La miseria dell’operaio porta i colori della civiltà.
K. Marx
Osserviamo di passaggio che, quando si è capito questo
rapporto tra capitale e lavoro, tutti i tentativi di
mediazione appaiono in tutta la loro ridicolaggine.
K. Marx
Lungi dal rappresentare uno strumento di liberazione ed emancipazione sociale, il lavoro salariato, il lavoro come si configura necessariamente nella società capitalistica, il lavoro di cui parla l’Art. 1 della Costituzione Italiana, questo lavoro storicamente e socialmente peculiare è il più formidabile strumento di sfruttamento, di oppressione e di degrado sociale dei lavoratori. Il lavoro salariato non rende liberi i lavoratori, ma li rende al contrario schiavi delle condizioni sociali prodotte sempre di nuovo dal rapporto sociale capitalistico.
Questa maligna peculiarità del lavoro salariato prescinde dal suo aspetto quantitativo: “basso” o “alto” che sia, il salario attesta il carattere radicalmente ostile che il lavoro ha necessariamente nella società dominata dal Capitale. Il problema del lavoro salariato è immanente al suo stesso concetto, e non è possibile risolverlo senza estinguere il lavoro salariato stesso. Ovviamente estinguere il lavoro salariato non equivale affatto a eliminare il lavoro in generale, come prassi specificamente umana di realizzare i prodotti (materiali e immateriali) idonei a soddisfare i molteplici bisogni degli individui e della comunità colta nella sua totalità. Il sistema salariale configura il lavoro come esso si dà nelle vigenti condizioni storico-sociali, le quali oggi hanno una dimensione mondiale – e difatti anche il mercato del lavoro ha questa dimensione, con ciò che ne segue sul livello dei diversi salari nazionali.
Il lavoro salariato non conferisce dignità agli individui che sono costretti ad accettarlo per vivere: esso ci parla piuttosto della riduzione del lavoratore (e non semplicemente del lavoro) alla condizione di merce, perché il salario che egli riceve in cambio di una specifica prestazione lavorativa (valore d’uso) non è che la monetizzazione del suo valore di scambio, esattamente come accade per la realizzazione (attraverso la vendita) del prezzo di qualsiasi merce. Quanto costa la vita di un lavoratore? La somma dei beni e servizi idonei a riprodurlo (insieme alla sua famiglia) nella sua qualità di lavoratore. In realtà il lavoratore è una merce specialissima, perché a differenza delle altre merci dal suo consumo origina il plusvalore, fonte di ogni forma di profitto e di rendite. Consumando (ossia sfruttando) la merce-lavoratore, il capitale intasca il vitale plusvalore. Tutto questo discorso può suonare cinico, ma bisogna capire che il cinismo sta nella cosa stessa (nella forma salariata del lavoro), non nelle parole che cercano di restituirne la sostanza – andando oltre il velo delle mistificazioni giuridiche e ideologiche che cercano di coprirla (1). Il lavoro salariato impoverisce esistenzialmente chi è costretto a farne l’esperienza.
Il concetto di “lavoro povero”, ossia di un lavoro che costringe il lavoratore in una condizione sociale non dissimile da quella di chi non lavora affatto e rientra senz’altro nella non esaltante rubrica dei poveri statisticamente rilevati (2); questo concetto, dicevo, che qui non intendo approfondire nei suoi termini prettamente economico-sociali, a me pare quantomeno ambiguo, perché lascia immaginare come sua polarità logica un “lavoro ricco”, un lavoro gratificante sotto diversi aspetti per chi ha la “fortuna” di esercitarlo. Per farla breve, attraverso il concetto di “lavoro povero” si cela, nei fatti, la natura socialmente miserabile del lavoro salariato in quanto tale, come fondamento oggettivo della società dominata dal Capitale nelle sue diverse fenomenologie: merce, denaro, salario, mezzi di produzione, tecnica, scienza.
Per Maurizio Landini, Segretario Generale della CGIL (e aspirante leader supremo della “sinistra”), «Nel nostro Paese si può essere poveri anche lavorando, e ciò contrasta con la nostra Costituzione che fonda la Repubblica sul lavoro». Certo, sul lavoro salariato, il quale presuppone un modo di produzione di “beni e servizi” che genera continuamente precariato, disoccupazione e povertà. Lungi dal contraddire la lettera e lo “spirito” della Costituzione (borghese) del nostro Paese, il lavoro povero, il lavoro precario e il lavoro nero (tre diversi modi di chiamare lo stesso fenomeno) ne mettono invece in piena luce la natura di classe.
Molti lavoratori poveri, precari e “in nero” trovano un sostegno nel cosiddetto Reddito di cittadinanza, che molto spesso viene appunto a “integrare” i loro magrissimi salari (3). Altro che gente amante del divano! Del resto, il fatto che il famigerato Reddito in non pochi settori lavorativi si pone come valida alternativa al salario corrisposto ai lavoratori la dice lunga sulla miseria di quel salario. «E poi i borghesi vengono a dire: “Se la gente volesse lavorare”» (4). Ma, si sa, prendersela con i poveri è più facile che fare i conti con la povertà, o meglio ancora con la società che la rende possibile. Fanno poi ridere tutte quelle persone che si avvantaggiano dei “redditieri” vendendo loro “beni e servizi”, e che al contempo sbraitano contro il parassitismo sociale finanziato dallo Stato! Del Reddito di cittadinanza come “misura keynesiana” di sostegno al «consumo in grado di pagare» (il solo che sorride al Capitale) si è parlato fin da subito – quando si aprì il miserrimo dibattito su ciò che i percettori del reddito avrebbero potuto comprare: vietato spendere il sussidio in oggetti superflui e di “lusso”! Ma ritorniamo al concetto di lavoro salariato.
La lotta per ottenere salari più alti e migliori condizioni di lavoro e di esistenza non deve farci dimenticare che per i lavoratori il problema fondamentale consiste appunto nella forma capitalistica (salariale) che il lavoro assume, e che presuppone e pone sempre di nuovo la separazione del prodotto del lavoro da chi lo produce; la separazione delle condizioni oggettive del lavoro (mezzi di produzione, materie prime e così via) da chi quelle condizioni usa per generare un plus di valore al capitalista che lo adopera in cambio di un salario. La natura giuridica della proprietà capitalistica (statale, privata, “mista”, azionaria, cooperativista, ecc.) non muta di un solo atomo la questione qui trattata – lo stesso Marx considerava il capitalista privato un mero agente della produzione, la personificazione del capitale, il quale è in primo luogo e fondamentalmente un rapporto sociale, una potenza sociale anonima.
Dal punto di vista sociale, il lavoro salariato è sempre “povero”, ed è anzi sempre più povero, anche se la sua espressione monetaria (il suo prezzo) dovesse raggiungere un livello molto superiore al salario minimo stabilito per legge o per contratto, o al salario medio sociale. Com’è noto Marx parlava di «miseria crescente dei lavoratori», un concetto fondamentale travisato nel modo più triviale non solo dai suoi critici dichiarati ma anche da molti suoi pessimi epigoni, evidentemente molto indigenti quanto a intelligenza e a capacità dialettiche. Si è cercato di inchiodare il comunista di Treviri alla croce di una concezione pauperistica della società borghese che egli ha peraltro sempre combattuto con molta energia – e spesso con la sua pungente ironia (5). Moltissimi critici di Marx alla prova dei fatti si mostrano in un rapporto inversamente proporzionale al grado di conoscenza e di comprensione che essi hanno degli scritti marxiani: più criticano e pontificano, meno conoscono e comprendono.
Cosa intendeva dunque Marx per «miseria crescente»? Cerco di dare una risposta molto sintetica – e perciò stesso molto approssimativa; come sempre il mio consiglio è di rivolgersi alla fonte originale.
Mentre la produttività sociale del lavoro cresce senza sosta e a ritmi sempre più accelerati, grazie all’impiego sempre più diffuso, capillare e razionale della tecnoscienza nel processo produttivo, la parte del prodotto sociale che spetta ai lavoratori (attraverso la mediazione del denaro-salario) relativamente diminuisce progressivamente, si fa relativamente sempre più esigua, a prescindere dalla quantità assoluta del salario. In termini monetari il salario può benissimo salire, e questo in ogni caso dipende dalla composizione organica del capitale, dalla contingenza del ciclo economico e dalla forza che i lavoratori riescono a mettere in campo; cionondimeno, in termini relativi (cioè sociali) i lavoratori diventano sempre più poveri. Crescente produttività del lavoro e impoverimento relativo dei lavoratori rappresentano due diversi modi di considerare lo stesso fenomeno, due differenti modi di chiamare la stessa cosa.
Riflettendo sul lavoro povero, su come risolvere questa grave “piaga sociale”, il professore Pietro Ichino scrive: «La via maestra per valorizzare meglio il lavoro consiste nel favorirne l’aumento di produttività» (6). Qui Ichino usa il termine «valorizzare» nel senso esattamente opposto all’uso che Marx ne fa nell’ambito della sua teoria del valore. Per Ichino valorizzare il lavoro significa attribuirgli un valore maggiore in termini di conoscenze ed esperienze (elevare il “capitale umano”), così da poterlo vendere a un prezzo più elevato, mentre per Marx è il capitale che si autovalorizza, che accresce il proprio valore attraverso lo sfruttamento del lavoro (7). Valorizzare il capitale e sfruttare il lavoratore sono la stessa cosa. Tuttavia, Ichino incrocia un aspetto centrale del problema qui trattato.
Ecco come Marx esprimeva già nel 1847 il tragico paradosso che tormenta l’esistenza di chi per vivere è costretto a vendere sul mercato una capacità lavorativa di qualche genere: «Una delle condizioni principali per l’aumento del salario è l’incremento, un incremento il più possibile rapido, del capitale produttivo. Per l’operaio che vuole trovarsi in una situazione passabile, la condizione principale è quindi di deprimere sempre più la sua situazione di fronte alla classe borghese, di accrescere il più possibile la potenza del suo avversario, del capitale. Cioè egli può trovarsi in una situazione passabile alla sola condizione che produca e rafforzi la potenza a lui ostile, il suo antagonista» (8).
Il cosiddetto consumismo di massa paradossalmente (in realtà dialetticamente) esprime questa contraddizione sociale iscritta nel codice genetico del Capitale, il quale non può fare a meno di approfondire «l’abisso sociale che separa l’operaio dal capitalista», il quale quando le cose gli vanno bene riserva al primo briciole un po’ più grosse: «La situazione materiale dell’operaio è migliorata, ma a scapito della sua situazione sociale. L’abisso sociale che lo separa dal capitalista si è approfondito» (9).
Quando parliamo in termini giustamente critici di consumismo e di mercificazione, non dobbiamo dimenticare la natura di merce dello stesso lavoro («L’attività umana = merce», per dirla con Marx), e come questa natura mostruosa (disumana) del lavoro è necessariamente e inscindibilmente legata alla presente società. Solo a partire da questa consapevolezza può iniziare a mio avviso una riflessione etica sul lavoro che abbia un reale fondamento e una reale profondità concettuale, e non sia invece la solita ripetizione dei luoghi comuni sul lavoro che darebbe dignità agli individui e che li libererebbe dal bisogno: pure e semplici menzogne.
Se il processo allargato di produzione non riesce a soddisfare le condizioni di profittabilità dell’investimento, cosa che si registra attraverso la caduta del saggio di profitto, l’accumulazione del capitale entra in sofferenza e a farne le spese sono i lavoratori, costretti a lavorare in modo sempre più produttivo, o ad accettare salari più bassi per scongiurare di finire tra i senza lavoro. Già questa dinamica ci dice come “lavoro povero” e “lavoro ricco” non siano in realtà che le due facce della stessa pessima medaglia, e come essi si presuppongano vicendevolmente e passino dall’uno all’altro con estrema facilità. In Italia il passaggio dal “lavoro ricco” al “lavoro povero” è una tendenza attiva almeno da venti anni (10), e oggi essa conosce un approfondimento a causa dell’improvvisa fiammata inflazionista post pandemia.
Spesso il salario non diminuisce solo in termini relativi, ossia in rapporto alla produttività del lavoro, ma anche in termini assoluti, ossia in termini di potere d’acquisto. Passare dalla miseria relativa alla povertà assoluta è un evento tutt’altro che eccezionale nella vita dei lavoratori. Chi contrappone l’uno all’altro concetti come alto livello del salario, basso livello del salario, occupazione, disoccupazione, ricchezza, povertà, stabilità, precarietà, espansione economica, crisi economica e via di seguito; chi lavora con questi concetti per costruire coppie antinomiche mostra di non capire l’essenza della società capitalistica, in particolare le leggi che informano la produzione/distribuzione della ricchezza sociale come essa si dà appunto nella presente Società-Mondo. Per il capitalismo le sue «insanabili contraddizioni» non sono accidenti dovuti a alla cattiva volontà di qualcuno, alla brama di ricchezza dei pochi avidi, o alla inettitudine/corruzione dei “decisori politici”: esse sono piuttosto immanenti al concetto stesso di Capitale.
«Entro il sistema capitalistico tutti i metodi per incrementare la forza produttiva sociale del lavoro si attuano a spese dell’operaio individuo; tutti i mezzi per lo sviluppo della produzione si capovolgono in mezzi di dominio e di sfruttamento del produttore, mutilano l’operaio facendone un uomo parziale. […] Ne consegue quindi, che nella misura in cui il capitale si accumula, la situazione dell’operaio, qualunque sia la sua retribuzione, alta o bassa, deve peggiorare. […] Questa legge determina un’accumulazione di miseria proporzionata all’accumulazione di capitale» (11).Tutto ciò «significa forse che la classe operaia deve rinunciare alla sua resistenza contro gli attacchi del capitale e deve abbandonare i suoi sforzi per strappare dalle occasioni che le si presentano tutto ciò che può servire a migliorare la sua situazione? Se essa lo facesse, essa si ridurrebbe al livello di una massa amorfa di affamati e di disperarti, a cui non si potrebbe più dare nessun aiuto. […] Se la classe operaia cedesse per viltà nel suo conflitto quotidiano con il capitale, si priverebbe essa stessa della capacità di intraprendere un qualsiasi movimento più grande» (12). Ed è precisamente in vista di un «movimento più grande» (la rivoluzione sociale anticapitalista) che Marx invitava la classe operaia, per un verso a rigettare la reazionaria «legge bronzea dei salari» che suggerisce ai lavoratori l’inutilità delle lotte “economiche” per strappare ai padroni aumenti salariali, e per altro verso a «non dimenticare» che questa lotta «contro gli effetti, ma non contro le cause, può soltanto frenare il movimento discendente, ma non mutare la direzione, ; che essa applica soltanto dei palliativi, ma non cura la malattia». Marx ed Engels rimproveravano alle Trade Unions proprio questo fondamentale limite, e cioè di organizzare esclusivamente «una guerriglia contro gli effetti del sistema esistente», mentre si trattava «di servirsi della loro forza organizzata come di una leva per la liberazione definitiva della classe operaia, cioè per l’abolizione definitiva del sistema del lavoro salariato» (13). Di qui, per Marx ed Engels, l’esigenza per il proletariato di costituirsi «in classe, e quindi in partito politico» (14).
È su questo peculiare terreno concettuale che a mio avviso occorre collocare ogni ragionamento intorno al cosiddetto “lavoro povero”, facile terreno di caccia per riformatori sociali e “populisti” d’ogni tendenza politica.
(1) Un solo esempio: «Il lavoro è una dimensione irrinunciabile della vita sociale, perché non solo è un modo di guadagnarsi il pane, ma anche un mezzo per la crescita personale, per stabilire relazioni sane, per esprimere se stessi, per condividere doni, per sentirsi corresponsabili nel miglioramento del mondo e, in definitiva, per vivere come popolo». (Papa Francesco, Fratelli tutti, 2020, p. 162). Sì, come popolo oppresso, disumanizzato e sfruttato! Quanto è meschino il “mondo migliore” che hanno in testa i riformatori sociali! Ciò che più mi irrita è che questi riformatori vengono definiti “visionari” dall’opinione pubblica pensante, la quale in tal modo esibisce tutta la sua miopia intellettuale.
(2) Studi recenti rilevano che il “lavoro povero”, che riguarda circa 4,5 milioni di lavoratori, ricade specialmente sulle fasce sociali più vulnerabili (donne, giovani, migranti) e su alcune aree del Paese (meridione o aree suburbane). Da molto tempo questo tipo di lavoro è diventato un fenomeno strutturale delle economie occidentali. «L’insorgere del fenomeno era già stato evidenziato negli Stati Uniti a partire dalla fine degli anni Settanta del secolo scorso ed è legato, in larga parte, al processo di de-regolazione dei mercati del lavoro e al moltiplicarsi delle formule flessibili di rapporto di impiego. In particolare, le riforme degli anni Novanta hanno creato un mercato del lavoro duale. […] Al contrario di quanto prospettato da certi contributi teorici che immaginano e/o descrivono una società dell’informazione, la terziarizzazione dell’economia e la diffusione di potenti innovazioni tecnologiche non eliminano profili tradizionali che svolgono compiti semplici e ripetitivi. In questo gruppo – costituto da operai non specializzati e proletario dei servizi – troviamo spesso coloro che compongono gli anelli “marginali” o “più deboli” delle catene del valore, o in altri termini dei network di grandi imprese e organizzazioni pubbliche. Molteplici indagini hanno dimostrato che in alcuni settori, e soprattutto in quello industriale, la qualità del lavoro si muove secondo un gradiente negativo, proporzionale al posto occupato nella catena di valore o network di imprese» (A. Di Bartolomeo, Chi sono i lavoratori poveri?, Journal of Applied Economics, Vol. XXX, No. 2, Dicembre, 2011, pp.14-49).
(3) Non ci voleva una laurea in economia e una specializzazione in “Politiche attive del lavoro” per capire la natura del cosiddetto Reddito di cittadinanza: trattasi di una misura tipicamente assistenziale/clientelare. Perfino chi scrive l’aveva capito, come attesta il titolo di un suo vecchio post scritto nel 2018, cioè prima che la misura venisse attuata: Sul reddito di sudditanza. Pare che i risultati elettorali riguardanti il partito di Giuseppe Conte abbiano confermato pienamente la tesi qui esposta: «I politici hanno fatto una grande scoperta: i poveri votano chi li aiuta» (Il Fatto quotidiano). Credo che anche i pentastellati, nonostante la loro sprovvedutezza politica, diciamo così, avessero ben chiara la natura tutt’altro che “lavorista” del RDC, e infatti hanno fatto di tutto per spacciarla all’opinione pubblica come una misura legata organicamente alle “Politiche attive del lavoro”. Su questo tema leggi anche Maledetti redditieri!
(4) K. Marx, Salario, 1847, Opere, VI, p. 436, Editori Riuniti, 1973. «Rapporto inverso di profitto e salario. Antagonismo delle due classi la cui esistenza economica sono il profitto e il salario» (p. 434).
(5) «Nulla c’è di più falso dell’affermazione che la teoria marxiana del salario lo faccia scendere al minimo necessario di esistenza nel senso della dottrina classica della legge bronzea del salario e ammetta dunque un peggioramento della situazione della classe operaia, ed escluda invece un miglioramento delle condizioni di vita della stessa. È semplicemente inammissibile identificare il concetto marxiano di costi di riproduzione della forza lavoro con il minimo fisico di esistenza. L’alto tenore di vita dell’operaio inglese rappresenta soltanto i costi di riproduzione necessari per l’operaio inglese, così come il basso salario rappresenta quello dei coolies cinesi. […] La tendenza all’aumento del salario reale e la tendenza all’impoverimento, ben lontano dal contraddirsi, rispecchiano piuttosto due differenti livelli di accumulazione di capitale» H. Grossmann, Il crollo del capitalismo, 1929, pp. 547-551 Jaca Book, 1977).
(6) P. Ichino, Huffington Post, 17 giugno 2021.
(7) «Il processo di produzione, in quanto unità di processo lavorativo e di processo di creazione di valore, è processo di produzione di merci; in quanto unità di processo lavorativo e di processo di valorizzazione, è processo di produzione capitalistico, forma capitalistica della produzione delle merci» (K. Marx, Il Capitale, I, p. 231 Editori Riuniti, 1980).
(8) K. Marx, Salario, p. 446.
(9) K. Marx, Lavoro salariato e capitale, 1849, p. 68, Newton Editori, 1978.
(10) «Occorre rompere il circolo vizioso della povertà, proprio nel momento in cui si affaccia l’inquietante fenomeno del “lavoro povero”, cioè quelle forme di attività remunerate che non consentono a un individuo – soprattutto donne – di uscire dalla soglia di povertà» (S. Cofferati, La Repubblica, 8 novembre 2000).
(11) K. Marx, Il Capitale, I, p. 706, Editori Riuniti, 1980.
(12) K. Marx, Salario, prezzo e profitto, 1865, p.115-116, Newton Editori, 1976.
(13) Ibidem, p. 117.
(14) «Questa organizzazione dei proletari classe, e quindi in partito politico, viene ad ogni istante nuovamente spezzata dalla concorrenza che gli operai si fanno fra loro stessi. […] Di quando in quando gli operai vincono, ma solo in modo effimero. Il vero risultato delle lotte non è il successo immediato, ma la unione sempre più estesa degli operai» (K. Marx, F. Engels, Manifesto del Partito comunista, 1848, Opere, VI, pp. 494-495, Editori Riuniti, 1973).
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