Il romanzo russo non è che anatomia patologica; non è che una constatazione del male che ci rode, un’accusa continua di se stessi, accusa senza tregua né misericordia. Qui non s’ode affatto la dolce voce discesa dai cieli, che annuncia a Faust il perdono della giovane colpevole. Qui non si cerca consolazione; solo il dubbio, la maledizione, levano qui la voce. Eppure, se la Russia può essere salvata, essa lo sarà da questo sentimento profondo della nostra situazione, e dalla poco cura che mettiamo nel nasconderlo al mondo (A. Herzen, 1851).
Leggo da qualche parte: «Ma Dostoevskij oggi starebbe con Putin?». Questa domanda ne stimola un’altra, credo molto più seria: ha un seppur minimo, atomistico senso (storico, culturale, ideologico) fare domande di questo genere? «Cosa c’entra Dostoevskij con Putin?», si chiedeva qualcuno ad aprile di quest’anno, sconcertato dalla russofobia che ha preso piede in una parte dell’italica “intellighentia”. Già, cosa c’entra l’immenso Dostoevskij con il macellaio di Mosca? Ovviamente nulla. Ma allora, com’è potuto accadere che la gigantesca figura dello scrittore russo venisse in qualche modo associata all’autocrate del Cremlino (che in troppi, evidentemente in crisi di fantasia, degnano dell’appellativo di Zar)? L’equivoco, per così dire, si spiega forse con l’uso strumentale che almeno da dieci anni Putin fa di Dostoevskij, celebrato dal suo regime in tutte le salse possibili e immaginabili. Ma che bestialità aver dato credito, anche solo per qualche giorno, alla volgare propaganda putiniana!
«Per capire Putin, leggete Dostoevskij», hanno detto Kissinger e l’ex capo della Nato in Europa Stavidris: a mio avviso niente di più falso e di più ridicolo (1). Per Michel Eltchaninoff, caporedattore di Philosophie Magazine, autore del libro Nella testa di Putin (2015), «Questa strumentalizzazione di un autore immenso come Dostoevskij mostra che il presidente russo utilizza solo una parte dell’immensa cultura russa per sviluppare la sua ideologia di vendetta contro l’occidente. Putin è influenzato da alcune idee filosofiche. Quali? Tante. Spesso contraddittorie. Ma non importa. Perché lui è innanzitutto un pragmatico. Cioè uno che adatta il proprio orientamento alle circostanze politiche e ci tiene a non essere vincolato da costrizioni ideologiche. In questo, a dispetto di chi lo ritiene un leader anacronistico, è (post)modernissimo. Molto più “occidentale” di quanto non sarà mai disposto ad accettare. Cinico, occhiuto, disincantato, nel mercato delle idee si muove da consumatore. Senza lasciarsene condizionare, le indossa finché servono. Poi via, avanti un’altra. Del passato zarista o staliniano ricicla solo l’utile».
E in effetti il putinismo come “ideologia” non è che un’accozzaglia di concezioni ultrareazionarie riprese attingendo tanto a “destra” quanto a “sinistra”, ma anche, e forse soprattutto, dal passato specificamente russo: vedi il vecchio Panslavismo attivo nella Russia del XIX secolo. Per questo non ha molto senso, a mio avviso, etichettarlo con un termine preciso tratto dal passato più o meno recente: fascista, nazista, stalinista – tre diverse fenomenologie politico-ideologiche di uno stesso regime sociale: quello capitalistico. Naturalmente per amor di polemica si può anche farlo, e di certo non sarò io a cavillare sui termini usati per rubricare le escrementizie idee del Presidente Putin.
Se si ascoltano i discorsi del virile Vladimir sulla deriva “globalista” e “liberale” della società occidentale, infarciti di miserabili luoghi comuni sul politicamente corretto, la sostituzione etnica (o razziale, per usare la terminologia dei razzisti), la distruzione della famiglia tradizionale, la lobby gay, i poteri forti finanziari (con al cuore i soliti ebrei!) e quant’altro, si capisce subito perché fino all’invasione del 24 febbraio il Presidente della Federazione Russa fosse il punto di riferimento della destra europea, a cominciare dalla Lega di Salvini e dai Fratelli d’Italia della Meloni (2). La teoria del Grande Complotto occidentale contro la Russia ha invece trovato orecchie disponibili soprattutto fra i veterostalinisti, affamati di rivincita dopo la catastrofe del 1989 e degli anni seguenti, e i cultori del complottismo variamente declinato: l’importante per questi simpatici personaggi è credere che qualcuno ordisca un complotto ai danni di qualcun altro.
Quasi sempre i movimenti politici prendono in prestito dal passato ideologie e riferimenti storici da usare strumentalmente nel presente, ma la loro genesi, il loro radicamento sociale e la loro dinamica politica si spiega solo a partire dalle condizioni sociali contingenti. Non è guardando soprattutto al passato che si possono comprendere i movimenti politici che si muovono sull’odierna scena sociale nazionale e internazionale, e solo afferrandone il peculiare significato sociale, la loro reale natura, essi possono venir fruttuosamente inseriti in un più ampio contesto storico che ne completi la fisionomia politica. Per questo a mio avviso ha poco senso rubricare i movimenti politici odierni sotto termini presi da un passato più o meno recente.
Nel 1871, l’anno della Comune di Parigi, Nikolaj Jakovlevic Danilevskij pubblica in Russia Rossija i Evropa, un libro che Fëdor Dostoevskij definì «la Bibbia di ogni russo». Si tratta, scrive Giulio Meotti, di un «libro che Vladimir Putin cita sempre, che distribuisce ai governatori e che contiene le chiavi della guerra ucraina. In “Russia ed Europa”, Danilevsky descrive una competizione di civiltà e un inevitabile conflitto fra la Russia e l’occidente. Danilevski, una sorta di precursore di Samuel Huntington, pensava alle relazioni internazionali in termini di scontri tra blocchi di civiltà e, come l’americano, denunciava l’illusione di un’omogeneizzazione del mondo sul modello occidentale. Danilevski considerava il popolo russo “scelto da Dio” per preservare un’autenticità culturale e una “energia vitale”, di cui l’occidente, frivolo e imbastardito, sarebbe ormai privato. Danilevskij ha costruito l’Idea Russa in contrapposizione ai valori di un occidente cui andava negata la pretesa universalista. Un concetto che oggi torna con regolarità nella retorica conservatrice del Cremlino» (Il Foglio, 26/3/2022). Ma Russia ed Europa di Danilevskij non può spiegare un bel niente, se non la necessità del regime putiniano, espressione di un’intera fase storica di respiro mondiale, di rappattumare un discorso “filosofico” da porre al servizio di precisi interessi – politici, economici, strategici.
Il mito della decadenza della civiltà occidentale ha ipnotizzato il pensiero reazionario occidentale dalla seconda metà del XIX secolo in poi, ed è stato ripreso soprattutto dai nazionalisti tedeschi prima della Grande guerra e con rinnovato ed esaltato vigore dopo la catastrofe dell’11 novembre 1818. Per chi ha in odio l’Occidente sulla base di pregiudizi tanto infondati quanto volgari, il mondo liberale è sempre prossimo alla fine, al tramonto; è costantemente sul punto di esalare l’ultimo respiro, l’ultimo rantolo, salvo poi verificarne la “resilienza” e pagare un prezzo assai salato per l’abbaglio preso.
«I popoli occidentali non comprendono né sopportano l’originalità della Russia», scriveva nel 1950 il filosofo e politico – nonché a suo tempo entusiasta simpatizzante della Germania nazista – Ivan Ilyn, un altro “maestro spirituale” di Putin (3). In realtà ai «popoli occidentali» della supposta originalità della Russia non importa nulla. Parlare di originalità russa oggi, nell’epoca del dominio totalitario dei rapporti sociali capitalistici, significa raccontare una barzelletta a chi ha bisogno di tirarsi su il morale. È il processo sociale capitalistico che spezza e frantuma ogni identità che in qualche modo crea attrito, che ostacola il libero sviluppo degli interessi economici. Non si tratta di un complotto di qualcuno ai danni di qualcun altro: si tratta, appunto, del processo sociale, il quale plasma e riplasma continuamente, sempre di nuovo la società di ogni Paese, facendone non più che un nodo della fitta rete delle relazioni economico-sociali. Questa natura del Capitale, sempre inteso come un peculiare rapporto sociale di dominio e di sfruttamento, Marx lo comprese assai precocemente, considerato che già nel 1844 egli colse la tendenza della nuova potenza sociale, essenzialmente anonima e priva di radici nazionali, a fare del mondo intero una sola gigantesca fabbrica, un solo enorme mercato, con ciò che ne seguiva anche sul piano delle idee, dei costumi, della psicologia, della vita più minuta degli individui. È esattamente questa natura necessariamente “globalista” (“mondialista”) e totalitaria che i pensatori reazionari europei degli ultimi due secoli non hanno compreso, rimanendo impigliati in una concezione antimodernista che spinge il pensiero a guardare in direzione del passato, coltivando la pia illusione di poter ripristinare rapporti sociali meno disumani, meno alienanti e dispotici. Per Marx, invece, la soluzione del problema umano si trova nel futuro, nella possibilità fondata sulle condizioni presenti di costruire una Comunità autenticamente umana, cosa che presuppone il superamento della divisione classista degli individui: «Che la ricchezza spirituale reale dell’individuo dipenda interamente dalla ricchezza delle sue relazioni reali, è chiaro dopo quanto si è detto. Soltanto attraverso quel passo i singoli individui vengono liberati dai vari limiti nazionali e locali, posti in relazione pratica con la produzione (anche spirituale). La dipendenza universale, questa forma spontanea della cooperazione degli individui sul piano storico universale, è trasformata da questa rivoluzione comunista nel controllo e nel dominio cosciente di queste forze le quali, prodotte dal reciproco agire degli uomini, finora si sono imposte ad essi e li hanno dominati come forze assolutamente estranee» (L’ideologia tedesca). Il pensiero “anticapitalista” reazionario ha invece opposto alla cattiva universalizzazione capitalistica la difesa di un’identità (nazionale, culturale, etnica, sessuale) ridotta ai minimi termini, sempre più anoressica e buona solo come strumento della conservazione del potere sociale che sta in capo alle classi dominanti.
«Il mercatismo è l’ultima ideologia del Novecento, un secolo che di ideologie si intende. Il mondo si unifica nella logica del mercato come matrice del bene economico politico morale, come un assoluto. È l’architettura del mondo: sopra il mercato e sotto gli stati pacificati in eleganti rapporti di competizione e concorrenza. La globalizzazione è un’utopia che nasce allora, l’”assenza di luogo” ne è la quintessenza. Il poeta di corte èFrancis Fukuyama, il teorico della fine della storia. Il disegno è quello dellaproduzione in Asia e del consumo in occidente, l’Asia è la fabbrica del mondo e l’occidente, se produce qualcosa, produce servizi. Se un tempo il principio era soviet + elettrificazione, adesso è internet + container. Prima esistevano gli stati, i confini, la rule of law, le monete nazionali, le tasse. Tutto ruotava attorno alla triade “liberté, égalité, fratenité”, adesso soppiantate da “globalité, marché, monnaie’”» (G. Tremonti, Il Foglio). Che la globalizzazione capitalistica, una tendenza storica che ha ormai alle spalle più di due secoli, potesse creare «Stati pacificati in eleganti rapporti di competizione e concorrenza» potevano crederlo solo degli ideologi avvinazzati. Oggi non ci troviamo di fronte alla crisi della globalizzazione, ma alla crisi sistemica nella globalizzazione, la quale come in passato incrocia in più punti le dinamiche geopolitiche – e non a caso l’anticapitalista parla di imperialismo (4).
Il Panslavismo del XIX secolo nacque come reazione alle tendenze occidentalistiche che con Pietro il Grande sembrarono poter conquistare finalmente almeno una parte della classe dirigente russa – una possibilità a cui com’è noto Marx, arcinemico della Russia zarista, non attribuì un grande credito. Scriveva Aleksandr Herzen nel 1853: «Gli slavofili fanatici si scagliarono con accanimento su tutto il periodo pietroburghese, sull’opera di Pietro il Grande, e infine su tutto ciò che era stato europeizzato e civilizzato. E rimuovendo ragioni e spirito illuminato, andarono a rifugiarsi sotto la croce della Chiesa greca. […] La slavofilia che vedeva la salvezza della Russia solo attraverso la restaurazione del regime bizantino-moscovita non portava all’emancipazione ma al suo contrario, non era progresso, ma arretratezza» (Breve storia dei Russi). Ma allora gli slavofili nemici dell’Occidente potevano almeno opporre alla “corrotta” e “anticristiana” civiltà borghese la stessa arretratezza della società russa, potevano spacciare il precapitalismo russo come il fondamento di uno stile di vita naturale, genuino, umano, non ancora corrotto dal dio denaro e dalla mercificazione. Lo stesso Herzen, nemico del Panslavismo e amico dell’Occidente, poteva scrivere non del tutto infondatamente ciò che segue sull’obščina (comunità) e sul mir (assemblea dei capofamiglia del villaggio): «La comune ha salvato l’uomo del popolo dalla barbarie mongola e dallo zarismo civilizzatore, dai signori con una patina europea e dalla burocrazia tedesca; l’organismo della comune ha resistito, anche se molto provato, alle ingerenze del potere; per fortuna si è conservato fino allo sviluppo del socialismo in Europa. Per la Russia è stato provvidenziale» (Lettera a Michelet). Da allora sono passati 170 anni e il pregiudizio antioccidentale non trova più alcun fondamento nella società russa, la cui vitalità e capacità espansiva è declinante ormai da parecchi decenni, ben prima che l’Unione Sovietica crollasse sotto il peso delle sue stesse contraddizioni capitalistiche. Fondare le proprie aspirazioni imperiali e imperialistiche principalmente sullo strumento militare e sulla vendita di materie prime energetiche è, da parte della Russia del XXI secolo, un chiaro segno di debolezza sistemica.
L’universalismo umanista di Dostoevskij (5) supera di gran lunga, quanto a serietà, profondità, originalità e fecondità, la sua concezione reazionaria circa il destino del popolo russo, e comunque esso rappresenta il cuore pulsante dei suoi romanzi, che difatti sono comprensibilissimi dal lettore occidentale. Penso che abbia un senso accostare Dostoevskij a Nietzsche, come peraltro fece già nel 1903 Lev Isaakovi Šestov (La filosofia della tragedia. Dostoevskij e Nietzsche), tirando il filo antirazionalista e antiscientifico (antipositivista e antiscientista, per essere più precisi) che certamente lega i due personaggi. In ogni caso, la sua slavofilia va contestualizzata storicamente (la complessa condizione sociale della Russia del tempo, dilaniata da due opposte tendenze storiche, sintetizzabili maldestramente nei concetti di Occidente e Oriente, è cosa ampiamente risaputa) e non può in nessun caso venir associata a chi oggi in Russia alimenta il proprio pensiero ultrareazionario saccheggiando l’opera del grande scrittore moscovita.
Volgendo lo sguardo a Oriente che cosa vede oggi il russo che ha in odio l’Occidente? La gigantesca sagoma della Cina! Egli vede la superpotenza capitalistica che contende il primato mondiale agli Stati Uniti e che non aspetta altro che fare della Russia una sua provincia da mettere a valore in termini economici (vedi alla voce materie prime) e geopolitici. Chi in Russia e in Europa auspica un’alleanza strategica di questi die Paesi in funzione sia antiamericana che anticinese deve considerare il fatto che una tale alleanza presuppone una radicale ristrutturazione della società russa, la quale è ancora inchiodata a un “modello” troppo antiquato e fallimentare di Impero e di Imperialismo.
Scrive Orietta Moscatelli: «Il putinismo è un processo in corso. È un’ideologia tesa alla conservazione del potere. Insieme di concetti e pratiche che hanno supportato la costruzione del regime da vent’anni a questa parte. Storicamente – e dopo un quarto di secolo possiamo osare questa definizione – non c’era fine ideologico, non certo nel senso delle ideologie novecentesche. Niente di simile al comunismo» (Limes, maggio 2022). Come sa chi legge i miei modesti scritti, io credo che il “comunismo” di cui qui si parla non solo non avesse nulla a che fare con l’autentico comunismo, ma ne fosse piuttosto la più radicale negazione. L’uso assai generoso che l’Armata Russa fa dei vessilli sovietici nei territori “denazificati” (leggi russificati) dell’Ucraina, e che tanto commuove gli italici nostalgici dello stalinismo, mostra plasticamente la radicale (sociale) continuità tra l’Unione Sovietica e la Federazione Russa; una continuità che si dispiega sotto il segno del capitalismo e dell’imperialismo. Sullo stalinismo come controrivoluzione antiproletaria e come strumento dell’accumulazione capitalistica e dell’imperialismo rinvio ai miei diversi scritti dedicati alla Russia.
In Bielorussia è stata vietata la circolazione di 1984, il capolavoro di George Orwell, e anche in Russia quel libro non gode di buona reputazione, per così dire, negli ambienti politici e culturali più vicini al regime putiniano, il quale, fedele alla lezione del Grande Fratello, cerca di capovolgerne il significato per porlo al suo servizio. D’altra parte, Mosca non manda forse molti nazisti (si parla di almeno due organizzazioni dichiaratamente naziste) a “denazificare” l’Ucraina?
Scrive oggi Anna Zafesova: «In una Russia dove si viene ormai arrestati per essere scesi in piazza con un foglio bianco la distopia dello scrittore inglese torna a essere di sconvolgente attualità. Intanto la propaganda putiniana prova a raccontare che il romanzo non è ispirato all’Urss ma “dalla fine del liberalismo” di stampo occidentale. E il capolavoro di Orwell diventa un simbolo per riconoscersi tra dissidenti» (Il Foglio). Probabilmente per capire la Russia (e non solo!) oggi è più utile leggere Orwell che Dostoevskij. «Se per il socialista Orwell l’Unione Sovietica era una minaccia, anche il capitalismo inglese era minaccioso, specie quello potenziato dal dopoguerra americano. Visto da Minsk o da Mosca, da Londra o da Milano, non aveva torto» (P. Di Stefano, Il Corriere della Sera).
(1) Secondo Luca Gori, per comprendere il pensiero conservatore oggi dominate in Russia occorre riflettere sul concetto di Kathéchon:
«Si tratta di un concetto chiave per chi voglia provare a capire la Russia di Putin, la sua “svolta conservatrice” e l’obiettivo di sfidare l’egemonia occidentale per affermare una civiltà russa autonoma e creare un mondo policentrico. La parola Kathéchon viene dal greco antico e significa “ciò che trattiene” o “colui che trattiene”. Nella visione escatologica della cultura cristiana, il Kathéchon viene identificato con la Roma imperiale, considerata l’ultimo Regno in grado di proteggere il mondo dalla venuta dell’Anticristo. Nella tradizione russa, il Kathéchon viene riproposto nella formula della “Terza Roma”, coniata dal monaco Filofej di Pskov nel XVI secolo. L’idea che i russi fossero il “popolo eletto” destinato a combattere l’Anticristo forgiò una mentalità con evidenti ripercussioni politiche e ideologiche. Già durante il regno di Ivan IV (detto il Terribile), incoronato nel 1547 dal metropolita Makarij con il titolo di “gran principe e zar di tutta la Rus’”, in un rito di definitiva sacralizzazione della monarchia russa, vennero indicati due nemici contro cui Mosca doveva fungere da Kathéchon. Un Anticristo esterno, che poteva arrivare dalle terre oltre la Moscova; e un Anticristo interno, che veniva identificato nella resistenza alla volontà del potere costituito, soprattutto nelle fasi di instabilità e disordine. Equiparando ogni insubordinazione al tentativo di indebolire lo Stato nel suo ruolo di “freno” al ritorno dell’Anticristo, veniva forgiato in chiave escatologica un certo tipo di regime e di esercizio del potere che avrebbe segnato a lungo la cultura politica della Russia. In particolare nel rapporto tra Stato e popolo. Nel XVIII e XIX secolo, i contenuti del concetto di Kathéchon cambiarono però sensibilmente. La sua interpretazione venne collegata al dibattito tra occidentalisti e slavofili, divenendo così una dottrina laica di politica estera a difesa dell’unicità storico-culturale della Russia. Manteneva comunque anche una dimensione messianica, per cui Mosca restava la protettrice del mondo e lo “scudo” che aveva salvato l’Europa dall’orda mongola. A quest’ultimo riguardo, è rinomata la presa di posizione di Puškin nella sua Lettera a Cˇaadaev del 19 ottobre 1836: Senza dubbio, lo scisma ci ha separati dal resto dell’Europa, e non abbiamo potuto partecipare a tutti i grandi eventi che l’hanno definita, ma noi abbiamo avuto un destino speciale. È stata la Russia e il suo territorio senza limiti che ha assorbito l’invasione dei Mongoli. I Tatari non hanno osato giungere sino ai nostri confini occidentali, lasciandoci alle loro spalle. Si ritirarono verso i loro deserti e la civiltà cristiana è stata salvata […] il nostro martirio ha evitato distrazioni allo sviluppo energico dell’Europa cattolica.
Durante l’Epoca d’argento, tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento, il principio del Kathécon venne nuovamente riformulato, questa volta in termini apocalittici e declinisti. Nel 1894 Vladimir Solov’ev, ispiratore del movimento poetico del Simbolismo, scrisse una poesia, Panmongolismo, in cui elogiava la cultura orientale e profetizzava la caduta di Mosca come Terza Roma. A seguito della guerra russo-giapponese del 1905, si diffuse inoltre in Russia la paura – ampiamente riflessa nella letteratura del tempo – dell’uomo orientale. Nel 1913, Andrej Belyj scrisse uno dei più importanti romanzi simbolisti, Pietroburgo, dove a questa fobia veniva riservato uno spazio centrale.
La Prima guerra mondiale e la Rivoluzione bolscevica aggiunsero poi un ulteriore elemento di caos e di disordine dionisiaco. La Russia non sembrava più in grado di mettere un freno alla venuta dell’Anticristo. Anzi, di fronte ad un mondo che non offriva più una prospettiva di salvezza, abbassava lo scudo protettivo e lasciava passare la “malvagità”, con il suo carico di guerra, morte e distruzione. Questo senso di Apocalisse imminente lo si ritrova – in particolare – nella poesia di Aleksandr Blok, Gli Sciti. Nei versi dedicati al popolo delle steppe vi si intravede – all’inizio del 1918, sullo sfondo dei colloqui che avrebbero condotto al Trattato di Brest-Litovsk – una Russia tumultuosa, impaurita e smarrita, che minaccia di non alzare nuovamente la “diga” contro l’onda (anche simbolica) del panmongolismo nel caso in cui russi ed europei non fossero riusciti a trovare la pace e a salvare la loro civiltà.
Dopo il 1991 è tuttavia prevalsa – almeno tra le fila dei neoconservatori russi – un’ulteriore interpretazione dell’Urss come Kathéchon. Il regime sovietico è stato presentato, secondo una visione secolarizzata del messianismo russo, come protettore della classe operaia rispetto all’oppressione del capitalismo e – soprattutto – come bastione che ha difeso l’umanità dal male assoluto del nazismo. Negli anni Novanta, i neoconservatori russi hanno inoltre scoperto il pensiero di Carl Schmitt che ha scritto del Kathéchonin Il nomos della terra. Ed è stato soprattutto Dugin, attraverso una serie di articoli tra i quali Katechon and Revolution pubblicato nel 1997, a rendere Schmitt popolare anche in Russia. Se nella filosofia di Schmitt il Kathéchon coincide sostanzialmente con lo Stato che protegge contro il caos, nella Russia post sovieticail concetto, molto caro ai “conservatori radicali”, ha finito per incarnare l’idea stessa di difesa dalla minaccia esterna. Mosca è vista cioè come la forza che resiste a un nemico fisico e metafisico inviato dall’Anticristo. Un tempo i Tatari, i Turchi, Napoleone o Hitler. Più di recente i liberali, gli agenti americani, i movimenti Lgbt, la Nato, l’Unione europea, il liberalismo, la globalizzazione, il postmodernismo. La forza militare è quindi un alleato del Kathéchon» (L. Gori, La Russia eterna. Origine dell’ideologia post sovietica, Luiss, 2021).
Sul concetto di Kathéchon rimando ai miei appunti di studio Dominio e katéchon.
(2) «Attaccando di petto l’ideologia woke, la rinascita della lotta contro la discriminazione razziale e di genere nei paesi occidentali, Vladimir Putin sta drammatizzando la lotta contro un occidente che crede sia diventato pazzo. In Russia, invece, i “valori tradizionali” sono sanciti dalla nuova costituzione. Il presidente si affretta a criticare il desiderio dei paesi occidentali di stabilire “una discriminazione inversa della maggioranza nell’interesse delle minoranze, la richiesta di rifiutare nozioni fondamentali come una madre, un padre, una famiglia o anche la distinzione tra i sessi”. Affermando, come sempre, di “chiamare le cose con il loro nome”, il presidente russo sostiene che questo movimento di negazione del genere “è semplicemente al confine di un crimine contro l’umanità”. Questo tipo di indignazione non è affatto sorprendente dall’uomo che, all’epoca della sua offensiva conservatrice nel 2013, al Valdai Club, affermava sull’occidente: “Si sta perseguendo una politica che mette sullo stesso piano una famiglia con molti figli e una coppia dello stesso sesso, la fede in Dio e la fede in Satana. Gli eccessi del politicamente corretto stanno portando a prendere in seria considerazione la possibilità di permettere un partito il cui scopo è la propaganda pedofila”. La cosa più originale del suo discorso è che non si basa solo sulle sue letture e convinzioni personali o su quelle dei suoi concittadini, ma sull’esperienza storica della Russia. Sostiene che ciò che sta accadendo oggi in occidente con il movimento woke, la Russia sovietica l’aveva già conosciuto negli anni Venti, dopo la guerra civile e il comunismo di guerra, dal 1918 al 1921, quando la Nuova politica economica, dando un po’ di respiro all’impresa privata e alla società, fu l’occasione per un’effervescenza culturale, artistica e sociale senza precedenti. Il rovesciamento della famiglia borghese era uno degli obiettivi dell’avanguardia. In alcuni circoli, la libertà sessuale era esaltata. Ma è una grande esagerazione confondere questo movimento di emancipazione con la cultura woke di oggi, che si concentra sui diritti delle minoranze etniche, sessuali o di genere. Bisogna anche sottolineare che è stato lo stalinismo più severo e criminale a chiudere questa parentesi incantata della storia sovietica» (M. Eltchaninoff, Il Foglio, 26/11/2021).
(3) «Ilyin profetizzava nelle sue opere che con la caduta del comunismo si sarebbe dovuta costruire una nuova idea russa, religiosa e spirituale. E sottolineava il pericolo di un’aggressione dall’esterno, confidando tuttavia nell’arrivo di una “Guida” in grado di dirigere il paese e di salvarlo dalle potenze occidentali. Proprio qui si incontrano le suggestioni di Ilyin con il modello putiniano: una dittatura nazionale che si farà carico del compito epocale di sfidare e combattere le democrazie occidentali con il loro ipocrita sistema liberale. Forse la Russia ha definitivamente scelto la propria “Guida”» (G. M. Sperelli, Fondazione De Gasperi).
(4) «Apple lascia la Cina. La notizia, diffusa dal Wall Street journal se confermata, avrebbe un senso epocale, e lo scriviamo senza voler indugiare nell’enfasi. Anche perché, nel caso Apple tornasse a produrre negli Usa, il costo dell’aggeggio con cui scriviamo questo pezzo diventerebbe almeno cinque volte superiore. Più probabilmente sarà una globalizzazione «geopolitica», cioè si arriverà al cosiddetto decoupling: si investe solo in quei paesi appartenenti al nostro sistema di alleanze. La globalizzazione sarà insomma sempre più regolata dagli imperativi geopolitici. Ecco perché il recente viaggio del presidente Biden in Asia è stato assai importante, per rinsaldare l’asse contro la Russia e la Cina, non solo dal punto di vista militare e politico ma anche commerciale» (M. Gervasoni, Il Giornale).
(5) «Fëdor Michajlovič Dostoevskij nacque il 30 ottobre 1821 a Mosca in un ospedale per poveri durante gli ultimi anni di regno di Alessandro I, l’enigmatico avversario di Napoleone. Dopo la morte della madre, nel 1837, si iscrive l’anno seguente alla scuola militare di ingegneria di Pietroburgo che lascia nel 1843 col grado di tenente del genio per entrare come funzionario al ministero della guerra. Un anno dopo dà le dimissioni, avendo deciso di dedicarsi alla carriera letteraria. Uno dei suoi primi lavori (1843) è la traduzione di Eugénie Grandet di Balzac, di cui rimarrà un lettore assiduo e penetrante. […] Il giovane scrittore si era accostato in quel periodo al circolo culturale Petraševskij, dove si discutevano le teorie di Fourier, il socialista utopistico. Arrestato come cospiratore nell’aprile 1849, insieme ad altri membri del gruppo, fu condannato a morte ma, dopo una finta esecuzione (macabra cerimonia le cui terribili conseguenze peseranno sullo scrittore per tutto il resto della vita), la condanna fu comminata in quattro anni di lavori forzati e quattro anni di servizio militare da scontare in Siberia» (G. Donnini, Introduzione a I fratelli Karamazov, Istituto Geografico De Agostini, 1984)
Il regista ucraino Sergei Loznitsa a Cannes: «Non censuriamo la cultura russa» (da Voxeurop):
Subito dopo l’aggressione russa in Ucraina, ho espresso la mia opinione contraria di fronte al divieto totale del cinema russo al boicottaggio della cultura russa. Alcuni miei compatrioti hanno risposto chiedendo, in risposta, di boicottare anche i miei film, in particolare quelli sulle guerre attuali e passate: Donbass, Majdan, Babij Jar. Kontekst. Ebbene, pochi anni fa gli stessi film – Donbass e Majdan – erano stati vietati. Questo accadeva nella Russia totalitaria, su ordine dell’FSB, il Servizio federale per la sicurezza della Federazione russa. Oggi gli “attivisti” filoucraini chiedono che questi film vengano vietati nella democratica Unione europea. È deplorevole che su alcune questioni la loro posizione coincida con quella dell’FSB russo. La richiesta di boicottare la cultura russofona, che è anche la conquista e la ricchezza dell’Ucraina, è arcaica e distruttiva.
Come possiamo equiparare le atrocità commesse dall’attuale regime russo (e avendo in mente che negli ultimi cento anni la Russia ha visto alternarsi solamente regimi scellerati) con le opere di quegli autori russi, spesso paria e quasi sempre profeti inascoltati nella loro misera patria, che sono diventati parte della cultura mondiale, e quindi patrimonio dell’intera umanità? Come possiamo rispondere alla barbarie del regime di Putin per mano dei vandali russi in Ucraina chiedendo la distruzione o l’abolizione di ciò che si è sempre opposto alla barbarie? Non ha né logica né senso.
DIALETTICA DELLA “DENAZIFICAZIONE”…
Se gli ebrei partono
Marina Corradi, Avvenire 9/6/2022:
Scrive dagli Usa la reporter Avital Chizhik-Goldschmidt sul suo account Twitter: «I miei suoceri sono stati messi sotto pressione dalle autorità russe per sostenere pubblicamente la “operazione speciale” in Ucraina e si sono rifiutati di farlo. Sono fuggiti in Ungheria due settimane dopo l’invasione russa, e ora sono in esilio». Il suocero della giornalista è il rabbino capo di Mosca, Pinchas Goldschmidt. Due giorni fa è circolata una sua dichiarazione: altro che “denazificazione”, diceva Goldschmidt, «la guerra di Putin in Ucraina sta portando al più grande esodo d’ebrei che si ricordi dai tempi del nazismo e di Stalin». Già metà dell’ampia comunità ebraica ucraina, secondo Goldschmidt, è riparata in Moldavia, Polonia, Israele, America. E, aggiungeva, “zitti zitti” cominciano a partire gli ebrei russi. Breve, sinistro tweet. Gli ebrei sono come una cartina di tornasole dello stato delle cose in una società: se un Paese è democratico, civile, stanno tranquilli. Se invece fanno le valigie, è un gran brutto segno. Accadde in Germania negli anni 30 del Novecento, quando i più avveduti emigrarono prima dell’Olocausto. Se poi il rabbino capo di Mosca già è partito, deve voler dire qualcosa. (Gli ebrei se ne accorgono subito: da un titolo di giornale, da una scritta sulla porta di casa avvertono l’odore dell’odio. Lo conoscono, quell’odore. E, se possono, vanno).
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