L’IMPERIALISMO RUSSO HA L’ECONOMIA DI ARGILLA

Mentre pubblico questo scritto apprendo l’ultima drammatica notizia che arriva dalla Russia: «Circa dieci persone potrebbero essere rimaste intrappolate a causa di un incendio scoppiato nell’edificio che ospita l’Istituto di ricerca per la difesa aerospaziale del ministero della Difesa della Federazione Russa, a Tver Lo ha riferito una fonte informata all’agenzia Interfax» (Adnkronos). Vedremo nei prossimi minuti il significato di questa notizia.

A un anonimo russo del XXI secolo è stata attribuita la frase che segue: «Tutto ciò che Marx aveva detto del comunismo era falso; ma tutto ciò che Marx aveva detto del capitalismo era vero». L’anonimo allude ovviamente a quella che per me rappresenta la più grande menzogna del XX secolo, ossia alla natura “comunista” del regime sovietico, alla quale avrebbe fatto puntuale riscontro la natura “socialista” dell’economia russa ai tempi dell’Unione Sovietica. Mutatis mutandis, questa ciclopica menzogna, molto utile ai difensori del sistema capitalistico, trova oggi ospitalità in Cina. Ecco perché «tutto ciò che Marx aveva detto del capitalismo» si può applicare all’Unione Sovietica di ieri, alla Russia di oggi e alla Cina di Xi Jinping, per comprenderne la sostanza sociale e la dinamica dei loro processi sociali – organicamente inseriti in un processo sociale che abbraccia l’intero mondo.

Parlando alla Duma il 18 aprile scorso, Elvira Nabiullina, Governatrice della Banca Centrale Russa, ha dichiarato che le sanzioni applicate dall’Occidente contro la Russia hanno reso più urgente la necessità di «cambiamenti strutturali nella sua economia», attraverso un cambiamento del «suo modello di business». Putin ha subito replicato alla Governatrice osservando che quelle stesse sanzioni stanno già provocando «un declino negli standard di vita» nei Paesi europei, e ha raccomanda di «accelerare il passaggio dal dollaro al rublo e ad altre monete nazionali» nelle transazioni internazionali della Russia. Non è la prima volta che i due si scornano platealmente (pare che dall’inizio della cosiddetta Operazione Militare Speciale il Presidente russo abbia negato almeno due volte le dimissioni alla Nabiullina) sui destini dell’economia russa: che significato possiamo dare a questo contrasto? È la “maledizione delle materie prime”, che disincentivano, grazie alla ricchezza che procurano, la formazione dì un’economia diversificata e competitiva. Un obiettivo invocato negli anni ripetutamente da Putin, che però non è raggiungibile per un decreto dall’alto. Chi intraprende un’attività economica che può avere una qualche possibilità dì successo deve avere certezza della proprietà, deve potersi rivolgersi a dei tribunali che abbiano dei giudici indipendenti dal potere politico, deve poter essere rappresentato da una parte politica. Tutte condizioni che si sono formate nei secoli in Europa per poi estendersi a poche altre parti del mondo. Si hanno così due strategie, quella “conservatrice” di Putin, che sostiene che nulla di grave è accaduto con le sanzioni, e quindi si può andare avanti lasciando le cose come sono, e quella che possiamo definire “riformista” di Nabiullina, che fa capire come l’economia russa debba cambiare per rimediare alla sua vulnerabilità. Putin vuole rassicurare la cittadinanza e alimentare l’orgoglio patriottico, ma assume implicitamente che la Russia possa andare avanti ancora per decenni grazie alle materie prime non rinnovabili, in un mondo sempre più “verde”. Nabiullina si rende conto che la Russia ha bisogno di un’economia diversificata e competitiva, che però necessità di un assetto politico più democratico» (1).

La crisi economica internazionale del 2008 (che chiamare semplicemente finanziaria sarebbe quantomeno riduttivo) ha messo chiaramente in luce le vecchie magagne dell’economia russa, che pure sembrava avviarsi su un sentiero di promettente crescita dopo i disastri degli anni Novanta (2). In molti post dedicati al conflitto armato in corso in Ucraina come parte di una guerra sistemica mondiale, ho sottolineato la contraddizione che segue: le grandi aspirazioni geopolitiche dell’imperialismo russo non sono supportate da un’altrettanto grande e robusta struttura economica. Il gigante militare ha insomma i piedi d’argilla, e questo è testimoniato anche dall’uso propagandistico che il Cremlino fa del ricatto atomico nei confronti del nemico – e degli “amici” di oggi, perché del domani non c’è certezza. Ultimamente il Cremlino ha talmente inflazionato la minaccia atomica, che il Ministro degli Esteri russo Sergei Lavrov ha dovuto dichiarare, non si sa se in accordo con il poliziotto cattivo avvezzo all’uso dei veleni, che nel conflitto in corso in Ucraina «la Russia non userà armi nucleari»: che gradevole notizie! Ma ecco il virile Vladimir sfoggiare un Supermissile nuovo di zecca, il Sarmat: «Quest’arma non avrà pari al mondo per lungo tempo. Questo nuovo missile balistico intercontinentale è in grado di superare tutti i moderni sistemi antiaerei ed è stato realizzato solo con componenti realizzati in Russia». Intenda chi deve intendere!

Anche il mito dell’accerchiamento della Russia da parte dell’Occidente capitalistico ha a che fare con la condizione esistenziale di quel Paese, e questo già ai tempi dell’Unione Sovietica di Stalin, la quale nella seconda metà degli anni Trenta era parte organica del sistema imperialistico mondiale. L’Unione Sovietica era “accerchiata” dai suoi nemici esattamente come lo erano gli altri Paesi da parte dei loro rivali più o meno strategici. Chi accerchia chi? La Francia, ad esempio, si sentiva “accerchiata” dalla Germania, e quest’ultima si sentiva “accerchiata” dalla stessa Francia, dalla Gran Bretagna e dalla Russia, e così via. E tutti questi Paesi si sentiranno “accerchiati” già nel corso della Seconda guerra mondiale dagli Stati Uniti, diventati nel frattempo la potenza di gran lunga egemone sul piano mondiale. Ora sembra essere arrivato il turno della Cina: il “pericolo giallo” si espande infatti sull’intero globo terracqueo: Tutto sotto il Celeste Imperialismo? Paesi “accerchiati” e Paesi che “accerchiano” fanno insomma parte dello stesso mondo, condividono le stesse leggi storico-sociali e cambiano continuamente ruolo: l’accerchiato di ieri può diventare l’accerchiante di domani, e viceversa. In ogni caso, il bisogno di sicurezza delle nazioni, piccole o grandi che siano, ha a mio avviso una natura ultrareazionaria perché si inquadra in un contesto storico-sociale ostile all’umanità in generale e alle classi subalterne in particolare, e perché rafforza il dominio sociale capitalistico considerato nella sua dimensione mondiale – la sola dimensione che dà senso anche a ciò che di importante avviene nei singoli Paesi.

La grave contraddizione sistemica accennata all’inizio ha avuto importanti conseguenze su molti aspetti della società russa, e questo è stato dimostrato ampiamente nel corso degli ultimi ottant’anni.  È un fatto difficilmente contestabile che l’arretratezza economica – non in termini assoluti ma relativi – del sistema capitalistico russo abbia caratterizzato la storia russa dell’ultimo secolo. 

Quali sono le origini di questa condizione per alcuni aspetti davvero paradossale? Perché la struttura economica della Russia è rimasta incagliata in una dimensione capitalistica molto arretrata (ripeto, non in termini assoluti, ma se confrontata con il capitalismo delle potenze rivali: Stati Uniti, Unione Europea, Cina, per parlare dell’oggi)? Proverò a impostare il problema (non a rispondere alla domanda) nel modo più sintetico possibile, sperando che lo sforzo di sintesi non pregiudichi completamente il tentativo di cogliere la sostanza del problema.

Introduco i termini di questo problema con tre citazioni. Vediamo la prima: «John Maynard Keynes scriveva nel 1925: “Il sistema economico sovietico è passato e sta passando attraverso cambiamenti così rapidi che è impossibile ottenere un giudizio preciso su di esso. […] Qualunque cosa si dica su questo paese può essere vero o falso allo stesso tempo”. È possibile estendere il giudizio di Keynes sull’economia sovietica della Nep dopo il periodo del comunismo di guerra alla Russia attuale? E dopo la trasformazione sistemica esattamente opposta a quella a cui nel 1925 assisteva Keynes, quanto rimane di sovietico nel nuovo sistema economico? Può l’economia russa essere paragonata a pieno titolo alle economie capitalistiche occidentali? Il sistema economico socialista che ha trasformato la Russia da una economia agraria arretrata a una economia industriale è scomparso completamente tanto da interessare solamente gli storici, o al contrario tale sistema ha lasciato un’eredità che in modi diversi influenza ed informa l’attuale funzionamento dell’economia russa? Dopo ventisei anni dalla scomparsa della Unione Sovietica è possibile fare un bilancio definitivo di quanto di sovietico rimanga nel neo capitalismo russo» (3).

La seconda citazione è tratta da un articolo scritto sempre da Gian Paolo Caselli: «La storia della Russia moderna e contemporanea, da Pietro il grande a Putin, è caratterizzata da un costante tentativo, sempre frustrato, di annullare il distacco con l’Europa e con il mondo attraverso processi di riforme volti a modernizzare il paese e farlo uscire dallo stato di arretratezza economica. Nel primo decennio del 2000 Putin ha lanciato un’ultima iniziativa di modernizzazione. L’intento è sempre quello di costruire un sistema capitalistico in grado di inserirsi nella divisione internazionale del lavoro. Le enormi risorse energetiche di cui la Russia dispone sono come sempre il vantaggio comparato da cui partire per tentare di trasformare l’economia in un sistema industriale efficiente, capace di incorporare progresso tecnologico e un settore terziario non parassitario. Anche in questa occasione la classe dirigente russa ha pensato, con una grande dose di ingenuità, che fosse possibile costruire il nuovo capitalismo russo interconnesso strutturalmente con i flussi reali, finanziari ed energetici del capitalismo mondiale, conservando però un notevole grado di indipendenza economica – e quindi politica – grazie alla presunta forza del popolo russo, alla grandezza delle risorse energetiche e alla capacità della politica economica di guidare la trasformazione. Un funzionario della banca centrale russa Oleg Vyugin ha dichiarato a tale proposito “Noi siamo protetti da nemici esterni e da shock economici perché abbiamo armi moderne e missili, ma anche perché abbiamo riserve in valuta e oro.” La crisi finanziaria mondiale del 2008 ha dimostrato quanto fosse illusorio per la Russia pensare di non dipendere dai mercati mondiali. La crisi ucraina del 2014 e le conseguenti sanzioni hanno spinto la classe dirigente russa ad adottare una politica economica che ha avuto come principale obiettivo quello di aumentare il grado di sovranità dell’economia russa nei confronti degli andamenti dei mercati mondiali, grazie ad una politica di dazi e tariffe e di sostituzione delle importazioni.Gli avvenimenti di questo ultimo mese, con l’improvvisa svalutazione del rublo, la diminuzione del prezzo del petrolio e la successiva rivalutazione avvenuta nell’ultima settimana, dimostrano ancora una volta che la sovranità economica perseguita dalla crisi del 2014 è molto debole e che il tentativo di creare una “fortezza russa” in grado di isolare il sistema economico dagli andamenti mondiali non ha avuto successo. Nonostante la nuova politica economica adottata, la dipendenza di tutta l’economia russa dal prezzo delle risorse energetiche non è per niente diminuita negli ultimi vent’anni di amministrazione putiniana; l’unico settore che ha aumentato l’efficienza e le esportazioni è il settore agricolo, settore che produce materie prime e non prodotti sofisticati. […] L’Unione Sovietica riuscì ad avere una sovranità economica quasi totale, costruendo un sistema diverso, economicamente e politicamente, dai sistemi capitalistici dell’epoca: il socialismo in un solo paese con pochissimi rapporti economici con i paesi capitalistici. Niente di paragonabile con l’attuale situazione di globalizzazione» (4).

La terza e ultima citazione: «Nel 1988 è capitato a chi scrive, per le bizzarrie del caso, di partecipare, insieme ad una cinquantina di economisti dell’Est e dell’Ovest (c’era nel gruppo anche un ben noto studioso italiano), ad un progetto “segreto” di riforma dell’economia sovietica. […] Si trattava di un sistema molto rigido ed inefficiente, in cui si riusciva alla fine a dare priorità ad un solo settore, quello militare, mentre l’industria e i servizi si trovavano in una situazione molto arretrata (alcune fabbriche, da noi allora visitate, funzionavano ancora con macchinari dell’epoca zarista, mentre altre possedevano sistemi tecnologici avanzati, ma utilizzati dove erano sostanzialmente inutili), mentre il settore agricolo impiegava ancora una fetta molto importante della popolazione (gli economisti russi presenti agli incontri parlavano, se ricordo bene, di una cifra reale intorno al 35%). Date le sue rigidità, il sistema sembrava nella sostanza irriformabile: a toccare un mattone, si aveva la sensazione che potesse cascare giù tutto l’edificio» (5).

Dopo il catastrofico crollo dell’Unione Sovietica la struttura economica russa non ha subito profonde trasformazioni, se non nella sua “sovrastruttura” giuridica – cioè nei rapporti giuridici di proprietà, con il passaggio dal Capitalismo di Stato con caratteristiche russe (con l’esistenza in Russia di un vasto capitalismo privato assai poco produttivo e spesso travestito da “economia ombra” e “economia informale”), al Capitalismo “politico/oligarchico” nato dalle privatizzazioni dei primi anni Novanta. La mancanza di capitali in grado di sostenere una moderna economia capitalistica nell’industria, nell’agricoltura e nei servizi ha continuato a rappresentare uno dei più importanti problemi del Paese, il quale mentre necessitava della vitale importazione di capitali,  di beni strumentali e di beni di consumo, allo stesso tempo, in quanto potenza imperialista di primo rango, temeva di cadere nel circuito della dipendenza economica nei confronti dei Paesi occidentali e del Giappone, premessa della dipendenza politica, o comunque di una sua grave perdita di agibilità geopolitica. Il Cremlino ha sempre dovuto fare i conti con questo dilemma dalla natura squisitamente imperialistica (avendo l’imperialismo una radice essenzialmente economica), e il problema ha assunto una dimensione critica nella seconda metà degli anni Ottanta del secolo scorso, quando la Russia non ha potuto più contare sullo sfruttamento dei Paesi del Comecon – finiti nell’orbita finanziaria dell’Occidente già prima del fatidico – e per gli stalinisti di tutto il mondo famigerato – 1989.

Grande potenza militare, l’Unione Sovietica non rappresentò mai sul piano economico (commerciale e finanziario) un concorrente temibile, o anche solo rilevante, per i Paesi occidentali e per il Giappone. La competizione economica, che costituisce appunto il cuore pulsante della contesa interimperialistica, ebbe invece come suoi protagonisti, nel periodo della Guerra Fredda e della “distensione”, gli Stati Uniti, i Paesi europei e il Giappone, ossia i Paesi del blocco imperialistico egemonizzato dagli Usa, superpotenza che si è spesso servita della sua privilegiata posizione politico-militare per imbrigliare, il più delle volte senza successo, la potenza capitalistica dei suoi dinamici e ambiziosi “alleati”. Sul terreno della guerra economica la Germania e il Giappone hanno rappresentato, dalla seconda metà degli anni Sessanta in poi, gli  avversari di gran lunga più temibili del capitalismo statunitense, con ciò che ne è seguito anche in termini di relazioni politiche fra questi tre Paesi – una dinamica, questa, gravemente trascurata da chi vedeva, a causa di un infondato approccio ideologico, solo la rivalità strategica Usa-Urss. 

Scrive Grigorij Javlinskij, autore di un piano di riforme economiche che avrebbe dovuto salvare l’Unione Sovietica dalla catastrofe in 500 giorni (che esagerata ambizione!) e leader di un piccolo partito liberale (Jablobo): «Oggi in Russia vige un capitalismo di Stato. Non c’è né privatizzazione, né riduzione della spesa pubblica, né un aumento del ruolo del settore privato, manca un vero libero commercio, manca una deregolamentazione, mentre cresce il controllo statale sull’economia. La quota delle proprietà statali nell’economia è di oltre il 75%, la concorrenza è estremamente limitata, i gruppi oligarchici si espandono e sono loro a determinare la formazione del governo, l’indirizzo degli investimenti e della spesa pubblica. Una spesa pubblica enorme, un budget immenso destinato al settore militare, l’ampliamento dei monopoli sono tutte caratteristiche dell’attuale sistema economico russo, un sistema di capitalismo statale-monopolistico» (6). Questa citazione potrebbe rendere più agevole, concettualmente parlando, il passo indietro che propongo a chi legge; un passo indietro fino ad arrivare nella Russia di Lenin, alle prese con la necessità di costruire, appunto, un capitalismo di Stato, e con l’evocata Nuova Politica Economica.

Come si arrivò alla NEP? Segue qui (p. 10).

(1) G. Arfaras, La Stampa, 19/4/2022.

(2) «La crisi ha toccato due aspetti di particolare vulnerabilità del Paese, la dipendenza economica e finanziaria dal ciclo delle materie prime e il livello di indebitamento estero del settore privato. Con la riduzione delle entrate petrolifere, i saldi di bilancio pubblico e di conto corrente russi si sono deteriorati. È da osservare che il livello corrente del debito pubblico (inferiore al 10% sul PIL) e del debito estero (intorno al 30% del PIL ma con una quota governativa limitata) rendono sostenibili temporanei deficit di entrambi gli aggregati. In aggiunta le ampie riserve accumulate dalla Banca Centrale negli anni favorevoli del ciclo petrolifero – il Paese è tra i principali detentori di riserve ufficiali sul piano globale – hanno sensibilmente rafforzato la posizione finanziaria estera del Paese, contenendone il grado di vulnerabilità di fronte alla crisi globale» (Russia. Un’economia ad alto potenziale di crescita di fronte alle sfide della crisi globale, S. S. R. Intesa San Paolo, 2009)

(3) G. P. Caselli, Economia e non solo: cosa rimane di “sovietico” in Russia?, ISPI, 7/11/2017.

(4) G. P. Caselli, Limes, 30/11/2020.

(5) V. Comito, L’economia russa post-sovietica, Sbilanciamoci, 17/3/2022.

(6) Il Mulino, Rivista, 17 dicembre 2021.

Leggi:

I VECCHI FANTASMI CHE RITORNANO

UN MONDO IN GUERRA

CRIMINI CONTRO L’UMANITÀ

L’IMPERIALISMO ENERGETICO DELLA RUSSIA

GUERRA DI CIVILTÀ E LOGICA BINARIA

SUL “COMPLESSISMO”

APPUNTI SULLA NATURA DELLA “GUERRA CALDA”

CANI SCHIFOSI, SOGNI INFRANTI E REALTÀ DELL’IMPERIALISMO

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13 pensieri su “L’IMPERIALISMO RUSSO HA L’ECONOMIA DI ARGILLA

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  11. Leggo sempre con interesse.
    Quando guardiamo ai primi piani quinquiennali e poi alla collettivizzazione forzata dovremmo ragionare su alcune cose.
    Quello che chiamano oggi propagandisticamente holomodor fu lo spopolamento violento della campagna, tratto tipico dello sviluppo capitalistico in Inghilterra (da ultimo le Great Famine irlandese di metà ottocento), quello che Babeuf descrive nel suo libro sulla Vandea (che oggi conosciamo solo perchè caduta l’URSS alcuni storici francesi lo trovarono negli archivi stalinisti – libro scomodo perchè Robespierre, definito da Babeuf un controrivoluzionario, compì le stesse cose circa i contadini che fece in modalità diverse Stalin).
    Per trasformare un esercito contadino e trasformarlo in forza lavoro salariata nella accumulazione inarrestabile, il lavoro agricolo non aveva nè macchinari, tantomeno, in assenza di macchinari, di sementi e con stagioni che ostacolavano una rotazione delle colture più efficaci rimase un problema.
    La “svolta” si appalesó con la seconda guerra mondiale che si diede con l’accumulazione USA portentosa in termini di capacità produttive, di velocità di produzioni di macchinari e nella lavorazione del ferro. In sostanza durante i primi piani, mentre l’URSS cresceva in termini industriali, inevitabilmente fu frustata da epocali carestie e non solo in Ucraina. Lo stesso sviluppo industriale era basato su macchinari di fine ottocento e di inizio ‘900.
    Gli USA fornirono via Lend and Lease Act macchinari, metalli laminati lavorati, tecnologie dei motori e quant’altro non solo consumabile nel conflitto armato. Basti pensare che negli anni prima della guerra e durante la Russia produsse circa 800 locomotrici (quelle dei vecchi treni), via Lend and Lease Act ne ricevette dagli Stati Uniti 1800. Gli storici stalinisti hanno sempre teso a minimizzare la cosa per ovvi motivi. La Russia diede in cambio 27 milioni di morti, minerali e poi un esiguo debito saldato con gli USA nei primi anni ‘70.
    Quindi lo sviluppo delle forze produttive capitalistiche in Russia non si ebbero nel chiuso di una cortina di ferro. Lo scambio est / ovest c’era seppur controllato. E quello sviluppo concise e all’interno della accumulazione mondiale. Ma l’industria della URSS mai raggiunse la produttività occidentale, lo stato per non far fallire le proprie industrie per la concorrenza delle merci occidentali fece una sorte di protezionismo. Peró nè il mercato interno poteva svilupparsi per mancanza di certi volumi della domanda, nè le merci della URSS potevano sostenere la concorrenza sul mercato mondiale. Quando la crisi della accumulazione mondiale prese di nuovo a bussare, l’industria della URSS di fatto si riproduceva attraverso un sostegno finanziario per riprodurre i capitali fissi attingendo al credito internazionale (Club di Parigi), i cui interessi ripagati con le materie prime. Alla fine emerse di fatto un default finanziario inevitabile, la svendita ai creditori occidentali, Gorbacev e Eltsin. Il debito finanziario accumulato dall’URSS con l’estero (dunque anche con l’occidente) finì in carico alla sola Russia, mentre le repubbliche che si autonomizzarono rinunciarono ai pochi crediti della vecchia URSS.
    Dal salasso, la catena del valore mondiale e la concentrazione ad occidente, mentre affamava e espelleva forza lavoro proletaria dalle fabbriche decotte e di quelle in cui i nuovi proprietari portarono i loro macchinari, l’industria russa si è trasformata in una isola di assemblaggio nel modello toyotista. Dall’altro tra le pieghe di una maglia ancora più integrata sul mercato mondiale e nella catena della circolazione delle merci occidentali, è venuta in formazione un diffuso ceto medio (lì, come im tutto l’est, come in Ucraina). Questo ceto medio si alimenta attraverso lo sfavillio della catena del valore rappresentato dalla nuova catena toyotista. Mentre i proletari stanno peggio, è cresciuto il mercato nazionale interno. Renault-Nissan hanno riconvertito i decotti ed improduttivi impianti dell’industria dell’auto sovietica, non solo perchè lì avrebbero potuto nella catena dell’assemblaggio di una mano d’opera a basso costo, ma anche perchè lì si formava una domanda in crescita sul mercato interno russo. Renault ha provato fino all’ultimo a non mollare l’osso. Ma adesso dentro quegli impianti senza Renault-Nissan-Stellantis mancano e i capitali per mantenere quei macchinari tecnologici e per rifornirli di microchip, software, componentistica tecnologia, abs, esp, airbag, licenze google, apple per il navigatore e le predisposizioni per il collegamento degli smartphone all’auto. Oggi più del 60% del valore di una automobile è rappresentato dal valore (secondo marxiana teoria) realizzato dalla produzione di quella roba. Quella roba non solo costa, ma costa di più perchè c’è penuria per esempio anche per occidente e usa di microchip. Microchip per le auto e microchip per i macchinari che assemblano le automobili. È del tutto naturale che nella difficoltà di sviluppare la filiera, per via di una accresciuta concorrenza mondiale, il capitale accumulato nella produzione di materie prime non circola divendo input di capitali fissi per la filiera. Anche di raffinerie la Russia ne ha poche. E oggi gli impianti industriali ripresi da Renault che li ha ceduti verranno prodotte automobili con un contenuto tecnologico tipo fine anni ‘70 inizio anni ‘80. In sostanza, se non cresce il volume della domanda per il consumo (cosa che ha a che fare e con la popolazione e con lo sviluppo dei ceti medi), la Russia rimane incagliata al suo ritardo storico, a inseguire l’occidente. Il capitalista necessariamente è oligarchico, accumula il plusvalore nel reddito, gira il mondo col cash e molto meno dei CEO del resto del mondo usa la carta di credito, compra cash, perchè non puó fare altrimenti. Estrarre più petrolio non trova utilità perchè il mercato interno non si espande, mentre sul mercato occidentale e mondiale la filiera lo vorrebbe a basso costo (col rischio che col primo rallentamento della produzione nella filiera mondiale puó fallire estraendo e scambiandolo ad un valore vicino ai costi di produzione).
    Per la Cina è sostanzialmente diverso. Sulla linea di partenza la Cina ha un territorio agricolo più vasto, a minori difficoltà di sbocchi sul mare, meno esposto a lunghi mesi di freddo, soprattutto la produzione agricola essenzialmente si basa su riso e soia, le cui rese a parità di area coltivata è di molto maggiore di quella coltivata a grano

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