«In parole povere: se essere “socialista” significa opporsi a tutti gli scioperi, le rivolte e le insurrezioni sia nel cuore della produzione industriale capitalista (in luoghi come la Cina e il Vietnam) sia in quasi tutti i Paesi più poveri del mondo (bollando quegli eventi come “rivoluzioni colorate” sostenute dalla CIA), allora questa forma di “socialismo” sembra essere molto chiaramente contraria al rovesciamento rivoluzionario del capitalismo […] La Cina è un Paese “socialista” solo nella misura in cui il significato del termine “socialismo” è stato completamente falsificato» (Chuang).
Al cuore della società capitalista non c’è un particolare «sistema di proprietà», ma un peculiare rapporto sociale di dominio e di sfruttamento – e dove c’è il primo deve esserci necessariamente il secondo, e viceversa. Non si deve commettere il grave errore di associare il socialismo alla proprietà statale dei mezzi di produzione, e il capitalismo alla proprietà privata di quei mezzi. A mio avviso il capitalismo va definito essenzialmente non a partire dalla forma giuridica che assume la proprietà (statale, privata, mista, azionaria, cooperativa, ecc.), ma dai rapporti sociali di produzione, i quali creano sempre di nuovo le condizioni della scissione antagonistica tra capitale e lavoro: a un polo troviamo i nullatenenti che per vivere sono costretti a vendere una capacità lavorativa di qualche tipo, e che in cambio ricevono un salario, e al polo opposto incontriamo il capitale, non importa se statale (*) o “privato”, che si appropria con diritto (quello borghese) i prodotti del lavoro che “cristallizzano”, per dirla con Marx, valore e – soprattutto – plusvalore. Credo che Chuang su questo punto la pensi come me, anche se l’enfasi posta in questo scritto sul «sistema della proprietà privata» come caratteristica peculiare del capitalismo mi lascia qualche dubbio. Ma non è affatto escluso che questo dubbio sia del tutto infondato, come sembra dimostrare la nota 1 dello scritto qui pubblicato.
A differenza di Chuang, per me ciò che è passato alla storia come stalinismo rappresentò una controrivoluzione che spazzò via nel modo più radicale la breve esperienza rivoluzionaria sovietica. Tutte le premesse oggettive di quella controrivoluzione, a partire dalla mancata rivoluzione nei Paesi capitalisticamente avanzati d’Europa che fece del Potere dei Soviet un piccolo scoglio isolato in un oceano capitalistico in tempesta, maturarono già alla fine del 1920, ed ebbero nella Rivolta di Kronštadt (marzo 1921) la loro prima drammatica espressione.
Sempre a differenza di Chuang, io penso che la Rivoluzione Cinese culminata nel 1949 con la proclamazione della Repubblica Popolare non avesse affatto un carattere socialista, trattandosi di una rivoluzione nazionale (antimperialista) borghese, e questo giudizio va esteso a tutte le rivoluzioni che nel Secondo dopoguerra punteggiarono il processo di decolonizzazione. Per questo non ho alcuna recriminazione da rivolgere al – cosiddetto – Partito Comunista Cinese, il quale, adattando il metodo stalinista alle condizioni della Cina, svolse un’eccezionale funzione al servizio della nazione cinese e del capitalismo – cinese e mondiale. Per me in Cina non c’è stata alcuna «precedente era socialista», alcuna «restaurazione capitalistica», ma un’edificazione del capitalismo attraverso un processo sociale estremamente complesso, contraddittorio, violento e, sembra quasi inutile dirlo, pieno di sofferenze per le classi subalterne cinesi. La costruzione del capitalismo non è un pranzo di gala!
Mentre la Russia di Lenin conobbe la rivoluzione proletaria (in alleanza con i contadini poveri e come avanguardia della rivoluzione sociale internazionale), poi sconfitta dalla controrivoluzione stalinista, la Cina di Mao conobbe solo una rivoluzione borghese – o “popolare”, secondo la ricca fraseologia maoista.
La Cina di oggi è per me un Paese capitalistico tanto sul versante della “struttura” economica, quanto sul versante della sua “sovrastruttura” politico-istituzionale – ed è per questo che anziché scrivere Partito Comunista Cinese, spesso scrivo Partito Capitalista cinese, anche per punzecchiare l’escrementizia tifoseria italiana del Celeste Imperialismo. «La saggezza nelle parole di Xi: il popolo unito è come una fortezza. “Finché le persone di tutti i gruppi etnici nel nostro Paese, sotto la guida del Partito Comunista, si uniranno con un solo cuore e una sola mente e si distingueranno coraggiosamente e prontamente, saremo sicuramente in grado di superare tutte le difficoltà e le sfide sulla nostra strada e continuare a creare nuovi miracoli impressionanti”» (Quotidiano del Popolo Online). Per come la vedo io, di impressionante c’è in Cina la potenza del suo capitalismo – supportato eccellentemente dal Partito-Stato, il quale ha saputo realizzare un regime politico-sociale con caratteristiche orwelliane, temuto e molto invidiato all’estero.
Rinvio ai miei scritti dedicati alla Cina: Chuang e il “regime di sviluppo socialista”; Sulla campagna cinese; Centenari che suonano menzogneri; Tutto sotto il cielo – del Capitalismo; Žižek, Badiou e la rivoluzione culturale cinese.
Ecco adesso il testo (versione quasi integrale) ripreso dal Blog cantonese Chuang. Mi scuso per eventuali omissioni ed errori di traduzione. Buona lettura!
La Cina è un paese socialista? 中国是社会主义国家吗?
Per la seconda e la terza della nostra serie di brevi risposte a domande comuni sulla Cina, abbiamo diviso una domanda comune in due. La voce precedente affrontava la domanda: “La Cina è un paese capitalista?” Questa voce affronta la domanda: “La Cina è un paese socialista?”. Come sempre, incoraggiamo i lettori a riformattare queste risposte per l’uso su più piattaforme. Se hai progettato opuscoli o infografiche utilizzando questi materiali, ti preghiamo di inviarceli (e-mail: chuangcn@riseup.net) in modo che possiamo archiviarli qui e ripubblicarli sui social media!
Socialismo
Il concetto stesso di “socialismo” è sempre stato oscuro. In passato, è stato usato sia dai rivoluzionari che da coloro che cercano di riformare l’ordine esistente per renderlo più umano. In entrambi i casi, il socialismo di solito si riferiva alla distruzione del sistema di proprietà (1) ed era, almeno nei suoi primi usi nel XVIII e XIX secolo, fondamentalmente sinonimo di “comunismo”, “rivoluzione sociale” e “anarchismo” nel suo obiettivo finale. La distinzione tra posizioni rivoluzionarie e riformiste era semplicemente una questione di come arrivarci. Nel corso del XX secolo, il socialismo arrivò a designare uno stadio “inferiore” della società precedente al comunismo, all’interno del quale il dominio della proprietà era in procinto di essere smantellato ma non era ancora stato completamente abolito. Oggi, tuttavia, la parola “socialismo” sembra riferirsi a nient’altro che al “capitalismo dal volto umano”. Questa parola ha perso ogni relazione con la distruzione della società capitalista.
Ci sono pochissimi posti al mondo in cui “socialismo” è ancora una parola usata a livello popolare e colloquiale per designare la distruzione o addirittura la graduale erosione del sistema di proprietà. Sia nel caso latinoamericano, dove i socialisti eletti sono sostenuti dai movimenti sociali, sia nel caso cinese, dove un particolare tipo di socialismo che assomiglia quasi esattamente al capitalismo è dichiarato dall’alto dai capitalisti al potere, e dove nessun partito “socialista” o “comunista” ha cercato di sfidare il sistema di proprietà nella pratica. Nella migliore delle ipotesi, la mascherano da proprietà “statale” o consentono alle aree più povere un certo grado di “autonomia” nella gestione dei propri affari, dal momento che l’autonomia senza risorse è solo un altro modo di chiamare l’impotenza. Ma anche in questi casi, le amministrazioni socialiste hanno teso a consolidare il sistema della proprietà, nonostante tutta la retorica contraria. In definitiva, tutto ciò rappresenta un fallimento storico dello stesso termine “socialismo”. Mentre potrebbe essere concepibile che, un giorno, il termine potrebbe riacquistare le sue implicazioni rivoluzionarie, questo non sembra probabile nel prossimo futuro. In senso pratico, ciò significa che è diventato sempre più comune per coloro che sostengono l’abolizione rivoluzionaria della società capitalista distinguersi da coloro che si definiscono socialisti. Per preservare accuratamente il nostro patrimonio storico e teorico, molti (compresi noi stessi) usano il termine comunista. Negli ultimi anni, questo termine ha riacquistato la sua popolarità tra una minoranza politicamente attiva, accompagnando la rinascita dell’interesse per Marx che seguì la Grande Recessione. Molti di coloro che si definiscono comunisti sono stati coinvolti in recenti sconvolgimenti politici. Ma, a differenza del secolo scorso, oggi la politica comunista non ha una presa popolare nel mondo. Mentre il nome potrebbe venire a designare una politica futura nata da lotte future, è altrettanto probabile che un nuovo termine possa emergere per sostituirlo, catturando lo stesso significato.
Sviluppo
In Cina, la confusione è ancora più complicata, dal momento che lo Stato è controllato da un Partito che si definisce “comunista”, anche se è governato interamente da capitalisti, e che ha fornito reali benefici di sviluppo a milioni di cinesi. Lo sviluppo è qui la chiave, dal momento che i capitalisti che gestiscono il Partito Comunista sostengono che, nonostante il grado di sviluppo del mercato, il carattere socialista del Paese è evidente nel fatto che le persone vengono sollevate dalla povertà.
C’è anche un’importante dimensione storica in questo ragionamento: nel XX secolo il significato di “socialismo” divenne strettamente associato con l’idea di un modello di sviluppo alternativo per i Paesi poveri che evitasse il caos del primo sviluppo capitalistico. Questo perché le uniche rivoluzioni socialiste di successo in quel secolo si sono verificate in regioni estremamente povere, per lo più agricole come la Russia e la Cina. In tali luoghi, i rivoluzionari vittoriosi dovevano fare una priorità dei programmi di sviluppo di base. Questo è stato visto come una necessità sia immediata che a lungo
termine. Nell’immediato, quella politica era chiaramente giustificata sia dal rischio di fame di massa sia dalla minaccia di un’invasione straniera finanziata dalla classe capitalista globale, che voleva vedere schiacciate le rivoluzioni.
Nel lungo termine, fu anche riconosciuto che molti degli effetti collaterali dello sviluppo capitalista, come l’istruzione di base e l’assistenza sanitaria, sarebbero stati necessari per costruire una società migliore. Altrove, queste cose erano state rese possibili solo dalla spinta del capitalismo a rivoluzionare costantemente la produzione alla ricerca di quantità sempre maggiori di denaro. Inizialmente, ci si aspettava che le rivoluzioni nei Paesi più ricchi avrebbero seguito quelle nei Paesi più poveri e che ciò avrebbe permesso una forma di integrazione cooperativa tra aree sviluppate e non sviluppate che avrebbe contribuito a bilanciare questa disuguaglianza. Ma le rivoluzioni nei Paesi ricchi furono schiacciate e i Paesi poveri che avevano visto rivoluzioni di successo furono lasciati a svilupparsi da soli. Così, il “socialismo” è venuto effettivamente a descrivere qualsiasi tentativo di emulare i cambiamenti di sviluppo che si erano già verificati nei Paesi più ricchi, ma senza anche innescare una transizione aperta al capitalismo.
Ciò significava anche che il successo del “socialismo” cominciò a essere misurato da risultati di sviluppo come l’estensione dell’istruzione e dell’assistenza sanitaria o l’aumento del consumo alimentare pro capite, il tutto sostenuto dall’aumento della produzione agricola e industriale. In luoghi come la Russia e la Jugoslavia, c’è stata una fine decisiva a questo esperimento socialista, segnato dal collasso politico, dalla frammentazione e dall’emergere di nuovi oligarchi capitalisti dal vecchio sistema imprenditoriale socialista. In luoghi come Cuba e la Corea del Nord, la scomparsa dell’Unione Sovietica ha portato a nuove forme di sopravvivenza attraverso l’isolamento, spesso intensificando le crisi locali e stimolando evoluzioni nella logica dello sviluppo. Nel frattempo, in Cina e Vietnam, l’evoluzione politica sulla scia della Guerra Fredda ha trasformato la vecchia burocrazia socialista nel terreno di riproduzione per la nuova classe capitalista.
Guidata da questa logica di sviluppo, la Cina è stata infine integrata nell’economia globale attraverso un processo che i suoi leader politici hanno chiamato “riforma e apertura”. Anche se il processo significava che sempre più produzione e vita quotidiana sarebbero state soggette alle richieste del mercato, era ancora inteso come “socialista” perché produceva con successo rendimenti di sviluppo che aumentavano rapidamente la produzione industriale, anche se sacrificava alcune delle conquiste della precedente era socialista (nella salute pubblica, per esempio), e ha visto alcune regioni (come il Nord-Est) subire un declino diffuso e ha prodotto una forte disuguaglianza sociale. In ogni fase, la retorica del partito ha sottolineato che, indipendentemente da quanto esteso diventi il mercato, se garantisce crescita e sviluppo è in definitiva socialista, almeno finché il partito comunista mantiene il controllo.
Questo rappresenta un fallimento della parola “socialismo” simmetrica a quella visibile negli Stati Uniti e in Europa. Ma, mentre in questi casi occidentali questo fallimento era radicato nella sconfitta dei movimenti rivoluzionari della precedente generazione, nel caso cinese, il fallimento del socialismo è stato il risultato del successo del Partito nel sopravvivere alla Guerra Fredda e nel raggiungere lo sviluppo nazionale nel contesto di questa stessa sconfitta globale. Ciò rappresenta una sconfitta molto più duratura del socialismo, perché realizza la fusione del socialismo con il modo di sviluppo contro cui doveva opporsi, mettendo in primo luogo in discussione, apparentemente, l’esistenza stessa di qualsiasi “alternativa”.
Comunismo
Ciò suggerisce che la vera questione non è se la Cina sia “socialista” o meno, ma piuttosto se il “socialismo”, comunque lo definiamo, abbia effettivamente qualche relazione con il comunismo di oggi. Per ora, evitiamo alcuni dei tecnicismi e riduciamo il significato di comunismo a qualcosa che si avvicina a quel vecchio ideale “socialista”: la distruzione del sistema di proprietà e l’abolizione del denaro (tecnicamente “valore”) nel perseguimento della distruzione della società di classe. Quindi la domanda diventa: se dovessimo accettare la narrativa proposta dai principali capitalisti cinesi (quelli che controllano il Partito), allora qual è il meccanismo attraverso il quale il socialismo con caratteristiche cinesi, come esiste realmente oggi, consente o prepara la liquidazione globale del sistema di proprietà al centro della società capitalista?
Lo sviluppo da solo non fornisce più una giustificazione sufficiente, dal momento che la Cina oggi ha il potere produttivo e la ricchezza materiale necessari per fornire facilmente una vita confortevole a tutto il popolo cinese e persino per condurre progetti di sviluppo cooperativo nei luoghi più poveri del mondo.
Spesso è un errore cercare di misurare il benessere utilizzando statistiche aziendali convenzionali, che non riescono a catturare la profondità e la complessità dei mezzi di sostentamento delle persone. Ma è comunque significativo che il PIL pro capite cinese sia oggi equivalente al PIL pro capite (corretto per l’inflazione) dell’Europa occidentale nel 1960 – il decennio in cui molti comunisti in Europa iniziarono a sostenere che l’obiettivo di qualsiasi potenziale rivoluzione dovrebbe essere quello di diminuire l’attività economica nei paesi ricchi come il loro, poiché la produzione era più che sufficiente per soddisfare i bisogni di tutti. In un’epoca di estinzione di massa e crisi ecologica a cascata, questa enfasi è diventata più importante solo per la critica comunista del mondo attuale.
Questo fatto fondamentale mette in discussione le affermazioni fatte dal Partito secondo cui questo processo di sviluppo – che chiama “modernizzazione socialista”, intesa come il compito principale della “fase primaria del socialismo” – durerebbe necessariamente almeno un secolo (2). Qual è, seguendo questa linea di pensiero, il livello di sviluppo necessario per il comunismo? In altre parole, come si evita di rinviare perpetuamente l’abolizione del sistema di proprietà al futuro, dal momento che saranno sempre possibili maggiori livelli di sviluppo? Queste sono domande essenziali a cui non è stata data una risposta chiara dai funzionari del Partito in Cina. Invece, poiché la maggior parte della leadership del Partito è stata trasformata in leadership capitalista, esso tende a spingere la linea temporale sempre più nel futuro, per fasi sempre più “avanzate” del socialismo. A questo punto, il comunismo stesso è scomparso ben oltre l’orizzonte.
Tutto ciò dimostra solo la crescente divergenza tra il socialismo, sia nella teoria che nella sua presunta pratica, e il comunismo. Anche se si dovesse accettare l’ortodossia del secolo scorso e riconoscere che lo sviluppo socialista è stato un precursore necessario per il comunismo, dove le rivoluzioni avevano avuto successo in regioni di estrema povertà, questa giustificazione non esiste più in Cina. Nella migliore delle ipotesi, questo non sarebbe altro che un argomento tenue che, se una rivoluzione dovesse oggi avvenire nelle parti più povere del mondo, questi Paesi avrebbero bisogno di dare la priorità a un simile processo di “modernizzazione socialista”. Ma ci sono pochissimi posti rimasti dove esistono organizzazioni “socialiste” potenzialmente rivoluzionarie. Altrove, non solo sembra che il socialismo sia stato separato dal comunismo, ma anche che il socialismo sia di fatto tra le forze più potenti che si oppongono all’emergere di un movimento comunista.
In Europa, i governi “socialisti” attuano l’austerità, schierano eserciti di polizia per schiacciare le ribellioni popolari e sottrarre energia ai movimenti sociali potenzialmente rivoluzionari, reindirizzandola in schemi elettorali perennemente fallimentari. Negli Stati Uniti, “socialismo” ha finito per significare nient’altro che un’amministrazione leggermente più liberale dello status quo. Ognuna delle proposte politiche dei “socialisti democratici” di oggi si basa su un nazionalismo inconfessato, radicato nella speranza di una mitica rinascita dell’industria americana – una nuova industria che sarà “verde” nel nome ma rosso sangue nella violenza imperiale che una tale rinascita richiederebbe.
Allo stesso modo, il governo “socialista” della Cina è stato la forza più attiva e di successo che ha soppresso l’emergere di qualsiasi organizzazione proletaria indipendente nelle industrie principali del mondo e ha messo fuori legge l’accesso alla letteratura comunista tra la popolazione in generale, compreso lo smantellamento sistematico dei gruppi di studio marxisti in tutto il Paese. La direzione del Partito si sostituisce all’organizzazione proletaria, poiché ai lavoratori in sciopero viene detto di sottomettersi alla loro sofferenza per il bene del ringiovanimento nazionale. La lettura diretta delle opere di Marx è scoraggiata e testi come Il capitale: una critica dell’economia politica sono sostituiti da corsi obbligatori che studiano articoli ufficiali sull’”economia politica socialista”, scritti da professori in vari dipartimenti di amministrazione e gestione.
Nel frattempo, la “modernizzazione socialista” ha, in realtà, portato solo all’ulteriore radicamento del sistema della proprietà privata. Il Partito ha supervisionato la distruzione di tutte le restanti convenzioni comunali o semi-comunali nella gestione della terra e dell’impresa, insieme a tutte le restanti forme di benessere socialista, sostituendole sistematicamente con convenzioni di proprietà privata modellate sui sistemi legali delle principali nazioni capitaliste. Questa coltivazione della mercificazione, combinata con la repressione di ogni potenziale di crescita dell’organizzazione comunista tra la popolazione in generale, sembra porre questo “socialismo” cinese contro ogni prospettiva di emancipazione proletaria. Collocato in un contesto globale, non è esagerato dire che il socialismo, così come esiste oggi, è in gran parte anticomunista.
In parole povere: se essere “socialista” significa opporsi a tutti gli scioperi, le rivolte e le insurrezioni sia nel cuore della produzione industriale capitalista (in luoghi come la Cina e il Vietnam) sia in quasi tutti i Paesi più poveri del mondo (bollando quegli eventi come “rivoluzioni colorate” sostenute dalla CIA), allora questa forma di “socialismo” sembra essere molto chiaramente contraria al rovesciamento rivoluzionario del capitalismo.
Deus ex Xi Jinping
Anche se rifiutiamo la cinica visione che il “socialismo” non è altro che una cortina fumogena ideologica che maschera l’oligarchia capitalista, e invece crediamo seriamente alle auto-descrizioni dei socialisti oggi presenti in Cina, la realtà rimane che tutte le loro azioni sembrano progettate per preservare il capitalismo e prevenire l’emergere del comunismo, almeno a livello popolare. L’unica conclusione possibile che rimane è che invece quei socialisti hanno una strategia per costruire il comunismo attraverso la dittatura del Partito, dopo che il sistema di proprietà privata costruito attraverso la “modernizzazione socialista”, che segna lo “stadio primario del socialismo”, inizierà a essere sciolto in qualche “stadio superiore del socialismo” che prefigura in qualche modo il comunismo, ma che oggi rimane in gran parte non menzionato e non teorizzato.
In questa visione, un comunismo essoterico radicato nell’attività della gente comune è sostituito da un comunismo esoterico nascosto nelle profondità del palazzo proibito e nei cuori di leader come Xi Jinping. Accettare questa posizione equivale a fare una scommessa, estremamente improbabile, circa la possibilità che alcuni dei capitalisti più potenti del mondo – quelli che compongono la leadership del Partito – siano ancora comunisti a un livello morale profondo e che in qualche modo saranno in grado di sfidare e rovesciare efficacemente il potere di tutte le potenze capitaliste del mondo. In altre parole, una tale scommessa abbandona essenzialmente ogni speranza nel comunismo come politica popolare che emerge dalle lotte del proletariato e vede l’unica possibilità del comunismo in una fazione ribelle di capitalisti.
Se questo fosse vero, si eliminerebbe completamente il fastidioso affare di dover condurre una rivoluzione contro il mondo capitalista, dal momento che quella rivoluzione ha già avuto luogo in Cina più di mezzo secolo fa. Al massimo, potrebbe coinvolgere gli oppressi nei Paesi ricchi che si sollevano a sostegno della borghesia ribelle del Partito, accelerando la scomparsa dello Stato imperiale americano. Stranamente, però, molti sostenitori d’oltremare di questa interpretazione oggi non sembrano essere coinvolti molto nelle ribellioni attive in luoghi come gli Stati Uniti e l’Europa. Peggio ancora, quando sono coinvolti, si alleano quasi sempre con altri “socialisti” riformisti nel cooptare tali movimenti e addomesticarli in campagne elettorali.
Inutile sottolineare che questa concezione del potere comunista è abbastanza lontana da quella immaginata da Marx e da tutti coloro che hanno portato avanti il suo progetto insurrezionale. È più pratico pensare invece che questa sembra solo una cattiva scommessa. È molto improbabile che alcune delle persone più ricche e potenti del mondo siano segretamente comunisti, e che aspettano solo di fare la loro mossa. Forse qui ci sbagliamo. È certamente possibile che una parte abbastanza grande dei restanti leader del Partito siano genuinamente comunisti, in qualche modo.
È almeno certo che Xi Jinping (insieme a molti altri leader di spicco del partito) si consideri un socialista, e non c’è dubbio che la sua amministrazione, nel prossimo decennio, perseguirà politiche apparentemente “socialiste” costruendo infrastrutture statali, aumentando le tasse sui ricchi, espandendo i programmi di assistenza sociale e riducendo in altro modo le disuguaglianze. Ma, ancora una volta, equiparare tali programmi minimi con il “socialismo” non fa altro che dimostrare il totale fallimento del termine stesso.
Anche se dovessimo accettare questa idea di un’avanguardia comunista esoterica travestita da burocrati capitalisti estremamente ricchi, tuttavia, non è esattamente chiaro come questi individui sarebbero in grado, in primo luogo, di respingere con successo tutti i veri capitalisti che si erano semplicemente uniti al Partito per il potere; e, in secondo luogo, se mantenessero il controllo del partito, come sarebbe possibile per loro liquidare il sistema della proprietà privata e ridistribuire la ricchezza?
Dopo tutto, il potere produttivo cinese è profondamente dipendente dal capitalismo globale (3). Se questi comunisti segreti dovessero finalmente abbandonare le loro maschere e agire, la classe capitalista globale, con la sua schiera di Stati che comandano una vasta potenza militare, non tacerebbe certamente sulla presa della loro ricchezza. Avendo completamente abbandonato la missione di un movimento comunista internazionale basato su organizzazioni proletarie popolari in tutto il mondo, non ci sarebbe alcuna base per una guerra rivoluzionaria genuinamente di classe contro le forze imperiali del capitalismo globale. Invece, il risultato sarebbe un brutale conflitto militare tra Stati, con la base popolare costruita unicamente attraverso la coltivazione di pericolosi nazionalismi xenofobi.
Conclusione
Per concludere, esaminiamo i punti fondamentali: la Cina è un Paese “socialista” solo nella misura in cui il significato del termine “socialismo” è stato completamente falsificato. Questa falsificazione è stata veicolata principalmente attraverso la falsa equivalenza tra “socialismo” e “sviluppo”. Mentre una volta i programmi di sviluppo erano almeno plausibilmente giustificati nella misura in cui stabilivano le condizioni di base necessarie per il comunismo, oggi anche questo tenue argomento non regge più. Il livello di sviluppo della Cina è a tutti gli effetti più che sufficiente per procedere con l’abolizione della società capitalista. Inoltre, lo sviluppo da solo non dovrebbe essere confuso con il socialismo. Molte altre parti del mondo hanno visto uno sviluppo altrettanto rapido, spesso sotto regimi apertamente capitalisti o addirittura dittatoriali sostenuti dalle principali potenze imperialiste. Anche questi governi hanno affermato di aver sollevato le loro popolazioni dalla povertà.
Tutto ciò getta il dubbio sull’affermazione che alcuni dei capitalisti più potenti del mondo, che compongono la leadership del Partito cinese, sono segretamente ancora comunisti. Fondare qualsiasi strategia rivoluzionaria su questa prospettiva sembra una cattiva scommessa. Indipendentemente dalle loro vere convinzioni, tuttavia resta il fatto che le azioni di questi leader hanno solo ulteriormente radicato il sistema di proprietà in Cina e rafforzato il potere della società capitalista globale. Ciò è più evidente nel fatto che il Partito si è impegnato in continue repressioni contro l’organizzazione comunista nel nucleo della rete di produzione globale del capitalismo e ha censurato l’accesso alla teoria comunista, sciogliendo persino i gruppi di studio universitari dedicati al Capitale di Marx. Niente di tutto ciò suggerisce che il Partito rimanga una forza di emancipazione. Ma una prova ancora maggiore è data dal fatto che il Partito ha supervisionato la profonda integrazione della produzione cinese con il capitale globale e ha sistematicamente coltivato il sistema di proprietà nella stessa Cina, eliminando tutte le restanti istituzioni comunali o semi-comunali e convertendo ogni proprietà alla proprietà privata modellata sulla legge di proprietà delle principali nazioni capitaliste.
(*) Com’è noto, già Engels parlava dello Stato capitalista come l’ideale capitalista complessivo (o collettivo): «Recentemente, da che Bismarck si è gettato alla statizzazione, si è presentato un certo falso socialismo, il quale ogni monopolio, anche quello di Bismarck, dichiarò senz’altro socialista. […] Né la trasformazione in società per azioni né quella in proprietà dello Stato sopprime l’appropriazione capitalistica delle forze produttive. […] Lo Stato moderno, qualunque ne sia la forma, è una macchina essenzialmente capitalistica, uno Stato dei capitalisti, l’ideale capitalista complessivo. Quanto più si appropria di forze produttive tanto più esso diventa realmente il capitalista generale, tanto più sfrutta i cittadini dello Stato borghese. I lavoratori restano operai salariati, proletari. La categoria del capitale non è abolita, ma è spinta al contrario al più alto grado» (F. Engels, La scienza sovvertita dal signor Eugenio Dühring, p. 238, Società Editrice Avanti, 1925). Per Engels, a un certo grado di sviluppo delle forze produttive capitalistiche «il rappresentante ufficiale della società capitalistica, lo Stato, deve assumerne la direzione» Come si vede, Engels sembra addirittura dare come deterministicamente certo il realizzarsi della tendenza al capitalismo di Stato. «Definire “socialismo” le intromissioni dello Stato nella libera concorrenza – ovvero dazi protettivi, corporazioni, monopolio del tabacco, statalizzazioni di rami dell’industria, commercio marittimo, regia manifattura di porcellane – è una mera falsificazione voluta dalla borghesia di Manchester. Noi non dobbiamo credere a tutto ciò, ma criticarlo. Se ci crediamo e intorno a essa costruiamo una teoria, quest’ultima crollerà insieme alle sue premesse […] quando si dimostrerà che questo presunto socialismo non è altro che, da un lato, una reazione feudale e, dall’altro, un pretesto per estorcere denaro, con il secondo fine di trasformare il maggior numero possibile di proletari in funzionari e stipendiati dallo Stato, così da organizzare, a fianco dell’esercito disciplinato di funzionari e di militari, un analogo esercito di operai. Il suffragio obbligatorio imposto dai superiori statali invece che dai sorveglianti di fabbrica… che bel socialismo!» (Lettera di F. Engels a E. Bernstein, 12 marzo 1881, in Marx-Engels, Lettere 1880-1883, p. 60, Lotta Comunista, 2008).
Dopo la Rivoluzione d’Ottobre, Lenin farà di tutto per combattere la malsana idea, sempre più diffusa nel Partito Bolscevico, di attribuire un carattere economicamente socialista al capitalismo di Stato che bisognava con urgenza costruire nella Russia Sovietica uscita completamente distrutta dai lunghi anni di guerra imperialista e guerra civile. Se di “socialismo” si poteva parlare in Russia, se ne doveva parlare solo in termini politici: «L’espressione “Repubblica sovietica socialista” significa decisione del proletariato sovietico di attuare il passaggio al socialismo, ma non significa affatto riconoscere che l’attuale sistema economico è socialista» (Lenin, Discorso del maggio 1918, ripreso nell’articolo Sull’imposta in natura, Opere, XXXII, p. 343, Editori Riuniti, 1967). Com’è noto, già agli inizi degli anni Trenta Stalin annunciò al mondo l’avvenuto miracolo in terra russa: «Abbiamo costruito il socialismo in un solo Paese!» Sulla Russia vedi: L’imperialismo russo ha i piedi di argilla. Lo scoglio e il mare; Lenin e la profezia smenaviekhista; Il Grande Azzardo.
(1) Si tratta di una semplificazione eccessiva, ma necessaria per due motivi. In primo luogo, è più esatto dire che l’obiettivo è la distruzione totale del “sistema capitalista” o della “società capitalista” (e questa terminologia è usata in modo intercambiabile), ma i fraintendimenti della natura del capitalismo (in particolare la tendenza a equiparare il capitalismo con “il mercato” e il socialismo con “lo Stato”) lo rendono incline a fraintendimenti. Anche un’economia apparentemente statale può essere capitalista, purché abbia preservato il sistema di proprietà necessario alla produzione di valore. In secondo luogo, è più accurato dire che il nucleo della produzione capitalista è la “forma di valore”, piuttosto che il “sistema di proprietà”, anche se i termini sono vagamente sinonimi. Non usiamo qui questa terminologia perché è inutilmente tecnica.
(2) Questo è stato affermato da Zhao Ziyang al 13 ° Congresso del Partito nel 1987, ed è espresso più vagamente nella costituzione cinese, che afferma che il paese “sarà nella fase primaria del socialismo per molto tempo a venire”.
(3) È essenziale ricordare qui che tutte le più grandi imprese “statali” sono società azioniste con le loro azioni vendute sui mercati dei capitali globali. Anche se il loro status di imprese “statali” significa che il Partito-Stato ha la proprietà di almeno una quota del 50%, l’altra metà è detenuta da investitori privati situati in tutto il mondo. Se queste imprese rifiutassero completamente il motivo del profitto o liquidassero i loro vasti beni privati convertendoli in proprietà pubblica, sarebbe effettivamente un sequestro dei beni di questi investitori internazionali.
Xi Jinping: «Regolare e guidare il sano sviluppo del capitale in Cina».
Quotidiano del Popolo Online, 3 maggio 2022:
«Il 29 aprile l’Ufficio Politico del Comitato Centrale del PCC ha condotto il trentottesimo studio collettivo sulla regolamentazione e guida secondo la legge del sano sviluppo del capitale cinese. Xi Jinping, segretario generale del Comitato Centrale del PCC, ha presieduto l’incontro ed ha sottolineato che il capitale è un importante fattore di produzione nell’economia socialista di mercato. La regolamentazione e la guida dello sviluppo del capitale nelle condizioni dell’economia socialista di mercato non è solo una questione economica importante, ma anche una importante questione politica, pratica e teorica, legata all’adesione al sistema economico socialista, alla politica nazionale di riforma e apertura, allo sviluppo di alta qualità, alla prosperità comune, alla sicurezza nazionale ed alla stabilità sociale. Dobbiamo approfondire la nostra comprensione sui vari tipi di capitale e sui loro ruoli nella nuova era, regolare e guidare il sano sviluppo del capitale e valorizzare il suo ruolo attivo come importante fattore di produzione, ha affermato Xi Jinping».
L’unico «sano sviluppo del capitale», in Cina come nel resto del capitalistico mondo, è quello in grado di generare profitti, capacità che rende possibile la potenza sistemica (economica, tecnologica, scientifica, geopolitica, ideologica) di un Paese. Parlare di «economia socialista di mercato» è una contraddizione in termini, oltre che una colossale corbelleria, a cui può dare credito solo chi non ha capito che il mercato presuppone i rapporti sociali capitalistici, che sono rapporti di dominio e di sfruttamento. Vedremo nei prossimi giorni come il Caro Leader “declinerà” il concetto di «sano sviluppo del capitale in Cina nella nuova era».
https://www.academia.edu/resource/work/24032169
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