il comunista tedesco va presa di mira tutte le volte che se ne presenta l’occasione. Le classi subalterne rimangono nella cattiva condizione di vittime predestinate del Dominio fin tanto che non scoprono l’altra faccia della medaglia: esse possono diventare una potenza sociale rivoluzionaria in grado di ribaltare radicalmente la situazione. Anche solo pensare questa eccezionale possibilità rappresenta oggi un atto rivoluzionario a dir poco incredibile.
Post Scriptum
In questo come in altri post di analogo argomento, volutamente sono rimasto sul terreno del generale e perfino del generico, nel tentativo di offrire ai lettori un inquadramento “teorico” dei problemi posti da una crisi internazionale concreta – la quale va sempre considerata in primo luogo nei suoi presupposti e nelle sue conseguenze propriamente sociali. D’altra parte, quotidiani, settimanali e mensili sono pieni di ottime e intelligenti analisi geopolitiche e storiche che aiutano a comprendere la dinamica del conflitto in corso. Il problema, per chi scrive, è come inquadrare politicamente questa dinamica, e farlo ovviamente dal punto di vista antimperialista: di qui il mio modesto contributo.
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