CADE ANCORA UNA VOLTA IL VELO DEL REGIME SANGUINARIO

Secondo le ultime notizie sono almeno 50 i manifestanti uccisi nel corso delle manifestazioni dilagate in tutto l’Iran dopo il brutale e mortale pestaggio di Mahsa Amin, arrestata dall’infame polizia della morale (sic!) per aver indossato «in modo improprio» l’hijab. Si contano anche diversi bambini uccisi. Il governo di Teheran ha organizzato le solite contromanifestazioni “oceaniche” a favore dell’obbligo del velo islamico – un po’ come sta facendo il governo russo per sostenere la famigerata “mobilitazione parziale”. La parola d’ordine delle manifestazioni di regime è: «Sostenere la fine del velo è fare politica alla maniera degli americani». Se poi molti giovani iraniani simpatizzano segretamente per gli Stati Uniti, non è cosa che possa stupire l’osservatore occidentale.

L’ultimo massacro realizzato dal regime iraniano risale al 2019; allora fonti non ufficiali parlano di 450 morti, 4.000 feriti e 10.000 manifestanti arrestati e detenuti con pesantissime accuse, alcune delle quali prevedono la pena di morte per impiccagione. Negli ultimi cinque anni sono state uccise e ferite dal regime migliaia di persone, e altre migliaia sono state imprigionate e torturate.

«Gli agenti verificano anche che i vestiti siano sufficientemente larghi per nascondere le forme: molte donne iraniane hanno raccontato di essere state redarguite o fermate anche per l’uso di rossetto, stivali, jeans strappati o gonne non abbastanza lunghe» (Il Post). Attraverso un ottuso e criminale controllo del corpo delle donne e la negazione di ogni forma di “devianza” e “trasgressione”, il regime degli āyatollāh cerca di controllare l’intera società, cercando soprattutto il consenso degli uomini di tutte le classi sociali, irretiti in una gretta mentalità patriarcale spacciata all’interno e all’estero come un’originalità culturale, un segno distintivo nei confronti del corrotto e satanico Occidente. Per questo in Iran è così importante il movimento di protesta delle donne, il quale può accendere la miccia di una ribellione sociale più vasta che cova ormai da moltissimo tempo.  La rabbia sociale è alimentata da una crisi economica sempre più devastante che impoverisce larghissimi strati della popolazione e che certamente non si spiega solo – o principalmente – con le sanzioni statunitensi e occidentali, le quali in ogni caso incidono su un tessuto sociale già largamente lacerato e in larga misura compromesso.

Nel luglio del 2021 si sono verificati gravi scontri nelle aree rurali del Paese, con proteste che hanno visto come protagonisti i contadini alle prese con una serie di disastri climatici, e nei centri urbani del Sud del Paese. Secondo le ultime stime oltre il 55% della popolazione iraniana vive al di sotto della soglia di povertà, e di certo la liberalizzazione dei prezzi dei generi alimentari e l’eliminazione di molti sussidi, provvedimenti decisi dal regime nella scorsa primavera, di certo non contribuiscono a migliorare la condizione di vita di milioni di nullatenenti. Secondo il sociologo Mohammad Reza Mahboubfar «vi sono in Iran anche bambini di appena sei anni dediti al furto, per cercare di contribuire al sostentamento delle loro famiglie». Negli ultimi mesi anche gli operai di molte imprese (soprattutto nel fondamentale settore petrolifero) e gli insegnanti hanno fatto sentire la loro voce contro il carovita, e le minoranze etniche discriminate (come le etnie curde, baluch, bakhtiari, lors, arabe e turche) si sono associate a quelle proteste, a dimostrazione che quando si apre una crepa nel muro della repressione e del controllo sociale le diverse tensioni sociali si orientano velocemente verso quella crepa, allargandola pericolosamente.  

Ma sbaglia gravemente chi vede nel regime degli āyatollāh un anacronismo storico, qualcosa di storicamente superato: esso è piuttosto uno strumento al servizio del capitalismo nazionale e internazionale, il quale si serve dell’ideologia religiosa per garantirsi un consenso sociale all’interno di un Paese estremamente complesso, segnato da grandi e potenzialmente dirompenti contraddizioni sociali. Non va poi sottovalutato il ruolo di media potenza che l’Iran gioca nella sua area di competenza geopolitica. Scrivevo su un post del 2019: «Il regime khomeinista non può tollerare che la crisi sociale interna possa indebolire la proiezione esterna dell’imperialismo iraniano, attivissimo, com’è noto, in tutta l’area mediorientale, peraltro attraversata da acute tensioni sociali: vedi Iraq, Libano, ecc. Come sempre, politica interna e politica internazionale sono le due facce della stessa escrementizia medaglia – naturalmente questo è vero per tutti i Paesi del mondo.

Soprattutto le classi subalterne iraniane pagano i costi salatissimi delle sanzioni imposte al Paese dagli Stati Uniti, e quindi si può senz’altro dire che esse sono vittime della contesa imperialistica, oltre che del capitalismo iraniano con “caratteristiche khomeiniste”». L’altro ieri invece scrivevo: «Sono sicuro che molti amici italiani di Putin sentono puzza di “rivoluzione colorata” in Iran: che personaggi escrementizi!» Confermo!

IRAN. OGGI E IERI

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