IL DELITTO DELLA PENA. UNA RIFLESSIONE SUL CARCERE

Attraverso un corridoio lungo e fetido, seminato qua e là di mucchi d’immondizie, Nekliudoff e l’inglese entrarono nel primo camerone, quello dei condannati ai lavori forzati. […] – E allora come, secondo voi, si dovrebbero trattare chi trasgredisce la legge? – chiese l’inglese con un sorriso. – Già! La legge! – gridò il vecchio con un tono di scherno. – La legge! Sei proprio tu, quello che può venirmi a parlare di legge! Hanno cominciato ad impossessarsi della terra, hanno spogliato tutti gli uomini d’ogni ricchezza, hanno tolto di mezzo chiunque gli opponesse resistenza; poi hanno fatto una legge, la quale dichiara che non si deve né uccidere né rubare! Ma sta’ pur sicuro che prima, non l’avrebbero scritta la loro legge! (L. N. Tolstoj, Resurrezione).

Sono 54.000 i detenuti ammassati nelle carceri italiane (contro una capienza di 46.000), e 59 quelli che si sono suicidati dall’inizio dell’anno – circa 20 decessi non hanno ancora una causa accertata, 1078 i suicidi tentati e sventati. Senza contare «una carcerazione preventiva lunghissima, che lascia segni indelebili su un 29% di soggetti che alla fine il sistema giudiziario riconoscerà innocenti» (Ristretti Orizzonti). Finire, da “colpevoli” o da “innocenti”, negli ingranaggi del sistema giudiziario in generale, e in quello italiano in particolare significa uscirne in ogni caso devastati economicamente, socialmente e psicologicamente.

La realtà del carcere come discarica sociale è un fatto che non scandalizza né indigna nessuno, salvo una ristrettissima minoranza di persone sensibili alle condizioni di vita degli «ultimi fra gli ultimi». Gli attivisti che si battono per migliori condizioni di vita dei reclusi credono che se l’opinione pubblica fosse messa nelle condizioni di conoscere la disumana condizione carceraria di migliaia di esseri umani, assisteremmo a una loro mobilitazione, a una loro “rivolta morale”. Purtroppo le cose non stanno affatto così, e giustamente si dice che  il carcere non porta voti, anzi li fa perdere. Non a caso l’ex magistrato Carlo Nordio, che nel corso della campagna elettorale si è permesso di esternare considerazioni contrarie al giustizialismo imperante a “destra” come a “sinistra”, è stato prontamente silenziato dal partito di Giorgia Meloni che pure lo ha candidato e proposto come possibile futuro Ministro della Giustizia.  

La macelleria messicana in alcune carceri italiane del marzo 2020 lasciò del tutto indifferente la cosiddetta opinione pubblica, tutta concentrata sulla “guerra pandemica”. Dopo la diffusione delle notizie sull’«orribile mattanza» al carcere Santa Maria Capua Vetere durata dal 6 al 9 aprile 2020, il politicume versò qualche escrementizia quanto ipocrita lacrima sulle solite «poche mele marce», ma la gente allora non si dimostrò particolarmente esigente quanto a conoscenza dei fatti e accertamento delle responsabilità: «Si sa, il carcere è pieno di brutti ceffi che non è possibile controllare e contenere usando i guanti di velluto». In questo difficile ambiente può capitare che anche chi fa il bravo si becchi per sbaglio una bella razione di calci e di pugni: bisogna essere realisti! Spesso la gente esibisce un realismo che fa impallidire la stessa pessima realtà.

La verità è che gente “onesta” si occupa del problema carcerario solo quando è toccata in qualche modo in prima persona, solo quando ne fa la traumatizzante esperienza. Fino a quel momento, l’onesto cittadino pensa che quel problema riguardi solo chi “ha sbagliato”: «Ognuno raccoglie ciò che semina!» I politici manettari e i mass media che sguazzano nel pantano delle paure, delle angosce, delle frustrazioni, della rabbia e dell’invidia sociale trovano nell’opinione pubblica un terreno assai fertile, un terreno concimato, arato e irrigato giorno dopo giorno dalle relazioni e dalle pratiche sociali che realizzano la cosiddetta società civile – bellum omnium contra omnes. Il fatto che la cosiddetta “insicurezza percepita” sul piano criminale (furti, rapine, omicidi) non abbia alcun fondamento nella realtà (1) è il sintomo di un’insicurezza sociale ed esistenziale ben più profonda, generalizzata e strutturata. L’offerta di più carcere e controllo sociale da parte dello Stato e delle sue appendici partitiche cerca di rispondere in qualche modo a quel senso di insicurezza e di inquietudine. Punire alcuni per tranquillizzare molti.

«Il sistema penitenziario non appartiene alla categoria della giustizia ma a quella della vendetta. Per questo motivo va superato» (Altreconomia). Va superato in che senso, in quale direzione? Per dare un significato socialmente e politicamente pregnante all’affermazione appena riportata, occorre in primo luogo chiarire a quale giustizia si fa riferimento, non essendo mai esistita una giustizia priva di precisi connotati e presupposti storici e sociali. Non c’è niente di più caratterizzato sul piano storico e sociale del concetto di giustizia. Per farla breve, stiamo parlando della giustizia capitalistica – o borghese che dir si voglia. Ecco allora che la relazione tra giustizia e vendetta assume una dimensione più concreta, concettualmente più pregnante, tale cioè da dissolvere l’apparente “aporia” che sembra sussistere tra quei due concetti. Tra la giustizia di classe e la vendetta pubblica non si apre alcun abisso concettuale e reale, e anzi si può cogliere una radice comune, una radicale continuità. In epoca borghese la vendetta è, come la violenza, un monopolio di Stato, il quale si incarica di praticarla sul reo per conto terzi, sollevando così dall’incombenza la “società civile” e il singolo cittadino, che può appunto vendicarsi per un torto subito solo attraverso lo Stato.

Tra punizione (fare/somministrare giustizia) e vendetta esiste dunque una sostanziale continuità e omogeneità di concetti e di pratiche che le distinzioni di tipo giuridico ed etico, così utili a mistificare la realtà, non possono cancellare. Esattamente come accadeva al tempo in cui il potere sovrano esibiva sulla pubblica piazza il tormento che somministrava al reo, lo Stato moderno continua a scrivere la sua legge sui corpi dei condannati, in primo luogo facendo della loro testa un carcere. 

La «rieducazione del condannato» è ciò che sta scritto sulla Carta (Art. 27) mentre ciò che si dà nella realtà è l’educazione permanente del popolo degli onesti cittadini, i quali devono conoscere il pessimo destino che li attende una volta che essi “scelgono” di deviare dalla retta via, di dichiarare guerra alla “sana e civile convivenza”. Si punisce il reo non per rieducarlo in vista di un suo “operoso ravvedimento” e quindi inserimento nella società, ma soprattutto per educare chi vive fuori dal carcere: punirne uno per educarne cento! Chi sbaglia paga! Non si tratta di una scelta, ma di una pratica che si afferma nella realtà, alle spalle di qualsivoglia buona o cattiva volontà.

Il carcere deve dunque in primo luogo incutere paura negli onesti, i quali per qualsiasi circostanza potrebbero saltare il fosso della legalità e ritrovarsi sul terreno della criminalità, e più il carcere si presenta ai loro occhi un luogo di afflizione e disperazione, e più fortemente e profondamente la paura di incorrere nei rigori della Legge penetra nella loro coscienza. Il carcere non solo ti toglie la libertà, ma ti pone soprattutto in una condizione di degrado fisico, psicologico e morale permanente e crescente; se non ti adegui alle regole del carcere (fissate anche dai criminali più violenti), sei perduto: questo messaggio deve arrivare forte e chiaro agli onesti cittadini, soprattutto nei momenti di più acuta crisi sociale, quando l’illegalismo diffuso potrebbe incrociare pratiche eversive sul piano politico.

Il carcere funziona male? Bene! In questo peculiare senso il cosiddetto fallimento del carcere, di cui si parla praticamente da quando è stato aperto il primo carcere moderno (fine XVIII secolo inizio XIX) e che da sempre legittima le proposte per la sua “riforma” (2); questo fallimento, non voluto ma realizzato con encomiabile zelo e precisione dal sistema carcerario, rappresenta il successo funzionale del carcere, la sua ragion d’essere concreta (efficiente), nella misura in cui i «trattamenti contrari al senso di umanità» e la mancata “risocializzazione” del reo rappresentano di fatto una minaccia agitata sopra la testa di tutti gli individui. Ecco a che cosa serve soprattutto il carcere. Punire ed educare. Punire e intimidire.

È “fallendo” che il carcere adempie il suo compito. Non si tratta, ripeto, di un’astuzia del potere, di un obiettivo voluto e perseguito con spregevole tenacia da una maligna Soggettività, ma di una contraddizione reale che si manifesta in un particolare contesto: quello del controllo sociale e della repressione dei comportamenti considerati illegali dall’ordine costituito. Se di astuzia si può parlare, si tratta di un’astuzia che si dà oggettivamente, attraverso il normale dispiegarsi del processo sociale, con il quale devono misurarsi il diritto e i “sacri princîpi” stabiliti dalla Civiltà.

Il problema della colpa, della pena e della responsabilità individuale va collocato nella peculiare dimensione storico-sociale qui rapidamente abbozzata: chi crea il reo e il reato? Se, ad esempio, abolissimo magicamente il potere del denaro e della ricchezza capitalistica in tutte le sue molteplici manifestazioni, cosa ne sarebbe dei reati connessi a un tale potere? Che ne sarebbe dei furti, delle rapine, delle truffe, degli omicidi legati a queste pratiche illegali? Sarebbero concepibili tali reati in una simile società? «Per la psicologia sociale la domanda si pone in questi termini: non si chiede perché l’affamato ruba o perché lo sfruttato sciopera, ma il motivo per cui la maggior parte degli affamati non ruba e perché la maggior parte degli sfruttati non sciopera» (3).

Oggi le carceri sono piene di piccoli spacciatori di “sostanze droganti”, la maggior parte dei quali vende la “droga” per poterla a sua volta comprare e consumare. Si tratta di persone che andrebbero aiutate, non certo criminalizzate e caricate di ulteriori problemi economici, psicologici, sanitari, esistenziali. Cosa ne sarebbe dei reati connessi al proibizionismo sulle cosiddette droghe se il vigente regime antiproibizionista venisse abolito? La risposta è tutt’altro che difficile: il superamento di quel regime farebbe crollare immediatamente il prezzo delle “droghe”, con grandissimo disappunto da parte delle organizzazioni criminali, che infatti sono le prime a difendere lo status quo proibizionista che trasforma in oro tutto quello che tocca. Per comprendere il giro d’affari che ruota solo intorno alla cannabis venduta illegalmente è sufficiente sapere che quel mercato in Italia può oggi contare su sei milioni di consumatori. Non dimentichiamo che la mafia americana fece il suo salto di qualità criminale negli anni Venti del secolo scorso grazie al proibizionismo sull’alcol, che ne centuplicò i profitti mentre riempiva le carceri e i sanatori di miserabili alcolizzati. I ricchi bevevano dell’ottimo whisky nelle loro ville o nei loro esclusivi club, mentre il proletariato doveva accontentarsi di robaccia magari fatta in casa con improponibili intrugli in grado di provocare gravi intossicazioni.

Si sa benissimo che l’alcol e le sigarette creano una grave forma di dipendenza in chi ne fa uso e causano gravi malattie che ogni anni mietono migliaia di vittime: si tratta di cifre che fanno impallidire i numeri dei morti legati all’uso delle “droghe”. Eppure l’alcol e il tabacco sono sostanze il cui consumo è permesso e non crea alcuno stigma sociale, tutt’altro! Vero è che negli ultimi tempi la moda salutista sta cercando di imporre ai consumatori un “nuovo stile di vita” e un “consumo più responsabile” di tutte le sostanze che ingeriamo: dalla pasta alla cioccolata! E mentre cerchiamo di consumare il cibo in modo “responsabile”, sempre più spesso ci ingozziamo di intrugli chimici comprati in farmacia per placare l’ansia, l’angoscia, la depressione. In ogni caso, ci troviamo nella dimensione della legalità: ci è concesso di bere alcol, di fumare sigarette, di ingolfarci con pasta e cioccolata e di consumare pillole e sciroppi che promettono serenità e sonni tranquilli. Ma per carità: niente spinelli, niente eroina, niente “sostanze droganti”!

E quanta parte ha questa società nei reati connessi alla violenza fisica sulle persone (a cominciare da quella sulle donne)? Non bisogna essere degli psicanalisti particolarmente intelligenti ed esperti per individuare in quei comportamenti profonde influenze di tipo sociale – a partire dall’ambiente familiare dei “rei”. La tesi che afferma la naturale tendenza al male degli uomini non regge nemmeno un secondo dinanzi alle ricerche antropologiche e storiche circa il comportamento degli individui nei diversi contesti sociali, e non a caso il carcere moderno è una creatura borghese.

Anziché concentrare la nostra attenzione sul “mostro” di turno, dovremmo piuttosto chiederci fino a che punto le condizioni sociali siano responsabili delle sue azioni, fino a che punto il “mostro” sia stato generato a immagine e somiglianza della presente società. Qui non si tratta di giustificare né il reo né il reato, ma di capire il significato sociale dell’uno e dell’altro, comprenderne la genesi da una prospettiva che non concede alcuna legittimità alle esigenze di difesa dell’ordine sociale costituito, che si contrappone radicalmente all’ideologia (ma anche alla psicologia, all’etica, alla morale) dominate, che come diceva Marx è l’ideologia delle classi dominanti. Accettare il terreno della responsabilità personale significa arrendersi al Dominio sociale, oltre che esibire un’assoluta incomprensione circa la natura e il funzionamento della nostra società.

Questo solo per dire che la radice del male non va ricercata negli individui che commettono reati ma nella società che crea sempre di nuovo le stesse premesse di quei reati. Capovolgere la relazione causa-effetto significa precludere al pensiero di accedere a una riflessione critica che sappia cogliere la realtà del problema celata dall’ideologia dominante. Giustamente si dice che il carcere è il luogo in cui l’uomo può solo peggiorare; il carcere è certamente un luogo altamente criminogeno, in grado di trasformare in pessimi soggetti  le persona più buone e “oneste” di questo mondo; ma non bisogna dimenticare che l’esistenza del carcere ha appunto come suo presupposto questa società, la quale peraltro stilla violenza sistemica (economica, politica, psicologica) da ogni suo poro. Chi si batte per migliori condizioni di vita dei detenuti e contro il carcere in quanto tale, in quanto istituzione totale necessariamente disumana, farebbe bene ad abbandonare certe illusioni “costituzionaliste”, le quali indeboliscono la sua battaglia sul piano dell’efficacia e della critica politica.

La concezione pattizia del potere sovrano, che è una concezione ideologica tipicamente borghese, presenta il reo come un individuo che infrangendo la legge entra in collisione non solo con lo Stato, ma con l’intero corpo sociale, il quale avrebbe delegato al primo la funzione di difendere la comunità dagli attacchi del nemico interno ed esterno. Questa concezione annulla, ovviamente sul mero terreno ideologico, la divisione classista degli individui, nega la realtà di una società fondata sullo sfruttamento degli uomini e della natura, e pone in primo piano e in piena luce la responsabilità dei singoli individui, ai quali la società riconosce, bontà sua, la facoltà di scegliere tra ciò che è “bene” e ciò che è “male”. Ma cosa rimane del “libero arbitrio” in una società che nega in radice ogni autentica libertà a individui sottoposti a un processo sociale che essi per l’essenziale non controllano affatto nei suoi presupposti e nei suoi esiti? Sto forse alludendo, marxianamente parlando, al Capitale come potenza sociale anonima che noi non controlliamo e dal quale siamo invece controllati e in larghissima parte determinati – molto più di quanto ci piace pensare o sperare? Certamente! Nella vigente società il “libero arbitrio” è una menzogna, un concetto che serve a legittimare lo status quo sociale e a conservare la “pace sociale”. Si colpevolizza il singolo “reo” per salvare la cattiva totalità sociale. Nella società classista, che presuppone e pone sempre di nuovo rapporti di dominio e di sfruttamento, il “libero arbitrio” è negato in radice, è una sciocca favoletta che le classi dominanti cercano in tutti i modi di raccontare e far digerire ai dominati per conquistarne i cuori e le menti. Il senso di colpa deve penetrare a fondo nella coscienza e nella psiche dei subalterni.

In una società fondata sullo sfruttamento dell’uomo sull’uomo in base a quale ragionamento (politico, filosofico, etico) un individuo dovrebbe ad esempio rinunciare per principio all’idea di arricchirsi rapidamente e senza troppo faticare, anche se questo dovesse significare il ricorso a una pratica illegale? Sfruttare un uomo è forse eticamente meno riprovevole che rubare, truffare, trafficare illegalmente e via di seguito? Speculare sul prezzo del gas e del grano sapendo benissimo gli effetti nefasti che quell’attività perfettamente legale (certo, «entro i giusti limiti»: sic!) produce sulla povera gente è socialmente meno spregevole e meno dannosa di chi pratica un furto? Voglio forse gli speculatori in carcere? No! Non voglio la società capitalistica che crea sempre di nuovo contraddizioni e sofferenze d’ogni tipo, tutto qui. Io non auguro il carcere a nessuno!

Il denaro è denaro, il profitto è profitto, e poco conta, nella sostanza storico-sociale della questione, la fonte della ricchezza. Portare a case il pane col biblico sudore sulla fronte è una massima scritta dai padroni sulla pelle degli sfruttati, i quali sono educati fin dalla nascita a concepire l’esistenza dei “ricchi” e dei “poveri”, dei padroni e dei lavoratori, di chi comanda e di chi ubbidisce come la realtà più naturale del mondo: «Solo un pazzo o un disadattato non capisce che le cose sono andate sempre così e che così andranno sempre!» La società esalta i pochissimi nullatenenti che “ce la fanno”, che diventano ricchi dopo decenni di duro lavoro, per poter dire ai tantissimi che non ce la faranno mai che con l’impegno e l’onestà c’è una possibilità per tutti: l’importante è crederci e provarci. Perché stupirsi se ci sono nullatenenti che intendono essere fra i pochissimi che ce la fanno, anziché fra i moltissimi che non ce la faranno mai? «Uno su mille ce la fa? Io voglio essere quell’uno!» Accomodati, a tuo rischio e pericolo! La potenza sociale del denaro, espressione più alta e veritiera dei rapporti sociali capitalistici, legittima e spiega qualsiasi delitto commesso per averlo. «La verità è che in questa società borghese ogni lavoratore, purché sia un tizio intelligente ed astuto, e dotato di istinti borghesi, e favorito da una fortuna eccezionale, ha la possibilità di trasformarsi in sfruttatore del lavoro altrui. Ma se non ci fosse lavoro da sfruttare, non ci sarebbero capitalisti né produzione capitalistica» (4).

Il pesce puzza dalla testa, ossia dai rapporti sociali di dominio e di sfruttamento. Al Tribunale che sanziona l’errore del reo, bisogna obiettare che sbagliata (disumana, violenta, irrazionale, illiberale) è in primo luogo questa società. Io assolvo Caino e condanno la società che lo ha messo nelle condizioni di fare del male al suo prossimo.

Questa “disorganica” riflessone vuole soprattutto problematizzare il concetto di etica, allo scopo di conferirgli un preciso contenuto politico, calandolo nella dimensione dell’antagonismo di classe, così da sottrarlo dall’astratta riflessione filosofico-morale e costringerlo a misurarsi con la realtà della società classista.  

Fin dall’inizio (intorno alla fine del XVIII secolo) l’istituzione carceraria come la conosciamo oggi è uno strumento al servizio della classe dominante, ed essa non può certo perdere la sua natura classista con lo sviluppo, l’espansione e il potenziamento dei rapporti sociali capitalistici. L’abolizione (5) del carcere come luogo di punizione, di correzione e di intimidazione degli individui presuppone, a mio avviso, le seguenti alternative: o gli esseri umano escono fuori una volta per sempre dalla dimensione classista della società, presupposto delle magagne che giustificano l’esistenza di quello che Foucault chiamava «il carcerario», oppure il dominio di classe diventa così forte e radicato nella coscienza, nella psiche e nei corpi degli individui da non aver più bisogno di ricorrere a metodi coercitivi per tenere a bada il gregge, per amministrare la massa degli individui socialmente lobotomizzati. Ovviamente io scelgo l’alternativa “utopistica” – che peraltro appare più realistica, oltre che più “simpatica”, di quella “distopica”. In ogni caso, posta la società vigente l’abolizione del carcere attraverso il ricorso generalizzato alle misure penali alternative (rese possibili anche dall’uso securitario delle “tecnologie intelligenti”: vedi braccialetto elettronico) non attesterebbe un più sviluppato senso di umanità del potere sociale ma piuttosto un suo rafforzamento. Dominare i sudditi con il loro consenso, senza ricorrere a misure coercitive: è da sempre il sogno del potere sovrano.

Il diritto è ciò che le classi dominanti mettono in opera, attraverso lo Stato in tutte le sue articolazioni, per difendere, rafforzare ed espandere il loro potere sociale. Il diritto di punire è fondato dunque sul dominio di classe, e chi parla del carcere come di «un male necessario» deve chiedersi quali condizioni sociali realizzano quel male, che rimane tale anche se necessario – ossia funzionale a difendere le condizioni sociali che creano il male in ogni sua espressione. La sola “riforma carceraria” che riesco a considerare con favore coincide con lo smantellamento del sistema di classe capitalistico in vista della costruzione di una comunità autenticamente umana.   È da questo peculiare punto di vista che approccio “il carcerario” e le lotte di quanti cercano di rendere meno penosa possibile la vita dei detenuti.

(1) «L’opinione pubblica è convinta che in Italia si punisca poco e che in carcere non ci finisca nessuno. In realtà siamo uno dei paesi dove si punisce maggiormente e dove si registra una elevata permanenza dei detenuti in carcere, in misura decisamente superiore ad altri paesi europei. C’è una narrazione costante in questo senso che ha scopi di natura propagandistica. Perciò, è necessario ripartire dai dati oggettivi. Per fare un esempio, in Italia le condanne sono più lunghe che in molti paesi europei (anche Francia e Germania) e, oltre alle condanne, anche l’effettiva permanenza in carcere è più lunga da noi che altrove. Ecco, i dati vincono, sono numeri che non possono essere contestati. Detto questo, non si può negare che i giornali e l’informazione in rete molto spesso danno spazio a casi eclatanti. Casi che pure esistono, e di cui dunque non si può negare o nascondere l’esistenza, ma che non sono la maggior parte. Sono i grandi numeri a fotografare la realtà complessiva, non pochi casi clamorosi. E i grandi numeri ci dicono, per esempio, che i detenuti che usufruiscono di benefici e che commettono reati durante il permesso o mentre si trovano fuori per alcune misure alternative sono in realtà un numero ridottissimo. Questo dato è incontestabile, si possono fare tante chiacchiere ma non si può che partire dalle statistiche».

(2) «Bisogna anche ricordare che il movimento per riformare le prigioni, per controllarne il funzionamento, non è un fenomeno tardivo e neppure sembra esser nato dalla constatazione di uno scacco, stabilito chiaramente. La “riforma” della prigione è quasi contemporanea alla prigione stessa. Ne è come il programma. […] La prigione ha sempre fatto parte di un campo attivo, dove abbondavano i progetti, le ristrutturazioni, le esperienze, i discorsi teorici, le testimonianze, le inchieste. Attorno all’istituzione carceraria, tutta una prolissità, tutto uno zelo. La prigione, territorio oscuro e abbandonato? Il solo fatto che non si sia cessato di dirlo da quasi due secoli prova che non lo era? Divenuta punizione legale, essa ha affardellato il vecchio problema del diritto di punire, di tutti i problemi, di tutte le agitazioni che hanno ruotato intorno alle tecnologie correttive dell’individuo» (M. Foucault, Sorvegliare e punire, 1975, pp. 255-256, Einaudi, 1982).

(3) W. Reich, Psicologia di massa del fascismo,p. 51, Sugarco, 1982.

(4) K. Marx, Il Capitale, libro primo, capitolo sesto inedito, pp. 136-137, Newton Compton, 1976.

(5) «Questa utopia comincia a essere presa sul serio da alcuni criminologi. Per esempio, Louk Hulsman, professore di diritto penale all’università di Rotterdam, difende la teoria dell’abolizione del sistema penale. Il ragionamento su cui si basa questa teoria si ricollega ad alcune delle sue analisi: il sistema penale crea il delinquente, si rivela fondamentalmente incapace di realizzare le finalità sociali che è supposta perseguire, qualsiasi riforma è illusoria. L’unica soluzione coerente è la sua abolizione. Hulsman osserva che la maggior parte dei reati sfugge al sistema penale senza mettere in pericolo la società. Propone allora di decriminalizzare sistematicamente la maggior parte degli atti e dei comportamenti che la legge considera crimini o reati, e di sostituire al concetto di crimine quello di “situazione-problema”.  La nozione di “situazione-problema” non conduce a una psicologizzazione sia dell’atto che della reazione? Una pratica come questa non rischia, anche se non è ciò che spera Hulsman, di condurre ad una specie di dissociazione tra le reazioni sociali, collettive, istituzionali del crimine da una parte che verrà considerato un incidente e dovrà essere regolato alla stessa stregua, e dall’altra, per quanto riguarda il delinquente, a una iper-psicologizzazione che lo rende oggetto di interventi psichiatrici o medici, con dei fini terapeutici?» (Che cosa vuol dire punire? Intervista a Michel Foucault,Rivista Volontà, Aprile 1990).

2 pensieri su “IL DELITTO DELLA PENA. UNA RIFLESSIONE SUL CARCERE

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