La lotta per 1) la spartizione dei mercati, 2) l’accaparramento, possibilmente in modalità monopolistica, delle materie prime, 3) la conservazione e l’ampliamento della propria “sfera di influenza”, 4) la supremazia sistemica (economica, tecno-scientifica, geopolitica, ideologica): questa lotta che si svolge fra le imprese e le nazioni definisce la natura della società capitalistica, la quale ha oggi i confini del nostro pianeta. Si tratta di una Società-Mondo fondata sullo sfruttamento degli individui e della natura, ridotti alla stregua di mere risorse (“capitale umano” e “capitale natura”) da sfruttare nel modo più razionale possibile in vista del più alto profitto possibile. Razionale, beninteso, dal punto di vista del Capitale.
La sempre crescente militarizzazione dell’intero pianeta (terra, mare, cielo, spazio) è solo l’aspetto più evidente e inquietante della competizione interimperialistica ed è intimamente e necessariamente connessa alla società capitalistica. Per questo da oltre un secolo la rivendicazione di un “disarmo generale”, o quantomeno di una riduzione degli armamenti, non ha mai avuto successo: semplicemente non poteva e non può averlo. D’altra parte, già alla vigilia della Prima carneficina mondiale (1914-1918) molti pensavano che la creazione di armi sempre più sofisticate e mortifere rendessero impossibile una guerra fra le grandi nazioni: si è visto com’è andata a finire. Il cosiddetto equilibrio del terrore la dice lunga sulla natura terroristica della presente società.
Il conflitto armato, più o meno generalizzato, è insomma per un verso la continuazione della cosiddetta pace, e per altro verso esso pone le premesse per un nuovo periodo di sviluppo economico “pacifico”. Stupirsi al solo pensiero che la guerra sistemica, la guerra universale di tutti contro tutti, possa di tanto in tanto trasformarsi in un conflitto armato significa ingannare se stessi ed esibire un’assoluta incomprensione circa la natura della società che pure contribuiamo a mantenere in vita giorno dopo giorno con il nostro lavoro, con il nostro consumo, con la nostra semplice esistenza.
Non capiamo in particolare il significato dei grandi processi che plasmano sempre di nuovo la Società-Mondo e la nostra stessa vita di cittadini, di lavoratori, di consumatori, di utenti di un qualche servizio. Il nostro cosiddetto libero arbitrio è cioè ridotto ai minimi termini, e nei fatti siamo sottoposti al dominio totalitario di forze sociali che non capiamo e che non controlliamo, ma che in compenso subiamo senza opporvi una reale resistenza. E questo vale nelle più avanzate delle democrazie (capitalistiche) come nei più repressivi degli Stati autoritari. Questa condizione disumana ha delle pesanti “ricadute” anche sulla nostra sfera emotiva e psicologica, perché il Moloch sociale non risparmia niente e nessuno.
La guerra condotta a mezzo di eserciti o la sua stessa preparazione ci mette nelle condizioni di capire il significato della pace capitalistica, della “pace” che si nutre di lavoro sfruttato, di oppressione sociale, di distruzione ambientale; della “pace” che prepara la guerra.
Può esistere pace autentica in un mondo che nega a tutti gli individui un’autentica libertà? Può esserci pace autentica in una società che conosce ogni genere di antagonismo? Può esserci pace autentica in una società che conosce la divisione classista degli individui? È dalla realtà di ieri e di oggi che ci arriva la risposta, chiara, netta, inequivocabile: no, non è possibile. Per questo il pacifismo come ideologia politica è un inganno inteso a nascondere dietro fumisterie pseudo umanitarie e luoghi comuni progressisti la realtà dei fatti. In questo senso è corretto dire che il pacifismo è parte del problema, non della sua soluzione.
Se vuole abbandonare la palude dell’impotenza, il sentimento di pace deve armarsi di una coscienza critica radicale, di un pensiero cioè che sappia cogliere alla radice le cause dello sfruttamento, degli antagonismi, delle guerre; solo così questo umanissimo sentimento può rompere ogni legame con la psicologia delle masse gregarie (pronte oggi a belare “Pace!” e domani magari “Guerra!”) e trasformarsi in una volontà politica in grado di incidere sulla realtà sociale.
«Il proletariato non pone più il piede sul teatro della storia come corteo dipendente, ma come potenza indipendente, cosciente delle proprie responsabilità» (Karl Marx): si tratta di un eccezionale obiettivo da perseguire a favore dell’intera umanità.
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