TAIWAN: A CHE PUNTO È LA GUERRA?

Prima, durante e dopo l’«irresponsabile e odiosa provocazione» americana del 2 agosto Pechino ha ripetuto il noto mantra strategico: «Niente e nessuno potrà cambiare la tendenza storica che assicurerà il ritorno di Taiwan alla madrepatria». Meglio un ritorno a casa con le buone, ma se necessario anche con le cattive: l’eroico Esercito Popolare di Liberazione è già pronto alla bisogna, e Pechino non fa nulla per nascondere il suo prodigioso riarmo – soprattutto nel fondamentale settore marittimo. Taipei e Washington hanno capito che tra pochi anni quel mantra è destinato a trasformarsi in una decisione politica idonea a trasformare la «tendenza storica», nonché rivendicazione ufficiale della Repubblica Popolare Cinese dalla sua fondazione nel 1949, in un fatto storico di prima grandezza: come reagire a quella sciagurata (per l’imperialismo statunitense e per il nazionalismo taiwanese, beninteso) prospettiva?

Per gli Stati Uniti e per Taiwan la domanda acquista una particolare pregnanza anche alla luce dell’intervento militare russo in Ucraina, il quale prova la possibilità dell’azione militare di notevole portata strategica nel contesto dell’odierno “ordine mondiale”.  «Probabilmente pesa anche la preoccupazione di non ripetere gli errori commessi con Vladimir Putin in Ucraina quando la prudenza della Casa Bianca (la promessa di “non mandare scarponi sul terreno”, il reiterato rifiuto di istituire una no-fly zone, l’offerta a Zelensky di evacuarlo in Polonia) potè essere interpretata come un tacito via libera all’invasione» (F. Rampini, Il Corriere della Sera). Dopo il 24 febbraio Giappone e Corea del Sud hanno bisogno di forti rassicurazioni da parte dell’alleato americano: «Gli Stati Uniti non vi abbandoneranno», ha fatto sapere Nancy Pelosi per interposta Presidente taiwanese Tasai Ing-wen.

Il blitz diplomatico della Presidente della Camera Usa Nancy Pelosi a Taiwan nell’immediato ha fatto registrare un indubbio successo degli Stati Uniti sulla Cina già per il solo fatto di aver avuto luogo dopo settimane di avvertimenti, “consigli” e plateali minacce da parte di Pechino. Lavorando di sponda con il Presidente Biden (nella parte del poliziotto buono), la speaker del Congresso statunitense, nonché pezzo grosso della nomenclatura del Partito democratico, ha voluto vedere le carte in mano a Xi Jinping per rivelarne il bluff e metterlo in difficoltà non solo sul piano internazionale, ma anche, e forse soprattutto, su quello interno – in vista del 20° Congresso del Partito Capitalista Cinese (1). Washington e Taipei hanno messo in debito conto le conseguenze economiche, diplomatiche e militari della “provocazione” del 2 agosto, e se alla fine hanno deciso di andare fino in fondo questo può significare solo due cose: o stanno sottovalutando gravemente la volontà e la capacità cinese di agire con la massima decisione e forza, oppure intendono andare allo scontro finale, alla definitiva resa dei conti con la Cina nel breve periodo, prima che il gigante asiatico possa ulteriormente rafforzarsi anche sul piano militare al punto da non poter più essere battuto.

Tutti gli attori in campo sanno che la cosiddetta ambiguità strategica, per cui si fa finta che esista una sola Cina (quella che ha Pechino come capitale) mentre in realtà ne esistono due (una delle quali è appunto sostenuta in tutti i modi dagli Stati Uniti), non può durare ancora a lungo, perché Taiwan ha acquisito sia per la Cina che per gli Stati Uniti un’importanza strategica tale da non poter più armonizzarsi con il vecchio status quo: urge sciogliere l’ambiguità (2). Si avvicina insomma a rotta di collo il momento in cui le due potenze capitalistiche devono imporre al mondo l’esistenza di una sola Cina o di due Cine entrambe formalmente riconosciute dal “concerto delle nazioni” – oppure di «diverse Cine più o meno indipendenti», come scriveva ieri sulla Stampa Lucio Caracciolo: «L’America non vuole la guerra, né oggi né domani. Spera che dopodomani la questione cinese si risolva da sola, per suicidio del regime comunista, in perfetto stile sovietico. Ma è pronta a combattere oggi, domani o dopodomani se Pechino attaccasse Taiwan». Anche Washington amerebbe avere a che fare con una sola Cina: quella creata a immagine e somiglianza di Taiwan – che peraltro fino al 1978 rappresentò per gli americani l’unica Cina. Ovviamente Taiwan è molto più importante per la Cina che per gli Usa, anche perché costituisce la componente essenziale della prima catena di isole che intercetta le rotte del Pacifico dalla Cina continentale e dal Mar Cinese Meridionale. Oltre a essere una regione economicamente assai sviluppata dove si produce il 60% di tutti i semiconduttori mondiali. La Cina è il primo partner commerciale di Taiwan (il valore stimato dell’interscambio nel 2021 era di 328 miliardi di dollari), il 33% dell’import-export dell’isola con il mondo, secondo i dati forniti da Taipei.

«Lo status di superpotenza tecnologica però non rappresenta una garanzia contro un’invasione cinese, anzi. Di recente si è parlato di una “strategia del porcospino”, come lezione che Taiwan avrebbe imparato dall’Ucraina: dotarsi di armamenti studiati su misura per rendere dolorosa e costosa un’invasione, anche se l’aggressore è molto più grosso e potente» (F. Rampini).

Scrive il Generale Carlo Jean: «La sua [di Taiwan] importanza si è accresciuta sia per il sorgere del contrasto fra gli Usa e la Cina, come elemento determinante del nuovo ordine mondiale, sia per l’importanza attribuita nella strategia globale americana e in quella cinese all’interazione fra i regimi politici interni e la loro geopolitica, cioè al contrasto fra le democrazie liberali e le autocrazie, fra il Washington e il Beijing Consensus» (Formiche.net). La questione taiwanese va insomma considerata alla luce del sempre più acceso scontro sistemico (economico, tecnologico, scientifico, geopolitico, ideologico) che oppone i due campioni dell’imperialismo mondiale. Detto en passant, per chi scrive «il Washington e il Beijing Consensus» sono le due facce di una stessa escrementizia medaglia.

Mentre scrivo Pechino è impegnata in una controffensiva economica, militare, diplomatica e propagandistica (il nazionalismo cinese pompato dal regime nelle vene del corpo sociale va nutrito a dovere) senza precedenti contro la «provincia ribelle», che da parte sua ha modo di testare sul campo la “strategia del porcospino”. Staremo a vedere gli sviluppi della situazione. Intanto dall’Unione Europea fanno sapere che una «escalation non è necessaria»: in che senso? Il “pacifismo” degli europei produce sempre concetti davvero ammirevoli, e soprattutto non banali…

L’essenza della vicenda di Taiwan non ha a che fare con la democrazia, né con una questione di principio circa la sovranità e l’integrità territoriale di Taiwan o della Cina: quell’essenza è da ricercarsi in primo luogo nel processo sociale capitalistico colto nella sua contraddittoria e complessa totalità e nella sua dimensione mondiale.

Come internazionalista/anticapitalista non posso che augurarmi un’unione fraterna tra le classi subalterne delle “due Cine” rivolta contro il comune nemico. Purtroppo quest’unione appare oggi una possibilità assai remota, ma d’altra parte è la sola pratica che offre a quelle classi il modo di preparare una concreta risposta ai giorni di sacrifici e di dolori che il dominio promette e prepara. In ogni caso, è da questa peculiare prospettiva che continuerò a seguire la questione.

(1) «Scrive Lucio Caracciolo sulla Stampa di oggi: “C’erano una volta due Cine, la comunista e la nazionalista. Mao e i suoi eredi, padroni della Repubblica Popolare Cinese, contro Chiang Kai-shek arroccato a Taiwan. Oggi c’è una sola Cina, comunista e nazionalista, incarnata da Xi Jinping. La coreografia di massa con cui il leader ha celebrato in Piazza Tiananmen i cent’anni di vita del Partito comunista ha sanzionato al suono dell’Internazionale la crasi nazionalcomunista (il primo aggettivo è decisivo, il secondo irrinunciabile ma decorativo)”. Più che “decorativo” il secondo aggettivo è semplicemente falso, e parlare di un “comunismo imperiale” a proposito del regime cinese suona, oltre che comico, ridicolo in modo difficilmente eguagliabile. Ma i tempi sono quel che sono, e personaggi come Caracciolo possono cianciare di “nazionalcomunismo” e di “comunismo imperiale” senza temere di cadere nel ridicolo. Altro che “crasi” (commistione di concetti e parole): trattasi piuttosto di crisi del “pensiero raziocinante”, per dirla con il filosofo» (La Cina capitalista nella “transizione ecologica”).

(2) Scriveva Maria Weber nel 2006: «Il White Paper on the One-Cina Principle del febbraio 2000 afferma che i negoziati per la riunificazione del paese possono essere svolti in condizioni di piena eguaglianza tra le due parti. ciò che è imprescindibile è che venga accettato il principio dell’unità indivisibile della Cina. nel novembre 2002, il XVI congresso del partito comunista ha ribadito che la Cina negozierebbe sulla base della formula un paese, due sistemi, già applicata a Hong Kong e Macao e tale da permettere a Taiwan di amministrarsi democraticamente. Per non rinunciando a evocare la guerra quando i politici di Taiwan evocano l’indipendenza, la Cina pare insomma aver imparato che il ricorso alle minacce a fini coercitivi rischia di ritorcersi a suo danno, inducendo l’opinione pubblica taiwanese a sostenere i politici che chiedono una dura contrapposizione a pechino e incentivando gli stati uniti a fornire a Taiwan una migliori capacità difensive. […] Perfino il presidente Chen Shui-bian, eletto con i voti degli indipendentisti, non si è mai opposto ad una maggiore integrazione economica [con la Cina] e non esclude che questa possa portare a una composizione pacifica del pluridecennale stallo politico» (M. Weber, La Cina alla conquista del mondo, pp. 138-140, Newton Compton Editori, 2006).  Allora l’economia cinese era al sesto posto nella classifica mondiale come dimensione – aveva superato l’Italia nel 2004. La Cina si collocava oltre il centesimo posto come Pil pro capite. Il Libro bianco su Taiwan del 2000 proclama l’esistenza della nazione cinese (Taiwan compresa) da oltre cinquemila anni – e dunque ben prima che il concetto stesso di nazione fosse coniato. Diciamo che il PCC difetta quanto a “materialismo storico”…

DALL’UCRAINA A TAIWAN IL GIOCO SI FA SEMPRE PIÙ DURO

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TAIWAN: LA CINA È SEMPRE PIÙ VICINA!

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5 pensieri su “TAIWAN: A CHE PUNTO È LA GUERRA?

  1. L’analisi geopolitica di Dagospia:

    LE GUERRE HANNO SEMPRE RADICI INTERNE – LE ESERCITAZIONI MILITARI SULLO STRETTO DI TAIWAN SERVONO AL DITTATORE CINESE PER DISTOGLIERE L’ATTENZIONE DAL MALCONTENTO PUBBLICO NEL SUO PAESE: L’ECONOMIA RALLENTA, LO STATO DI POLIZIA DILAGA E IN AUTUNNO C’È IL CONGRESSO DEL PARTITO. PER QUESTO MOSTRA I MUSCOLI. MA A FURIA DI MINACCIARE, PRIMA O POI DOVRÀ AGIRE PER NON PASSARE DA CACASOTTO.

  2. «L’embargo cinese sulla sabbia non fermerà i chips di Taiwan. Dall’isola arrivano oltre il 90% dei microprocessori più sofisticati, quelli per smartphone e pc. Ma il silicio di grado elettronico non si ricava da qualunque tipo di sabbia. E per questa materia prima Taiwan oggi dipende poco da Pechino» (Il Sole 24 Ore).

  3. ISTERIA NAZIONALISTA/MILITARISTA E L’ABISSO DIETRO L’ANGOLO

    Il portavoce del ministero della Difesa cinese Tan Kefei fa sapere quanto segue:

    «Informiamo con tutta serietà la parte americana e le autorità di Partito Progressista Democratico di Taiwan che il contenimento della Cina attraverso la questione di Taiwan non avrà successo e per chi dipende servilmente dalle forze esterne non c’è via di uscita. Le provocazioni compiute in collusione da USA e Taiwan non faranno altro che spingere l’isola in un abisso e portare pesanti disastri ai compatrioti di Taiwan. La ferma salvaguardia della sovranità e integrità territoriale della Cina è la forte determinazione degli 1,4 miliardi di cittadini cinesi e la realizzazione della riunificazione completa cinese rappresenta ormai una tendenza storica irreversibile. La volontà del popolo non va violata e chi gioca col fuoco finirà per bruciarsi. Difenderemo risolutamente la sovranità e l’integrità territoriale nazionale e non lasceremo spazio ad alcuna forma di condotta che appoggia l'”indipendenza di Taiwan” e a qualsivoglia ingerenza esterna» (Quotidiano del Popolo).

  4. È “UFFICIALE”: CON LE BUONE O CON LE CATTIVE!

    L’Ufficio per gli affari di Taiwan del Consiglio di Stato e l’Ufficio informazioni del Consiglio di Stato della Repubblica Popolare Cinese hanno pubblicato oggi un libro bianco intitolato La questione di Taiwan e la riunificazione della Cina nella nuova era. La novità più rilevante sul piano politico-strategico che si ricava dalla lettura del documento consiste nel fatto che per la prima volta, almeno così mi pare, Pechino ammette in un documento ufficiale di prima grandezza di volere annettere Taiwan anche con l’uso della forza. Cito alcuni passi:

    «Per realizzare la riunificazione pacifica, dobbiamo riconoscere che la terraferma e Taiwan hanno i loro sistemi sociali e ideologie distinti. Il principio “un Paese, due sistemi” è la soluzione più inclusiva a questo problema. È un approccio che si basa sui principi della democrazia, dimostra buona volontà, cerca una soluzione pacifica per la questione di Taiwan e offre vantaggi reciproci. Le differenze nel sistema sociale non sono né un ostacolo alla riunificazione né una giustificazione per il secessionismo. Lavoreremo con la massima sincerità ed eserciteremo tutti i nostri sforzi per ottenere una riunificazione pacifica. Ma non rinunceremo all’uso della forza e ci riserviamo la possibilità di prendere tutte le misure necessarie. Questo per proteggerci dalle interferenze esterne e da tutte le attività separatiste. Ciò non prende di mira in alcun modo i nostri concittadini cinesi a Taiwan. L’uso della forza sarebbe l’ultima risorsa adottata in circostanze impellenti» (Quotidiano del Popolo Online).

    La vicenda di Hong Kong getta qualche ombra, diciamo così, «sui principi della democrazia», sulla «buona volontà» e sul “pacifismo” di cui parla il regime cinese. Per quanto riguarda il principio “un Paese, due sistemi” occorre dire che in realtà si tratterebbe di “un Paese, un sistema sociale”: quello capitalistico. Com’è noto, oggi esistono – di fatto – due Paesi (Cina e Taiwan) aventi lo stesso sistema sociale.

    Qui è solo il caso di ricordare la mia posizione sulla scottante questione: contro il Celeste Imperialismo Cinese e contro il nazionalismo taiwanese sostenuto in tutti i modi dall’imperialismo statunitense e dagli altri suoi alleati asiatici ed europei. Sostenere una delle due parti in conflitto significa mettersi dal punto di vista dell’Imperialismo Unitario – non unico – e contro gli interessi dell’umanità, in generale, e delle classi subalterne, in particolare. È la stessa posizione che difendo sul conflitto Russo-Ucraino.

  5. Pingback: LA CINA DEL GRANDE TIMONIERE | Sebastiano Isaia

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