La guerra economica (finanziaria, mercantile) tra la Russia e il cosiddetto Occidente non rappresenta affatto «una guerra nella guerra», come spesso mi è capitato di leggere e ascoltare; essa va piuttosto considerata a tutti gli effetti parte organica e importante del conflitto interimperialista che ha nell’uso dello strumento militare la sua manifestazione più cruenta e rivelatrice. Rivelatrice della natura sociale di quel conflitto.
Come mi è capitato di scrivere spesso ultimamente, il concetto di imperialismo rinvia in primo luogo al carattere necessariamente aggressivo ed espansivo del rapporto sociale capitalistico, il quale per sostenersi deve abbattere ogni genere di barriera, deve assoggettare alle sue imperiose esigenze l’intero spazio esistenziale degli individui. Il Capitale non si espande solo fisicamente, geograficamente, ma anche, appunto, esistenzialmente; esso deve cioè conquistare non solo il corpo sociale, che nel XXI secolo ha le dimensioni del mondo, ma anche il corpo (colto nella sua inscindibile unità “psicofisica”) degli individui, deve trasformarlo in una inesauribile risorsa economica – di qui l’odioso, ma quanto sintomatico, concetto di “capitale umano”. La tecnoscienza rappresenta per il Capitale lo strumento di gran lunga più importante posto al servizio di questa disumana espansione; oltre a essere essa stessa capitale all’ennesima potenza. Con l’impiego sempre più diffuso e massiccio della tecnoscienza nel processo produttivo nasce il moderno capitalismo, con il marxiano passaggio dalla sottomissione solo formale del lavoro al capitale, a quella reale – o totale, com’è più corretto scrivere parlando del capitalismo dei nostri tempi, il quale fa infatti valere le ragioni del Capitale in modo sempre più totalitario, concetto che va riferito alla doppia espansione (fisica ed esistenziale) cui accennavo prima.
Com’è noto, John Atkinson Hobson, forse il maggiore teorico dell’imperialismo di inizio Novecento, nel suo celebre saggio del 1902 spiegò la politica imperialista degli Stati, a cominciare da quello britannico, con il gigantismo delle imprese capitalistiche monopolistiche e con il ruolo sempre più decisivo che il capitale finanziario veniva conquistando nella direzione dell’industria e del commercio. «Il fattore economico di gran lunga più importante per spiegare l’imperialismo riguarda gli investimenti. Il crescente cosmopolitismo del capitalismo è stato il principale cambiamento degli ultimi decenni. Ogni nazione industrialmente avanzata ha puntato a collocare una parte sempre maggiore dei suoi capitali al di fuori della sua area politica, in paesi stranieri, o nelle colonie, e a ricavare un reddito crescente da questa fonte» (1). Quel «crescente cosmopolitismo» capitalistico inevitabilmente investì anche la sfera politico-istituzionale, chiamata a supportare anche diplomaticamente e militarmente la conquista di nuovi mercati (di capitali, di merci e di manodopera a basso e bassissimo prezzo) e nuove fonti di materie prime fossili e agricole. La compenetrazione di interessi economici e strategie geopolitiche rappresenta la quintessenza del fenomeno sociale che chiamiamo imperialismo.
Sbaglia quindi grossolanamente, o esibisce una concezione assai riduttiva e superficiale di quel fenomeno, chi attribuisce all’imperialismo un carattere esclusivamente o fondamentalmente militare. I filooccidentali oggi parlano molto di «imperialismo russo», ma nulla dicono sull’imperialismo statunitense ed europeo, la cui esistenza essi negano affettando sdegno e superiorità politica: «Si tratta di accuse viziate da un vecchio pregiudizio ideologico». I sostenitori del cosiddetto Occidente libero e democratico vedono solo l’imperialismo degli altri; la stessa cosa, beninteso, fanno i sostenitori della Russia e della Cina, il cui antiamericanismo non ha nulla a che fare con una posizione autenticamente antimperialista.
A mio avviso commette un errore concettuale e politico altrettanto grave, e speculare a quello appena menzionato, chi ritiene che un Paese capitalisticamente molto forte, e quindi pienamente imperialista nell’accezione qui abbozzata, non avrebbe bisogno di ricorrere allo strumento militare per espandere la propria potenza sistemica (economica, tecnologica, scientifica, ideologica, “ibrida”), e che quando lo fa, perché puntualmente lo fa, la responsabilità andrebbe ricercata nei vertici dello Stato, il quale cadrebbe periodicamente vittima di forze ideologicamente maligne e politicamente malintenzionate: nulla di più risibile. «Dove passano le merci non passano gli eserciti»: che sciocchezza! Una sciocchezza in generale, storicamente parlando, e in particolare nell’epoca imperialistica del capitalismo. Non solo la potenza economica non esclude la potenza militare, ma le due cose stanno necessariamente insieme, si presuppongono e corrispondono vicendevolmente, proprio in grazia della natura sociale dell’imperialismo. Tra l’altro la stessa genesi del capitalismo testimonia del massiccio uso della brutale violenza statale nello sforzo di irrobustire ed espandere il rapporto sociale capitalistico attraverso la creazione di eserciti di nullatenenti che per vivere erano costretti a vendere una qualche capacità lavorativa. Quella che Marx chiamò «accumulazione originaria del capitale» non fu certo un pranzo di gala. Violenza economica e violenza politica (inclusa quella specificamente poliziesca e militare) accompagnano da sempre il dominio capitalistico, e solo gli indigenti in materia di comprensione dei fatti economici storicamente considerati possono contrapporre ideologicamente il liberismo allo statalismo.
Nella divisione internazionale dello sfruttamento capitalistico del lavoro la Russia occupa ancora oggi il ruolo di Paese esportatore di materie prime (come del resto l’Ucraina ) (2), cosa che non la colloca di certo al vertice dell’imperialismo mondiale. Ciò non toglie che la Russia sia a tutti gli effetti un Paese pienamente imperialista, e non semplicemente imperiale, visto che essa si serve ampiamente dello strumento militare per espandere la propria sfera di influenza ben oltre il suo “estero vicino”. Mosca si serve di metodi violenti per acquisire ricchezza materiale e influenza politica, e questo è più che sufficiente per qualificare la Russia come Paese imperialista, sebbene di rango minore rispetto agli Stati Uniti, alla Cina e all’Unione Europea – qui presa in blocco per semplicità di ragionamento. La Russia fa dunque parte a pieno titolo del campo imperialista – o Imperialismo unitario, come più spesso mi capita di definire la dimensione della competizione capitalistica mondiale che ha come sua principale vittima i senza riserve (i proletari, i salariati) di tutto il mondo. Il campo antimperialista, che dovrebbe raccogliere quantomeno la parte politicamente più avanzata delle classi subalterne, oggi appare tragicamente impotente.
La Russia faceva parte del campo imperialista anche nella sua precedente versione sovietica – “socialista” solo per gli stalinisti e per i nemici dichiarati (tanto di cappello!) del socialismo e del comunismo: due facce della stessa escrementizia medaglia. L’unione sovietica diede corpo a uno sfruttamento particolarmente intenso, di tipo semicoloniale, dei Paesi che durante la Seconda guerra mondiale caddero nella sua “zona di influenza”, e questo si ripercosse immediatamente sulle condizioni di vita e di lavoro del proletariato della Germania dell’Est, della Polonia, dell’Ungheria, della Cecoslovacchia, che infatti diedero periodiche dimostrazioni di insofferenza – puntualmente represse violentemente dallo Stato “socialista”.
A suo tempo anche la Cina di Mao ebbe modo di assaggiare la politica imperialista praticata dall’Unione Sovietica in tutta l’area del cosiddetto “Terzo mondo”, amara esperienza che la portò ad avvicinarsi progressivamente agli Stati Uniti d’America proprio in chiave antisovietica – con relativo sciame propagandistico “antirevisionista” che molto piacque all’intellighentia occidentale di sinistra ormai stufa della grigia ortodossia stalinista: da un’illusione ideologica all’altra!
Lo sfruttamento imperialistico statunitense nella “zona di influenza” americana, ossia centrata su un Paese che stava al vertice della piramide capitalistica mondiale, venne ovviamente attuato con criteri adeguati a un’area del mondo capitalisticamente già molto avanzata. Questo solo per dire che lo sfruttamento imperialistico dei Paesi non si dà sempre e dappertutto allo stesso modo.
La politica imperialista di Putin si spiega in primo luogo con le aspirazioni – o velleità – imperialistiche della Russia, più che con gli interessi immediati di questo Paese. Come ho scritto altrove, storicamente le aspirazioni russe sono sempre state sovradimensionate rispetto alle reali capacità “strutturali” della Russia. Chi punta i riflettori esclusivamente sulle responsabilità del cosiddetto Occidente nella genesi del conflitto in corso commette a mio avviso un grave errore di prospettiva, la cui radice va cercata sul terreno dell’ideologia, che non gli consente di comprendere le dinamiche interne alla società russa. La Russia non reagisce solo alle sollecitazioni che le vengono dall’esterno (soprattutto dal cattivo e minaccioso Occidente, secondo la vulgata propagandistica putiniana centrata sul vittimismo del perdente), ma si muove sul piano della politica interna e internazionale per rispondere a interessi, di natura prevalentemente economica e politica, che hanno le loro profonde e robuste radici nella società russa colta nella sua dinamica storica e nel suo rapporto con il resto del mondo. Questo ragionamento è tanto più valido, a mio avviso, nel momento in cui l’Occidente ha ormai perso la sua vecchia centralità negli equilibri tra le Potenze mondiali: alludo ovviamente all’ascesa sulla verticale del Potere globale di Paesi come la Cina e l’India. Molte iniziative politiche degli Stati Uniti si spiegano anche alla luce di questo nuovo scenario, come una loro reazione a spinte che tendono a collocarli in una posizione che essi certamente non accetteranno senza tentare di rovesciare, o comunque frenare e dilazionar, le ostili tendenze “antiamericane”. Nessuna Potenza mondiale abbandona il proprio primato (anche regionale, come nel caso della Russia) senza dare battaglia per conservarlo. L’imperialismo è unitario (non unico, come teorizzava Karl Kautsky) in questo preciso senso, e ciò nel senso che mille fili collegano tra loro tutti i Paesi del mondo, grandi e piccoli che siano, e come nel celebre esempio della farfalla che svolazza libera e felice in una foresta causando conseguenze a molti chilometri di distanza, ciò che avviene in uno di essi, soprattutto se si tratta dei Paesi più grandi, spesso si ripercuote in molti altri. La cosiddetta catena internazionale del valore, che vede molti Paesi impegnati nella produzione di un singolo “bene o servizio”, si presta bene sia come esempio che come metafora.
Per me «c’è un aggressore e un aggredito» nella guerra calda che – per adesso – ha come suo teatro l’Ucraina? Per me c’è un sistema sociale che ha una dimensione mondiale e che crea necessariamente il conflitto armato. Il mio nemico è questo sistema. L’aggressore è per me il rapporto sociale capitalistico di dominio e di sfruttamento; l’aggredita è l’umanità in generale (donne, uomini, bambini, vecchi) e la massa dei nullatenenti in particolare. Il Capitale aggredisce l’umanità e la natura perché, come già detto, ha un carattere spiccatamente aggressivo, competitivo, espansivo, in una sola parola: imperialista.
Parlare astrattamente di aggressori e aggrediti, senza in primo luogo denunciare il carattere sociale di questo conflitto, significa ragionare mettendosi dal punto di vista delle classi dominanti, degli Stati, delle nazioni, delle patrie, delle Potenze, ossia dal punto di vista del dominio sociale capitalistico. E quando parlo di Stati, nazioni e patrie mi riferisco anche all’Ucraina, Paese che come gli altri Paesi di piccola/media taglia capitalistica è costretta a stare da una parte o dall’altra degli schieramenti interimperialistici. Parlare di «autodecisione delle nazioni e dei popoli» o di «neutralità» significa ingannare la gente. Le vittime di questo conflitto vanno dunque attribuite tanto all’imperialismo russo quanto al nazionalismo ucraino e, più in generale, all’imperialismo unitario così ben rappresentato dalle macellerie belliche che con cinica regolarità si aprono e chiudono in tutto il mondo.
Slavoj Žižek è tra i non pochi intellettuali di sinistra che tradiscono una certa nostalgia per la “vecchia e cara” Guerra Fredda: «Dov’ è oggi la saggezza dimostrata da Kennedy e Chrušcëv all’epoca della crisi cubana? Il 5 marzo Putin ha definito “equivalenti a una dichiarazione di guerra” le sanzioni promulgate contro la Russia e che avrebbe considerato belligeranti le nazioni occidentali che imponessero l’interdizione al volo sull’Ucraina». Qui a mio avviso il macellaio di Mosca si limita a prendere atto di un fatto: le sanzioni economiche sono un atto di guerra, come lo è l’interdizione al volo ai danni di un Paese (la Russia) imposta da altri Paesi. In ogni caso faccio sommessamente notare che «la saggezza dimostrata da Kennedy e Chrušcëv» si esercitava nella dimensione imperialista contrassegnata dalla politica delle «sfere di influenza».
Ma riprendiamo la citazione: «Dobbiamo leggere queste affermazioni nel contesto di quel che Putin ha più volte ripetuto nei giorni precedenti: gli scambi economici con l’Occidente debbono procedere secondo il solito; la Russia manterrà gli impegni e continuerà a vendere gas agli europei… La morale è che la Russia non sta tornando alla cara vecchia Guerra Fredda [eccola!], con le sue regole consolidate: durante la Guerra Fredda i rapporti internazionali erano chiaramente normati, grazie allo spettro della “Mad” (Mutually Assured Destruction) delle due superpotenze. Quando l’Urss invase l’Afghanistan, violando così quelle regole non scritte, pagò cara l’infrazione: la guerra in Afghanistan fu l’inizio della sua fine. No, la “Mad” è ormai alle spalle. Superpotenze vecchie e nuove si mettono oggi reciprocamente alla prova: tentano di imporre la propria versione delle regole globali, applicandole per procura su nazioni e Stati più piccoli. La Russia prova a dettare un nuovo modello di relazioni internazionali: non più la Guerra Fredda ma la pace calda, una pace che equivale a una guerra ibrida permanente, in cui gli interventi militari vengono ridefiniti come missioni umanitarie di peacekeeping e di prevenzione del genocidio. […] Mentre, in un Paese che intende controllare, la Russia bombarda le città, ammazza i civili, attacca le università, il commercio dovrebbe procedere normalmente, e tutto il resto, al di fuori dell’Ucraina, andare avanti come prima… È a questo che dobbiamo opporci senza condizioni» (La Stampa). Che fare? «Oggi, per impedire la guerra, c’è bisogno di una qualche forma di rivoluzione». Ho il sospetto che la «forma di rivoluzione» che ho in testa io sia molto diversa (diciamo opposta?) da quella che ha in testa il prestigioso intellettuale sloveno. Ma è solo un sospetto, diciamo.
Ma insomma, che fare? Non lo so! Però mi piace concludere questo post ripescando parole scritte nel 1915 da un noto rivoluzionario che con Lenin ebbe molto a che fare: «Il proletariato deve conoscere la sua strada e percorrerla. Anzitutto deve sbarazzarsi delle sue illusioni. E per esso la peggiore illusione, in tutta la sua storia, è sempre stata quella di contare sulle altre classi della società» (3). Nel mio infinitamente piccolo, come si dice, cerco di dare il mio contributo affinché le classi subalterne trovino la loro strada e si sbarazzino delle loro tante illusioni, a partire dalla peggiore di esse.
(1) J. A. Hobson, L’imperialismo, p. 92, Newton, 1996. Con lo sviluppo del modrno capitale finanziario e monopolistico nei grandi paesi capitalistici, è nato anche l’imperialismo modrno. Esso ha fornito una nuova base economica, nuovi motivi economici, un nuovo aspetto alla vecchia lotta per conquistare mercati per le merci e zone di investimento per il capitale dei paesi a capitalismo avanzato, fonti di materie prime per le loro industrie e zone di reclutamento per i loro eserciti» (O. Bauer, Tra due guerre mondiali?, 1936, p. 200, Einaudi, 1979).
(2) «Considerando il peso di Mosca e Kiev nel commercio globale (poco più del 2%) sembrerebbe intuitivo pensare che la crisi economica generata dal conflitto possa restare circoscritta. In realtà, buona parte del Pil dei due Paesi è generato dalla vendita di materie prime difficilmente sostituibili nel breve termine. Per questo, il conflitto, inserendosi in un contesto già difficile per le materie prime, sta ulteriormente accelerando un trend al rialzo dei prezzi iniziato con la ripresa post-pandemia» (Ispi).
(3) L. Trotsky, Lotta per il potere, Appendice a 1905, Newton, 1976.
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RUSSIA. ETERNA PEZZENTE MA CON I MISSILI E L’ATOMICA
«Quando il Signore ti avrà dato la città del nemico nelle tue mani, ne colpirai a fil di spada tutti i maschi; ma le donne, i bambini, il bestiame e quanto sarà nella città, tutto il suo bottino, li prenderai come tua preda; mangerai il bottino dei tuoi nemici» (Deuteronomio).
Scrive Domenico Quirico:
«Nel 1945 i nonni dei soldati russi che hanno assediato Kiev vissero una campagna militare spietata per entrare in Germania, con decine di migliaia di morti. Ma quello fu anche per loro un periodo di strana abbondanza. La Germania era ricca. Nonostante cinque anni di guerra era ancora molto più ricca delle terre in cui erano stati arruolati. Si presero le donne tedesche, a migliaia, ma anche rubarono. E tutto venne fatto su scala russa, monumentale. Avevano sofferto e perduto più di qualunque altro e ora volevano una ricompensa. Stalin pretendeva dal Reich un risarcimento di almeno dieci miliardi di dollari. Una parte spettava a loro e bisognava impadronirsene subito, fino a che si era in tempo.
Mentre squadre specializzate provvedevano a smontare pezzo dopo pezzo le fabbriche tedesche, i soldati facevano da soli. E spesso saccheggiare era l’unico modo per mangiare perché le linee di rifornimento della Armata rossa, come pare quella di Putin, erano rudimentali e sempre in ritardo.
In Russia non c’era niente da comprare. Gli ufficiali furono i primi ad approfittare imballando porcellane. I soldati di Stalin come i coscritti di Putin erano ragazzi arrivati al fronte spesso direttamente dalla scuola, che non avevano imparato niente se non a sparare, a strisciare, a lanciare bombe, a uccidere e odiare il nemico. Spedivano scarpe, panni di lana per confezionare finalmente cappotti caldi, cuoio per confezionare alte scarpe. Ricercatissimi erano gli orologi da polso. E le biciclette, pochi sapevano usarle, facevano tentativi malaccorti e ruzzolavano fragorosamente tra le risate dei commilitoni. Gli oggetti rubati dicono molto di coloro che ne approfittarono: era l’immagine di un popolo che il comunismo aveva immerso nella miseria mobilitandola con la missione del comunismo.
Mi è venuto in mente tutto questo leggendo le denunce di saccheggi nelle zone del nord dell’Ucraina attorno a Kiev occupate dall’esercito russo per un mese prima del ritiro oltre la frontiera bielorussa. A cui si aggiunge una sequenza di immagini che, secondo molti, sarebbe la prova di questi saccheggi. Soldati che spediscono a casa, nella allegra confusione di una marachella ben riuscita, nelle scatole di uno spedizioniere bielorusso il bottino, come all’uscita di un centro commerciale: televisori telefonini, computer. I potenti invasori sembrano dunque più poveri di coloro che hanno aggredito. Negli occhi dei saccheggiatori aleggia il piacere: lusso, confort, tecnologia, parole straniere nella Russia, eterna pezzente ma con i missili e la Bomba» (La Stampa, 7/4/2022).
«Era l’immagine di un popolo che il comunismo aveva immerso nella miseria mobilitandola con la missione del comunismo». E oltremodo miserabile era anche, e dal mio punto di vista soprattutto, la ciclopica menzogna del “comunismo” con caratteristiche russe: la più grande menzogna del XX secolo che non ha ancora esaurito la sua carica velenosa sul piano politico e ideologico – e difatti il buon Quirico dà per scontata la natura “comunista” dell’imperialismo russo al tempo di Stalin. Associare il “comunismo” alla miseria: è il regalo più straordinario e impagabile che lo stalinismo ha fatto al capitalismo mondiale.
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