Dal Presidente della Repubblica al Presidente del Consiglio; da Berlusconi a Letta, dal primo all’ultimo dei politicanti, dal Manifesto alla Stampa, da Papa Francesco agli intellettuali più prestigiosi di questo Paese; per farla breve, dall’Italia “resiliente e democratica” si leva una sola parola d’ordine: Cittadini, andate a votare! Il pressante invito è rivolto soprattutto ai giovani, i quali «rappresentano il futuro del Paese». Oggi spetta al noto teorico della psicobanalisi Massimo Recalcati la palma d’oro della polemica nei confronti dell’odiato e temuto «partito dell’astensionismo». La riflessione “critica” di Recalcati si articola in più punti, che riprendo brevemente non per polemizzare con lui, ma per precisare la mia posizione sul tema – peraltro espressa in un post di qualche settimana fa.
«Noi viviamo in un tempo che si caratterizza per un discredito diffuso nei confronti della politica. Essa non è più, come pensava Aristotele, l’arte delle arti, quella che rende possibile la vita della polis, ma è divenuta l’ombra triste di se stessa» (La Repubblica). Come se la politica fosse un concetto astratto e astorico, e non avesse invece precisi e radicati connotati di classe! Di quale politica si parla qui? Della politica radicata nei rapporti sociali capitalistici, ovviamente. Della politica come espressione dell’odierno dominio di classe, il quale peraltro ha oggi una dimensione mondiale: dalla Cina agli Stati Uniti, dalla Russia all’Italia ecc. tutti gli individui del mondo condividono la stessa società capitalistica – la quale è tutt’altro che omogenea quanto a grado di sviluppo. «La vita della polis» di cui parla il nostro intellettualone deva fare i conti con questa incontestabile realtà sociale che conosce la disumana divisione classista degli individui. Poi c’è la politica rivoluzionaria, la politica anticapitalista e antimperialista, la quale ormai da molto (troppo!) tempo non ha alcun seguito presso le classi subalterne – problema che rinvia direttamente alla catastrofe stalinista che spazzò via il movimento operaio internazionale che si richiamava a Marx ed Engels. Per Massimo Recalcati questo discorso non ha alcun senso, visto che per lui in Italia il “comunismo” era incarnato da Enrico Berlinguer – erede del togliattismo, ossia dello stalinismo con caratteristiche italiane.
A differenza dei difensori del vigente sistema sociale, l’anticapitalista non solo non guarda con dispiacere e timore alla secessione delle classi subalterne dalla politica capitalistica (o borghese, come si diceva un tempo), ma la guarda invece con simpatia, ne fa un motivo di impegno politico, ben sapendo peraltro che il generico astensionismo elettorale, comunque significativo sul piano sintomatologico, non si trasforma automaticamente in una presa di coscienza da parte di chi disprezza i partiti oggi presenti sulla scena politica e il teatrino parlamentare. Magari molti astensionisti sono in attesa dell’ennesimo demagogo e “populista” – si vede che quelli oggi in circolazione sul mercato non sono per loro appetibili, o non lo sono più.
«Se la politica è luogo di malaffare e di corruzione, se la sua distanza dal paese reale è divenuta farsesca e intollerabile, se i politici rappresentano una casta separata e ingiustamente privilegiata, lontanissima dai problemi che investono la vita reale, allora rifiutarsi al voto si configura come una reazione pulsionale che esprime un giudizio di rifiuto e di condanna senza appello nei confronti della politica». L’anticapitalista lavora appunto per trasformare questa «reazione pulsionale» in coscienza di classe, ossia nella consapevolezza del fatto che non si tratta di gettare via la vecchia classe dirigente e sostituirla con una nuova di zecca, possibilmente eticamente corretta e tutta dedita agli interessi del Paese. Condannare senza appello la politica che serve gli interessi del Paese, cioè della società capitalistica, e favorire lo sviluppo di una politica centrata sul radicale rifiuto di questa società e dello Stato che ne è il principale cane da guardia. Trasformare «l’antipolitica» in politica rivoluzionaria! Vasto e impegnativo programma, lo so, ma di questo si tratta: o questo o Massimo Recalcati!
«Per molti giovani l’iniziazione alla vita politica attraverso l’esperienza del primo voto è vissuta senza alcun desiderio. L’evaporazione della politica è un fenomeno che implica anche la perdita di ogni slancio ideale nei confronti della partecipazione alla vita collettiva. […] Non si tratta dunque di estendere il diritto di voto ai sedicenni, ma, casomai, di fare in modo che siano loro stessi a richiederlo con forza, di fare nascere nelle nuove generazioni il desiderio per la politica e per la partecipazione attiva alla vita del nostro paese». Il punto di vista di Recalcati è il «nostro paese», cioè questa società che crea sempre di nuovo sofferenze, contraddizioni, comportamenti irrazionali, disagi d’ogni genere, e dove l’auspicata «partecipazione alla vita collettiva» ha il significato di una collaborazione attiva e col sorriso sulle labbra alla difesa dello status quo sociale (sociale, non meramente politico-istituzionale), di un’integrazione più o meno armoniosa in questa società concepita come il migliore dei mondi possibili, o comunque il solo possibile per chi accetti il “sano e maturo” principio di realtà. La disillusione nei confronti della democrazia capitalistica può essere un primo passo in avanti in direzione di una più consapevole visione della realtà. Può essere, e l’anticapitalista chiaramente lavora su questa eccezionale possibilità. Recalcati fa bene ad averne invece paura.
«Un quinto livello riguarda la rimozione della nostra storia. La conquista del diritto di voto è stata nel nostro paese una conquista bagnata di sangue. Questo si dovrebbe insegnare nelle nostre scuole. Un debito simbolico ci lega profondamente alle generazioni che lo hanno conquistato». Fascismo e democrazia capitalistica sono due diverse espressioni di uno stesso dominio di classe, di una stessa dittatura sociale: quella capitalistica. Il mito resistenzialista, nutrito soprattutto dalla sinistra (cioè dagli stalinisti del PCI), mistifica la natura imperialistica della Seconda carneficina mondiale e la radicale continuità sociale (ma per molti aspetti anche politico-istituzionale) tra il regime fascista e quello postfascista – la cui nascita si deve soprattutto all’imperialismo angloamericano. Altro che «debito simbolico!»
Concludo citando un saggio di psicobanalisi, sempre a cura del nostro intellettuale: «Tocchiamo qui un ultimo livello del problema dell’astensionismo, quello più psicologico. Astenersi è quasi sempre una reazione di tipo infantile ad una situazione di frustrazione vissuta come insopportabile. Anziché provare a cambiare una condizione di difficoltà si preferisce uscire dal gioco. Senza ovviamente registrare che questa autoesclusione non solo non può interrompere il gioco che proseguirà anche senza di noi, ma rischia di avvantaggiare i nostri avversari. Anche in questo caso lo sguardo dell’astensionista resta sempre narcisisticamente rivolto al proprio ombelico». Non riuscendo nemmeno a immaginare la possibilità di «uscire dal gioco» (quello realizzato dal dominio sociale capitalistico, dalle relazioni e dalle pratiche informate da quel dominio di classe), Recalcati non può non vedere nell’astensionismo che una forma infantile e impotente di reazione nei confronti del mondo degli adulti, che va magari contestato, ma non certo abbandonato cedendo a immature “tentazioni narcisistiche”. La tesi psicopolitica di Recalcati si può riassumere come segue: chi partecipa attivamente alla vita del “sistema”, o del Paese (leggi capitalismo), magari per contestarlo e cambiarlo, è un cittadino maturo e aperto alla collettività; chi non lo fa è un individuo che esibisce una «estrema e regressiva» tendenza antipolitica e che ama guardare solo il proprio ombelico. Com’è facile buttarla sempre in psicobanalisi! È la logica della delega che ci rende socialmente infantili e politicamente impotenti.
La verità è che l’astensionismo e, più in generale, la passività politica delle masse inquietano la classe dirigente perché teme di perdere il controllo su di esse, di non riuscire più a capire cosa bolle nella pentola sociale. «L’astensionismo ha diversi significati ma tutti portano a un discredito della vita pubblica»: di qui il mio “astensionismo strategico”!
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