IRAN. LA LOTTA CONTRO IL REGIME NON SI ARRESTA

Si rifiuta di cantare l’inno. Asra pestata e uccisa a 16 anni.

Si estende e si radicalizza il movimento di opposizione al sanguinario e oppressivo regime iraniano iniziato dalle donne dopo l’uccisione di Masha Amini il 16 settembre scorso ad opera della famigerata “polizia morale” (sic!). Dopo aver coinvolto le università e le scuole medie del Paese (si contano non meno di 40 minorenni uccisi dalle milizie paramilitari), la protesta sta dilagando anche fra i lavoratori dell’industria (a cominciare da quella petrolchimica e della lavorazione dello zucchero), a dimostrazione del significato spiccatamente sociale che il movimento di lotta è venuto ad  assumere giorno dopo giorno. La pressione esercitata della lotta di strada sul regime ne sta incrinando la compattezza, e già si parla apertamente anche ai vertici dello Stato di un possibile golpe militare – pare che soprattutto l’aereonautica militare sia in pieno fermento “rivoluzionario”. A questo punto concedere qualcosa alla piazza potrebbe irrobustire e “ingolosire” la volontà di lotta del movimento di opposizione politico-sociale, il quale del resto non si accontenta più di piccole concessioni; d’altra parte, continuare la politica della brutale repressione, riempiendo carceri, ospedali e cimiteri, potrebbe esacerbare gli animi dei rivoltosi che si vedrebbero costretti all’autodifesa con tutti i mezzi necessari – inclusi quelli che prevedono l’uso delle armi.

Nel 1999 e poi nel 2009 gli studenti di Teheran, che rappresentano il più numeroso, informato e agguerrito partito occidentalista del Paese, scesero in strada e si fecero massacrare dai basiji (*) per sostenere la cosiddetta “area riformista” del regime; oggi i “moderati” e i “riformisti” non hanno più alcun seguito in Iran e questo rappresenta per gli ayatollah e per tutti gli strati sociali interessati al mantenimento dello status quo il punto più critico della situazione.

Detto che chi in Italia parla di «rivoluzione colorata» a proposito di quanto sta succedendo nella Repubblica Islamica fa parte dell’escrementizio partito imperialista che sostiene gli interessi dei nemici dell’imperialismo americano (merda versus merda); detto questo, l’invocazione dell’intervento diplomatico dei Paesi occidentali da parte dei manifestanti mostra tutti i limiti politici di questo movimento. Tanto più nel momento in cui la querelle circa i droni di fabbricazione iraniana che sarebbero stati usati dai russi in Ucraina rischia di provocare un pericolosissimo corto circuito.

Ma questi limiti segnalano soprattutto l’estrema debolezza del proletariato mondiale, incapace oggi di ragionare e muoversi come soggetto politico indipendente. Né d’altra parte ci si può stupire o, ancor meno, scandalizzare che i giovani iraniani guardino il modo di vivere occidentale come un sogno da realizzare (come i ragazzi di Piazza Tiananmen nel 1989): questo ci fa capire fino a che punto sia per loro sgradevole, per così dire, vivere in Iran, un Paese peraltro lacerato da mille contraddizioni “strutturali” e “sovrastrutturali” – ben raccontate e rappresentate dalla letteratura, dalla cinematografia, dalla musica e dalla moda giovanile.

Possiamo benissimo parteggiare per gli iraniani oppressi e sfruttati senza per questo condividere le loro attuali illusioni. Possiamo altrettanto bene assumere un atteggiamento radicalmente contrario alla brutalità del regime iraniano senza che ciò significhi in alcun modo sostenere gli interessi dei regimi (regionali e globali) suoi avversari. È da questa peculiare prospettiva che esprimo, per quel che vale, la mia forte simpatia a chi oggi in Iran manifesta conto il regime rischiando di finire in una cella, in un letto di ospedale o all’obitorio.

(*) Mobilitare gli oppressi contro gli oppressi! «Azadeh ha 20 anni: ”In piazza stiamo molto attenti: non sai mai chi è il tuo vicino. Serve il massimo della prudenza. I basiji sono i nostri vicini di casa, i nostri compagni all’università, a volte anche i nostri stessi parenti”. Nel ramificato e pervasivo apparato di sicurezza e sorveglianza della Repubblica Islamica, i basiji sono la colonna portante della repressione di piazza. Girano spesso in moto, vestiti di nero ma senza uniformi, armati di bastoni o pistole, e “picchiano, arrestano, spiano”, dice Azadeh. Sono gli occhi e le orecchie del governo, la rete informale di milizie con cui l’intelligence raccoglie informazioni sui manifestanti. L’organizzazione Basij, che in farsi significa “Mobilitazione degli oppressi”, (basiji sono i singoli membri) fu fondata poco dopo il 1979 da Khomeini per “islamizzare” la società, difendere e imporre le rigide regole su cui si fonda la teocrazia islamica iraniana. Erano soprattutto i ragazzi delle classi più povere a farne parte, attratti dalla promessa di riscatto che l’ayatollah tornato dall’esilio in Francia offrì alle masse oppresse dopo la caduta dello Scià. Negli anni della lunga guerra con l’Iraq (1980-1988) si guadagnarono il rispetto di molti iraniani combattendo contro le truppe di Saddam, spesso male addestrati e male armati e utilizzati nelle operazioni più rischiose, come gli attacchi kamikaze. I basiji ricevono una formazione militare e sono addestrati a usare la forza anche brutale contro i cortei, ma non hanno divisa, sono una milizia paramilitare, che permea ogni ramo della società per controllare le organizzazioni indipendenti» (G. Colarusso,  La Repubblica).

CON I RIBELLI IRANIANI! CONTRO IL REGIME OMICIDA DEGLI AYATOLLAH!

CADE ANCORA UNA VOLTA IL VELO DEL REGIME SANGUINARIO

IRAN. OGGI E IERI

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