CON I RIBELLI IRANIANI! CONTRO IL REGIME OMICIDA DEGLI AYATOLLAH!

La furia omicida del regime misogino e mortifero degli ayatollah sembra non conoscere alcun limite. Le donne e i curdi iraniani sono le vittime preferite dei massacratori scatenati apertamente dal governo iraniano: «Schiacceremo sotto i talloni tutti i provocatori e i traditori». La lotta delle donne è particolarmente temuta dal regime per la valenza generale che da sempre ha il movimento delle donne in Iran, attivo già dal 1979; attraverso l’ottuso controllo del corpo delle donne quel regime ha infatti praticato il controllo politico, ideologico e “religioso” dell’intero corpo sociale. Oggi il Muro della donna velata sembra poter finalmente crollare miseramente – con evidente allusione a un altro famigerato Muro, quello di Berlino. La ribellione (o «rivoluzione», come preferiscono chiamarla i manifestanti) sta coinvolgendo anche i giovanissimi delle scuole medie-superiori, e infatti si contano molti arrestati di giovani di età non superiore ai quindici anni.

Il limite politico del movimento di lotta si coglie soprattutto nei suoi appelli alla «comunità internazionale», chiamata a esprimere la sua solidarietà al popolo in lotta e una dura condanna delle violenze perpetrate dal regime iraniano. In questo modo si espone il movimento al rischio di diventare parte dello scontro interimperialistico, con i Paesi occidentali disposti a sostenere il cambio di regime in Iran e i Paesi del fronte opposto orientati nel senso opposto – non a caso in Russia e in Cina si evoca il triste concetto di “rivoluzione colorata”. Qui emerge l’impotenza delle classi dominanti di tutto il mondo, incapaci di esprimere la loro solidarietà e il loro attivo sostegno al movimento di lotta iraniano; un’impotenza che stiamo registrando in tutta la sua drammatica ampiezza sul fronte della guerra imperialista che ha come suo campo di battaglia militare l’Ucraina, e l’intera Europa come suo più importante (non esclusivo) teatro economico-sociale.

Inutile dire che la fazione borghese iraniana non legata direttamente allo sfruttamento della rendita petrolifera e alle commesse statali ha tutto l’interesse che le «sataniche tradizioni occidentali» trionfino, così da permettere una più ampia (libera) espansione del mercato interno. Non bisogna quindi sottovalutare la “dialettica” interna alla classe dominante del Paese, che si riflette nella tradizionale “dialettica” tra “ortodossi” e “riformisti”. «La novità di questa protesta è la sua indipendenza rispetto a un fattore squisitamente politico, come ad esempio quelle più importanti del passato emerse in concomitanza con le elezioni presidenziali o legislative. I fatti delle ultime due settimane in Iran emergono al contrario da un profondo malcontento che ha radici essenzialmente economiche e occupazionali» (Limes). Questa novità inquieta invece la classe dominante iraniana nella sua totalità.

La conquista di una maggiore agibilità (o libertà) politica, sindacale, culturale per il proletariato iraniano e, più in generale, per la popolazione di quel Paese è dal mio punto di vista una prospettiva molto positiva da sostenere senz’altro, anche se in questo caso non si tratterebbe di una rivoluzione ma di un cambio di regime. Ricordo a me stesso che anche nel 1979 si parlò, anche da parte di molti “anticapitalisti” europei, di “Rivoluzione komeinista”, salvo poi registrare le delusioni e le frustrazioni di suoi non pochi accesi sostenitori. Il fatto che oggi certi “anticapitalisti” si dimostrino molto tiepido (se non chiaramente ostili) nei confronti del movimento di lotta iraniano si deve certamente alla circostanza per cui esso non si mostra incline a bruciare bandiere americane e a gridare slogan d’odio anti-israeliani: che gusto c’è a non bruciare almeno in effige il Grande Satana e il suo figlio prediletto?

Per quanto mi riguarda nel XXI secolo non si può parlare di rivoluzione, senza volerne inflazionare il termine e svilirne il concetto, quando le trasformazioni politiche e sociali lasciano intonso il rapporto sociale dominante – capitalistico, nella fattispecie. La rivoluzione o è sociale (ossia anticapitalista) o non è una rivoluzione. Chiarito questo punto, importante dal punto di vista strettamente politico (e non solo “dottrinario”), esprimo la mia piena solidarietà ai ribelli iraniani.

CADE ANCORA UNA VOLTA IL VELO DEL REGIME SANGUINARIO

IRAN. OGGI E IERI

10 pensieri su “CON I RIBELLI IRANIANI! CONTRO IL REGIME OMICIDA DEGLI AYATOLLAH!

  1. OCCHIO AI LAVORATORI PETROLCHIMICI!

    La Repubblica:

    La mano dura dei Pasdaran non ferma la rabbia degli iraniani, dalle donne di Teheran agli studenti della curda Sanandaj le proteste ora si allargano anche al cuore petrolifero del Paese, a Sud e Sud Ovest. Ieri sono entrati in sciopero alcune centinaia di lavoratori del petrolchimico di Assaluyeh, uno degli impianti di lavorazione principali della ricca provincia petrolifera di Bushehr. Gli operai hanno interrotto per alcune ore la produzione e bloccato gli accessi allo stabilimento usando auto e pneumatici bruciati. A loro si sono uniti i lavoratori delle raffinerie di Abadan, nell’Ovest, e di Kengan nel Sud, mentre nel resto del Paese universitari e studenti continuavano a scendere in strada e a organizzare sit- in nonostante la repressione.
    «Gli scioperi nelle industrie petrolifere e petrolchimiche sono un potenziale punto di svolta», dice a Repubblica Sina Azodi, analista iraniana dell’Atlantic Council.
    «Dal punto di vista pratico perché un eventuale blocco della produzione sarebbe un colpo per la già sofferente economia iraniana, e dal punto di vista simbolico, perché è un settore che ha giocato un ruolo cruciale nella storia iraniana, dalla nazionalizzazione delle compagnie petrolifere alla rivoluzione del 1978. Se anche il sistema dovesse sopravvivere a queste proteste, difficilmente le cose potranno tornare come prima».
    Nel novembre del 1978 fu la mobilitazione degli operai petrolchimici insieme a quella degli studenti e dei bazari, i commercianti, a consentire la cacciata dello Scià. Oggi l’industria non-petrolifera e i servizi sono una parte molto più consistente dell’economia iraniana di quanto non lo fossero nel 1978, ma il greggio resta «la vena giugulare del regime», come lo definì un diplomatico occidentale poco prima della caduta di Reza Pahlevi.
    «Non temere. Restiamo uniti», «Morte al dittatore», scandiscono ora gli operai di Assaluyeh, protagonisti già nell’estate del 2021 di una lunga ondata di scioperi. Anche ad Abadan, una città un tempo sede della più grande raffineria di petrolio del mondo, i lavoratori sono usciti dalla fabbrica.

  2. MOBILITARE GLI OPPRESSI CONTRO GLI OPPRESSI

    Gabriella Colarusso, La Repubblica: «Azadeh ha 20 anni: ”In piazza stiamo molto attenti: non sai mai chi è il tuo vicino. Serve il massimo della prudenza. I basiji sono i nostri vicini di casa, i nostri compagni all’università, a volte anche i nostri stessi parenti”. Nel ramificato e pervasivo apparato di sicurezza e sorveglianza della Repubblica Islamica, i basiji sono la colonna portante della repressione di piazza. Girano spesso in moto, vestiti di nero ma senza uniformi, armati di bastoni o pistole, e “picchiano, arrestano, spiano”, dice Azadeh. Sono gli occhi e le orecchie del governo, la rete informale di milizie con cui l’intelligence raccoglie informazioni sui manifestanti. L’organizzazione Basij, che in farsi significa “Mobilitazione degli oppressi”, (basiji sono i singoli membri) fu fondata poco dopo il 1979 da Khomeini per “islamizzare” la società, difendere e imporre le rigide regole su cui si fonda la teocrazia islamica iraniana.

    Erano soprattutto i ragazzi delle classi più povere a farne parte, attratti dalla promessa di riscatto che l’ayatollah tornato dall’esilio in Francia offrì alle masse oppresse dopo la caduta dello Scià. Negli anni della lunga guerra con l’Iraq (1980-1988) si guadagnarono il rispetto di molti iraniani combattendo contro le truppe di Saddam, spesso male addestrati e male armati e utilizzati nelle operazioni più rischiose, come gli attacchi kamikaze. I basiji ricevono una formazione militare e sono addestrati a usare la forza anche brutale contro i cortei, ma non hanno divisa, sono una milizia paramilitare, che permea ogni ramo della società per controllare le organizzazioni indipendenti. Molti ricevono un salario fisso, per tanti entrare nelle milizie vuol dire avere un canale di accesso privilegiato ai lavori nella pubblica amministrazione, una via facilitata con gli esami all’università, protezione e influenza. Secondo Saeid Golkar, dell’Università del Tennessee, i basiji sono circa 1 milione. Altre stime parlano di 5 milioni. Tra loro ci sono anche molte ragazze. Per la prima volta, durante questo mese di proteste, le donne sono state impiegate anche nella polizia anti-sommossa. È l’altra faccia della primavera femminile iraniana».

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