La guerra è uno strumento della politica (K. V. Clausewitz).
Ieri il macellaio di Mosca ha dichiarato che le sanzioni economiche decise dal “fronte occidentale” contro la Federazione Russa equivalgono a una dichiarazione di guerra: nulla di più vero! Siamo in guerra, solo che in Russia chi parla di guerra o, peggio ancora, di invasione dell’Ucraina rischia parecchi anni di carcere – e le galere russe fanno apparire quelle italiane, già schifosissime, degli alberghi di lusso! E certo fa ridere il ministro degli esteri russo Sergei Lavrov quando accusa il Presidente ucraino Zelinsky di esibire una «frenesia militarista». D’altra parte ci si può aspettare qualcosa di diverso da un esponente di un regime che chiama «operazione di pace» una guerra di aggressione che ha come sue vittime privilegiate i civili? Quanto a “operazioni di pace” e a “guerre umanitarie”, poi, i Paesi dell’Unione Europea e della Nato possono dare lezioni a tutti.
In una guerra si spara quel che si ha a disposizione: proiettili, missili, menzogne, sanzioni economiche, trattative diplomatiche. Si tratta di arrecare al nemico il maggiore danno possibile rischiando il meno possibile in termini economici e “umani” – il fronte interno spesso è decisivo, ed è per questo che da sempre la guerra è una questione di tempo: vince chi rimane in piedi un secondo in più dell’avversario, in attesa appunto che il fronte interno diventi per il nemico un fattore di debolezza: la Germania del 1918 ne sa qualcosa, e ne sanno qualcosa gli Stati Uniti al tempo della guerra in Vietnam e i l’Unione Sovietica al tempo della guerra in Afghanistan. Beninteso, anche in Europa è fatto divieto di parlare di guerra contro la Russia da parte dei “liberi e democratici” Paesi che compongono il “fronte occidentale”, «la parte giusta della storia». Piuttosto «è la Russia di Putin che ha dichiarato guerra all’Ucraina e al mondo libero e democratico»: di qui la menzognera definizione di “guerra di Putin”. In realtà si tratta di una guerra che nasce sul terreno del processo sociale capitalistico considerato nella sua complessa e contraddittoria totalità, la quale ovviamente contiene anche il momento storico e geopolitico. Per questo nei miei post dedicati a questa guerra ho sostenuto che la ricerca delle ragioni e dei torti non ha alcun senso se riguardata dalla prospettiva dell’anticapitalismo: si tratterebbe in ogni caso di ragioni e di torti che hanno una natura radicalmente disumana. Per l’anticapitalista la ragione sta solamente e sempre dalla parte della vita contro la morte, della libertà contro l’oppressione politica e sociale; dalla parte dell’emancipazione delle classi subalterne e di una Comunità autenticamente umana tutta da costruire. Di qui ne discendono iniziative politiche intese a opporsi in tutti i modi possibili (a cominciare dallo sciopero generale permanente) alla macchina bellica e ai sacrifici economici e politici che essa impone alla popolazione in generale, e alle classi subalterne in particolare.
In un conflitto armato molto spesso chi usa per primo lo strumento militare per espandersi o per impedire l’espansione del nemico non mostra forza ma debolezza. Non sempre l’uso della forza manifesta potenza, tutt’altro. La Germania, ad esempio, ha vinto la Guerra Fredda, molto più degli Stati Uniti, senza sparare un solo colpo di cannone ma anzi praticando una politica estera “pacifista”, mentre l’Unione Sovietica, forte militarmente e avvezza alla violenza imperialista, quella guerra l’ha perduta in maniera a dir poco disonorevole, e questo a causa della debolezza strutturale del suo capitalismo. Questa dialettica è a mio avviso uno dei fattori più importanti che spiegano l’intervento militare russo in Ucraina. Più che i missili nucleari targati Nato installati alle sue frontiere o nel suo “estero vicino” (o “cortile di casa”), la Russia di Putin teme la forza di attrazione che il sistema capitalistico occidentale esercita non solo in tutta la sfera di influenza ex sovietica, ma nel cuore stesso dell’Impero, a cominciare da Mosca e Pietroburgo. Il problema, per il regime putiniano, è che per alimentare il secondo esercito del mondo dopo quello statunitense (la Cina sta facendo passi da gigante su questo terreno) occorrono risorse economiche che il Paese non ha, impantanato com’è in una struttura economica in larga parte dipendente dall’esportazione di materie prime che vengono trasformate in merci più sofisticate e “valorizzate” nei Paesi capitalisticamente più avanzati. Si tratta di una struttura economica ampiamente inefficiente che consente l’espandersi di un’ampia area di corruzione che esercita una considerevole influenza anche sull’assetto politico-istituzionale della Russia. La storia della genesi dell’oligarchia russa negli anni Novanta del secolo scorso e della sua relazione con il regime putiniano negli ultimi venti anni (con tanto di “oligarchi” incarcerati, esiliati e uccisi) è a questo proposito illuminante.
Giustamente Vito Mancuso sostiene che la pace non è l’opposto della guerra ma piuttosto il suo superamento, e che quindi a volte la guerra si dà come male necessario per realizzare la pace quando viene messa in questione la “convivenza civile”. Di qui ne discende, secondo Mancuso e diversamente da chi scrive, la necessità di armare gli ucraini: «Credo occorra ascoltare il loro appello e non lasciarli soli, condivido la posizione dell’Ue e del governo» (La Stampa). La filosofa Donatella Di Cesare la pensa invece in modo – apparentemente – opposto: «Se fosse vivo Immanuel Kant farebbe fatica a riconoscere la sua Europa. E stenterebbe a credere che ci sia chi, persino tra leader politici e capi di governo, indica nella pace un’illusione passata di moda e vede nella guerra l’unico mezzo per fermare la guerra. Altre armi per fermare le armi. Non si può continuare a ritenere la guerra un rimedio ineluttabile, un farmaco più o meno amaro; perché in questa logica il rischio è che si vada delineando la «pace dei morti», il grande cimitero europeo. […] Dov’è finita la politica, che avalla la guerra per procura? E perché tace? Dov’è l’Unione europea, che avrebbe dovuto essere protagonista dei negoziati? Negoziati, intermediari, diplomazia – non possiamo accettare la sconfitta della parola. Perché vorrebbe dire accreditare la fine della politica» (La Stampa). Ma nient’affatto: la politica, colta nella sua autentica accezione storica e sociale (non banalmente ideologica), ha come suo fondamento l’antagonismo sociale: antagonismo tra le classi, antagonismo tra le aziende in concorrenza, antagonismo tra le nazioni, antagonismo tra le Potenze imperialistiche. La politica è la continuazione della guerra sistemica capitalistica: guerra economica, tecnologica, scientifica, geopolitica, ideologica. Non ha alcun senso storico e logico contrapporre la politica al conflitto armato, che sono appunto le due facce di una stessa – disumana – medaglia. D’altra parte non ci si può attendere altro da chi guarda con occhio di riguardo e di simpatia all’Unione Europea, ossia al polo imperialista che si sforza di raggiungere una massa critica in grado di non rimanere schiacciata nella competizione interimperialista mondiale tra Stati Uniti, Cina e Russia.
Sia Mancuso che la Di Cesare, facce della stessa medaglia, non sfiorano nemmeno la radice del problema, ossia la natura sociale delle guerre moderne, compresa quella odierna. Si tratta, come già detto, di una natura squisitamente capitalistica, e questo fa del conflitto armato nient’altro che la continuazione della “pace” capitalistica con altri mezzi, in attesa che si creino le condizioni per una nuova “pace”, per un nuovo equilibrio di forza tra le Potenze. «La pace non è l’opposto della guerra ma piuttosto il suo superamento»: come superare dunque la guerra? come mettere davvero la guerra «fuori dalla storia»? A mio avviso non c’è che un solo modo: superare le cause sociali della guerra, tutte riconducibili, più o meno direttamente, al rapporto sociale capitalistico che oggi domina il mondo intero. È la società capitalistica che dobbiamo mettere fuori della storia; è la storia delle società classiste che l’umanità deve superare per farla finita con la dimensione del dominio e dello sfruttamento (degli uomini e della natura) e scrivere una nuova storia, una storia centrata su un’umanità finalmente in grado di padroneggiare con la testa e con le mani la sua intera esistenza, mentre ancora oggi veniamo dominati, marxianamente parlando, da potenze sociali che pure creiamo noi stessi con il nostro lavoro, con le nostre relazioni, con la nostra stessa vita – infatti viviamo di merci, con tutto quello che questo “semplice” fatto presuppone e pone sempre di nuovo in ogni aspetto fondamentale della nostra esistenza.
Posta questa società, la guerra è davvero ineluttabile: non lo dico io, non lo sostiene un pensiero particolarmente cinico e cattivo: lo grida in faccia al mondo la realtà anno dopo anno, decennio dopo decennio, polverizzando ogni pia illusione di stampo genericamente pacifista. Cinica e cattiva è la realtà. Di qui la necessità della guerra di classe anticapitalista: in questo senso per me «La pace non è l’opposto della guerra ma il suo superamento». Se vuoi la pace, prepara la rivoluzione sociale!
Leggi: PER UN ANTIMPERIALISMO ATTIVO E INTRANSIGENTE. ALTRO CHE “NEUTRALITÀ ATTIVA”!; TROTSKY E LA NARRAZIONE DEL MACELLAIO DI MOSCA; UCRAINA. SHARING THE SHAME; ALCUNE RIFLESSIONI SULLA GUERRA IN CORSO IN EUROPA; L’UCRAINA DI LENIN; TANTO TUONÒ…; FATTI COMPIUTI E “TRATTATIVE DI PACE”; AGGRESSORI E AGGREDITI…; E IL PACIFISMO? NON PERVENUTO!; DEI TORTI E DELLE RAGIONI. MA DI CHI?; TRASFORMARE LA PREPARAZIONE DEL CONFLITTO ARMATO IN CONFLITTO SOCIALE GENERALIZZATO!; L’IMPERIALISMO VIENE DA OVEST E DA EST; IL CAPITALISMO COSTRUISCE LA GUERRA NEL CUORE DELLA SUA “PACE”; PENSARE LA RIVOLUZIONE OLTRE LE IDEOLOGIE NOVECENTESCHE; LA SINDROME DI MONACO; ESSERE VLADIMIR PUTIN; L’IMPERIALISMO ENERGETICO DELLA RUSSIA
Anna Zafesova (La Stampa):
Volodymyr Zelensky parla di 10 mila soldati russi uccisi, un’enormità (in dieci anni di invasione dell’Afghanistan le perdite ufficiali dell’Armata Rossa non hanno superato i 15 mila uomini), il ministero della Difesa russo ha ammesso due giorni fa 498 caduti, le Ong che monitorano la stampa russa (posta sotto censura) stimano i caduti menzionati nei media in un migliaio.
Molti vengono dalla Buriazia, una repubblica della Federazione Russa che dista circa 6500 chilometri da Kiev, al confine con la Mongolia: almeno otto militari, quasi tutti della 11sima brigata speciale d’assalto, sono morti e numerosi altri sono stati catturati. Le liste dei militari uccisi o catturati pubblicate dagli ucraini non sono accessibili in Russia, e spesso le famiglie e gli amici vengono a sapere loro notizie solo quando Kiev pubblica i video dei prigionieri.
Ma chi ha avuto modo di leggerle, come il capo del team d’indagine giornalistica Bellingcat Christo Grozev, ha notato una notevole quantità di cognomi non slavi. Potrebbe ovviamente trattarsi di una coincidenza, ma la quota di soldati catturati o uccisi che non hanno cognomi russi sembra sproporzionata.
Come Rafik Rakhmankulov, un carrista catturato dopo essere stato abbandonato insieme al suo carro rimasto a secco, che ora sua madre Natalia cerca di recuperare dall’Ucraina. Come Nurmagomed Gadzhimagomedov, del Daghestan, Konstantin Mandzhiev, della Calmucchia, e Ilnur Sibgatullin, del Tatarstan, o Viktor Isaikin, della Mordovia, commemorati ufficialmente dai capi delle loro regioni.
Esperti militari ucraini avevano notato che già nel 2014 Mosca cercava di inviare nel Donbass soldati delle minoranze etniche della Russia, preferibilmente di religione musulmana. Il motivo è la parentela, linguistica, culturale, ma spesso anche di sangue tra russi e ucraini: nella parte europea della Russia è difficile trovare qualcuno che non abbia familiari dall’altra parte del confine, e comunque sparare a persone che parlano la stessa lingua può sembrare più faticoso.
La frase di Putin che si è vantato, due giorni fa, di essere «daghestano e ceceno, inguscio e tataro, ebreo, mordvino e osseto», suona inquietante in questo contesto. Anche perché i ragazzi benestanti delle grandi città russe evitano la caserma, o iscrivendosi all’università, o pagando mazzette. Ad andare al fronte, dice Grozev, sono i figli delle province più remote e povere, di famiglie disagiate e poco istruite.
Il politologo Abbas Galyamov scrive di fare fatica a credere a un livello di cinismo che scelga la carne da cannone per etnia, ma ammette che «un piano del genere potrebbe essere efficace: un morto in un villaggio sperduto della Yakuzia farebbe diventare nera di dolore la madre, farebbe ubriacare ai funerali i compaesani, e poi?».
Molte famiglie non avrebbero il coraggio e gli strumenti per protestare, a volte nemmeno per scrivere un post di denuncia.
Dal fronte interno russo
Corriere della Sera:
C’è una Russia che si ostina – nonostante arresti di bambini e ottuagenari, e leggi sui media sempre più dure – a manifestare contro la guerra e Putin. Come ogni giorno da che il presidente Putin ha annunciato l’ingresso militare in Ucraina, in decine di città russe è stata una domenica di proteste. Solo ieri si sono contati 4.468 arresti in 56 città, di cui alcuni con la violenza; dal 24 febbraio, giorno dell’invasione, gli arresti sono stati 13.053, in 121 città di tutto il Paese, da San Pietroburgo a Novosibirsk. … Chi ha chat che contengano termini come «attacco», «invasione» o «guerra», viene trattenuto. Le parole bandite sono le stesse della nuova legge sulla stampa, annunciata il 26 febbraio e approvata venerdì dalla Duma: fino a 15 anni di carcere per i giornalisti che le usano, anziché «operazione difensiva». Tra gli arrestati di ieri ci sono anche 13 giornalisti. … Da sabato anche Facebook e Twitter sono bloccati.
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