Enuncio una tesi che qui cercherò di argomentare brevemente, come introduzione a una riflessione di più ampio respiro che spero di poter esporre compiutamente nel prossimo futuro: gli scritti engelsiani degli anni Novanta del XIX secolo riguardanti la geopolitica europea e la “politica estera” del movimento operaio sono ancorati a un’epoca storica del capitalismo ormai superata. Ricordo che il grande comunista tedesco morì a Londra il 5 agosto 1895.
Nell’analisi della politica estera delle maggiori potenze europee del tempo (Gran Bretagna, Francia, Germania e Russia) considerata dal punto di vista degli interessi del proletariato Engels applica lo schema concettuale “valido” fino al 1871, ossia fino all’epoca delle guerre nazionali aventi un carattere storicamente progressivo. Qui faccio mia la periodizzazione leniniana (1793-1871) basata sulla celebre tesi marxiana secondo la quale «Il dominio di classe non è più capace di travestirsi con una uniforme nazionale; contro il proletariato i governi nazionali sono uniti» (1). Come scriverà Lenin soprattutto in polemica con la socialdemocrazia europea del 1914 prona alla parola d’ordine della difesa della patria, la Comune di Parigi segna per i marxisti una cesura storica fondamentale: dal 1871 per essi non sono più possibili nei Paesi a capitalismo avanzato guerre nazionali progressive, ma solo conflitti armati reazionari che il proletariato internazionale deve condannare e trasformare in conflitto sociale rivoluzionario. Ritorneremo su Lenin.
Non prima di aver precisato, a scanso di antipatici equivoci, che la mia modesta “ricostruzione storica” non ha e soprattutto non intende avere alcun significato polemico nei confronti di Engels e di Lenin: la cosa non avrebbe alcun senso, se non quello di fare apparire ridicolo chi scrive agli occhi di chi legge.
Nel 1891 Engels valuta la possibilità di una guerra di aggressione alla Germania da parte della Francia e della Russia, e cerca di definire l’atteggiamento che la socialdemocrazia tedesca avrebbe dovuto tenere in quella “deprecabile” circostanza, e lo fa soprattutto dialogando con August Bebel, uno dei pochi capi della socialdemocrazia tedesca che riscuoteva la sua piena fiducia. Scrive Engels (da Londra) a Bebel il 29 settembre 1891: «Sul punto che riguarda la minaccia incombente di una guerra, soprattutto da parte della Russia, e che nel caso si avverasse dobbiamo adoperarci con tutte le forze, nel nostro interesse, per una sconfitta della Russia, siamo d’accordo». Quando Engels parla di «nostro interesse» intende riferirsi alla socialdemocrazia tedesca, al movimento operaio tedesco, e non al popolo tedesco genericamente considerato, né tanto meno alla nazione tedesca, concetti che comunque egli certamente prende in considerazione ma per subordinandoli agli interessi del proletariato d’avanguardia. Riprendo la citazione: «In Russia soffrono tre classi: la nobiltà fondiaria, i contadini, il nascente proletariato. Quest’ultimo non è ancora pronto, la prima è ormai troppo debole per una rivoluzione e i contadini arrivano solo a sommosse locali e infruttuose. […] Al contrario la giovane borghesia prospera come in nessun altro posto, e si avvicina al momento in cui dovrà entrare in conflitto con la burocrazia». Engels pensava che la rampante borghesia russa spingesse per la guerra, anche gettando benzina sul fuoco del panslavismo, per allargare la sua base materiale: «ampliamento del mercato interno per mezzo di annessioni. Di qui il fanatismo slavofilo, l’odio selvaggio contro i tedeschi – fino a vent’anni fa il commercio e l’industria russa erano quasi esclusivamente in mano ai tedeschi! –, di qui l’istigazione contro gli ebrei». «Fino a vent’anni fa il commercio e l’industria russa erano quasi esclusivamente in mano ai tedeschi»: questa precisazione engelsiana, che potrà tornarci utile successivamente, ci parla, a me pare, della relativa forza del capitalismo tedesco e di un notevole sviluppo capitalistico in Russia. Nel 1871 la Germania, secondo Engels, era in grado di penetrare con forza nel mercato e nell’industria russi. Concludiamo la citazione: «La gente deve capire che una guerra contro la Germania, in alleanza con la Russia, è anche e soprattutto una guerra contro il più forte e combattivo partito socialista d’Europa, e che a noi altro non rimane che attaccare con tutte le forze ogni aggressore, complice della Russia. Perché o soccombiamo noi, e allora il movimento socialista in Europa è finito per vent’anni, o prendiamo il potere, e allora vale per i francesi ciò che dice la Marsigliese: Come, queste coorti straniere detterebbero legge nei nostri focolari?» (2).
Come si vede, Engels sembra qui identificare completamente la socialdemocrazia tedesca con la Germania: difendere quest’ultima significava difendere la prima, e con ciò stesso difendere il socialismo europeo che aveva nel movimento operaio tedesco la sua più solida avanguardia – sociale, politica e teorica. Rimane da capire quanto fondata fosse, sul piano storico-sociale e su quello politico, questa identificazione. Occorre anche dire, per meglio delineare il contesto concettuale in cui si forma la posizione engelsiana, che proprio in quel periodo la socialdemocrazia tedesca aveva agli occhi di Engels un valore aggiunto, se così posso esprimermi, perché secondo lui essa si era liberata definitivamente delle ultime scorie lassalliane rappresentate da Wilhelm Liebknecht – che infatti accolse con grande fastidio la pubblicazione, decisa proprio da Engels, delle Glosse marginali al programma del Partito operaio tedesco redatte da Marx nel 1875 e rimaste inedite fino al 1890. Per Engels il «partito marxista» aveva trionfato su tutta la linea e questo inestimabile successo andava protetto a tutti i costi – anche in caso di guerra. Bisogna anche considerare i successi elettorali che la socialdemocrazia mieteva anno dopo anno, facendo di quel partito una potenza politico-parlamentare di prima grandezza. Per il Nostro si trattava insomma di preservare, costi quel che costi, il risultato di un lungo, difficile e sofferto lavoro che aveva avuto soprattutto in Marx, il suo amatissimo compagno di lotta e di vita, il suo eccezionale punto di riferimento.
La disgregazione della Germania a pochi passi dalla tanto agognata meta appariva agli occhi di Engels un vero e proprio delitto contro il movimento operaio tedesco, una catastrofe da evitare a ogni costo. Scriveva il Nostro a Paul Lafargue il 27 giugno 1893: «Se la Francia – chissà – darà il segnale, la lotta sarà decisa in Germania, il paese che è stato investito più a fondo dal socialismo e in cui la teoria è penetrata più a fondo nelle masse» (3). Osservati dalla prospettiva storica, i giudizi di Engels appaiono senz’altro fin troppo ottimisti, o quantomeno non del tutto fondati, a essere generosi. Si dirà, giustamente, che quella storica è una prospettiva fin troppo comoda, ma d’altra parte è il solo punto d’osservazione che i posteri hanno per riflettere sul passato, il quale va approcciato criticamente per ottenerne, quando è possibile, insegnamenti validi per il presente, e non ideologicamente per riceverne conferme di qualche genere.
Facciamo un piccolo passo indietro e ritorniamo sul panslavismo. Engels considerava la Francia, l’Inghilterra, la Germania, la Spagna, la Scandinavia, la Polonia, l’Italia e l’Ungheria le «grandi nazioni storiche d’Europa nettamente definite e vitali», mentre riteneva che la riunione dei popoli slavi avrebbe aperto la strada all’egemonia russa, e per questo polemizzò lungamente con Bakunin, il quale secondo il comunista tedesco non era in grado di comprendere la fondamentale distinzione tra movimenti nazionali storicamente progressivi, meritevoli dell’appoggio (sempre condizionato) del proletariato rivoluzionario, e quelli controrivoluzionari e storicamente regressivi, e dunque non meritevoli di quel sostegno. «Noi dobbiamo collaborare alla liberazione del proletariato dell’Europa occidentale, e tutto dev’essere subordinato a questo obiettivo. Per quanto possano essere interessanti gli slavi dei Balcani, ecc., possono andarsene al diavolo, se il loro sforzo di liberazione entra in conflitto con l’interesse del proletariato. […] Non tollereremo che gli slavi mettano i bastoni fra le ruote del proletariato in lotta» (4). Questa citazione ci fa capire meglio da quale punto di vista Engels approcciasse la questione nazionale. Bisogna fin d’ora osservare che per Marx ed Engels la Russa zarista rappresentava la «terra della barbarie orientale», la «più grande riserva della reazione europea», il «gendarme d’Europa», in una sola parola la madre di tutte le controrivoluzioni concepite, tentate e attuate nel Vecchio Continente, e quindi ogni rafforzamento di quell’immenso quanto oscuro Paese appariva ai loro occhi una minaccia alla civiltà occidentale, in generale, e alla rivoluzione proletaria in Occidente, in particolare (5). Non dimentichiamo che per i due grandi amici il proletariato era certamente «il becchino» della società borghese, ma ne era anche il necessario prodotto, e questa visione storica, che si avvantaggiava di una lettura in chiave materialistica della dialettica hegeliana, informava tutta la loro “politica estera”.
Alla luce della posizione decisamente antirussa di Marx ed Engels ben si comprende l’odio che lo stalinismo e tutto il pensiero reazionario russo (da Stalin a Putin) hanno nutrito e continuo a coltivare per la “politica estera” dei due autori del Manifesto. Ma riprendiamo il filo del discorso.
Il 13 ottobre 1891 Engels ritorna sulla questione bellica sempre in dialogo con Bebel. Il Generale, come veniva chiamato in casa Marx per la sua indubbia competenza in questioni militari, era propenso a non considerare imminente una guerra europea, soprattutto perché la Russia era allora attraversata da una grave carestia (6), e credeva che come sempre la diplomazia russa stesse bluffando quando dinanzi alle potenze europee faceva la voce grossa e si mostrava solerte nel preparare la guerra; in ogni caso la guerra gli appariva come possibile, anche se non probabile e certamente non auspicabile (tutt’altro!), e quindi la socialdemocrazia tedesca doveva prepararsi a rispondere a domande finora mai poste dal processo storico-sociale al movimento operaio. «Questo aspetto non è così accademico come sembra, perché sarà di grande importanza non appena verranno sottoposte al Reichstag le richieste di crediti al governo. Se siamo convinti che la guerra scoppierà a primavera [del 1892] difficilmente possiamo essere contrari in linea di principio alla concessione dei crediti. E questa sarebbe per noi una situazione abbastanza imbarazzante. Tutti i partiti leccapiedi esulterebbero per aver avuto ragione, e perché noi saremmo costretti a calpestare la nostra politica di vent’anni. E una svolta così improvvisa creerebbe anche all’interno del partito enormi contrasti. Anche a livello internazionale» (7). Nonostante comprendesse la natura problematica della linea politica che andava elaborando a stretto contatto con gli eventi internazionali, e avesse ben presente i gravi rischi insiti nella sua attuazione, Engels continuava a pensare che «Se il pericolo di guerra si aggrava, allora possiamo dire al governo di essere disposti, se ciò viene reso possibile da una trattativa ragionevole, ad aiutarlo contro il nemico esterno, a condizione che conduca la guerra con tutti i mezzi anche rivoluzionari, e senza esitazioni. Se la Germania viene attaccata da est e da ovest ogni mezzo è utile alla difesa. Si tratta dell’esistenza della nazione, e per noi del consolidarsi della nostra posizione e di possibili sviluppi futuri. […] Naturalmente può anche darsi che dobbiamo prendere il potere e giocare il ruolo del 1794 per respingere i russi e loro alleati». Engels riteneva tuttavia che il partito non fosse ancora nelle condizioni di prendere il potere, e prevedeva che il maturare di quelle condizioni si realizzasse solo agli inizi del Novecento: «Noi avremmo la quasi assoluta certezza di prendere il potere entro dieci anni». Per questo egli, che fondava i suoi calcoli soprattutto sui progressi ottenuti dal partito socialdemocratico in campo elettorale (nonché sul rafforzamento del sindacalismo tedesco), auspicava un lungo periodo di pace nel Vecchio Continente. Nondimeno, Engels prendeva in seria considerazione la necessità, obtorto collo, di «prendere il potere» nel caso in cui il governo tedesco si dimostrasse inadatto a condurre una guerra nazionale difensiva.
Nuova lettera di Engels a Bebel il 24 ottobre 1891: «Se la borghesia francese intraprende questa guerra e a tal scopo si mette al servizio dello zar, nemico anche della borghesia dell’intera Europa occidentale, ciò equivale a rinnegare la missione rivoluzionaria della Francia» (8). Ancora nel 1891 Engels immagina dunque possibile che la Francia potesse avere una missione rivoluzionaria in chiave democratico-borghese, e ripropone l’idea, che come abbiamo visto era – a suo tempo – condivisa anche da Marx, dello zar come nemico della borghesia dell’intera Europa occidentale, oltre che come bastione della controrivoluzione nei confronti di ogni genere di rivoluzione: da quella nazionale-borghese a quella sociale-proletaria. «Al contrario noi socialisti tedeschi, che in caso di pace arriviamo al potere in dieci anni, abbiamo il dovere di difendere la nostra posizione raggiunta di avanguardia del movimento operaio, non solo contro il nemico interno, ma anche contro quello esterno. Se la Russia vince siamo schiacciati. Quindi se la Russia dà inizio alla guerra ci batteremo contro i russi e i loro alleati, chiunque essi siano. Allora dovremo fare in modo che la guerra sia condotta con tutti i mezzi rivoluzionari e sia respinto qualsiasi governo si rifiuti di impiegare questi mezzi, e nel momento opportuno metterci noi stessi a capo della nazione». Engels quindi non escludeva, in linea di principio, che il governo tedesco potesse impiegare, magari dietro la pressione del movimento operaio, «tutti i mezzi rivoluzionari» in una eventuale guerra contro la Russia e i suoi alleati (che si configura quindi come guerra europea), e solo nel caso contrario ipotizzava un’assunzione di responsabilità diretta della socialdemocrazia nella conduzione della guerra. Concludiamo la citazione: «Noi non abbiamo ancora dimenticato il glorioso insegnamento dei francesi del 1793, e se saremo costretti, può accadere che noi festeggeremo il centesimo anniversario del 1793 dimostrando che gli operai tedeschi del 1893 non sono indegni dei sanculotti di allora». A un secolo dalla guerra rivoluzionaria francese Engels affermava dunque di tenere in grande considerazione, e non solo sul piano puramente storico, «il glorioso insegnamento dei francesi del 1793».
Detto questo, occorre pure prendere atto che egli si mostrava pienamente consapevole della maturità, o addirittura della senescenza, della società borghese del suo tempo: «I resoconti ti fanno dire che io avrei predetto il crollo della società borghese per il 1898. Allora deve esservi un piccolo fraintendimento da qualche parte. Ho detto soltanto che nel 1898 potremmo forse giungere al potere. La vecchia società borghese, nel caso questo non accada, potrebbe continuare a vegetare ancora per qualche tempo, sino a quando un impulso dall’esterno non farà crollare questa casta marcia. Una simile vecchia e pigra carcassa può durare ancora un paio di decenni dopo la sua sostanziale morte interna, se l’atmosfera rimane tranquilla. Ma mi guarderei bene dal preannunciare qualcosa del genere. Al contrario la nostra possibilità di prendere il potere è un semplice calcolo di probabilità secondo leggi matematiche» (9). Engels non collegava la presa del potere al crollo della società borghese, ma fondava la sua previsione su «un semplice calcolo di probabilità secondo leggi matematiche», ossia, ritengo, sul trend elettorale che vedeva il partito socialdemocratico in costante e irresistibile ascesa. Per un verso Engels sembra ricondurre il problema della guerra nell’Europa del 1891 nel quadro delle guerre rivoluzionarie borghesi (Francia, Italia, Germania: dal 1793 al 1870); dall’altro egli riconosce l’esaurirsi della “spinta storicamente propulsiva” della società borghese, la sua vetustà, «la sua sostanziale morte interna». Come mettere insieme le due cose senza inciampare in irrisolvibili contraddizioni?
Continua qui (p. 10).
(1) K. Marx, La guerra civile in Francia, 1871, p. 112, Editori Riuniti, 1974. «Il più alto slancio di eroismo di cui la vecchia società è ancora capace è la guerra nazionale; e oggi è dimostrato che questa è una semplice mistificazione governativa, la quale tende a ritardare la lotta delle classi e viene messa in disparte non appena la lotta di classe divampa in guerra civile» (ivi).
(2) Opere Marx-Engels, IL, pp. 162-164, Editori Riuniti, 1982.
(3) Cit. tratta da K. Kautsky, La via al potere, 1909, p. 196, Laterza, 1974. Sulla superiorità dottrinaria del proletariato tedesco rispetto a quello francese Engels concordava con Marx: «Se i prussiani vincono, la centralizzazione del potere statale sarà utile per la centralizzazione della classe operaia tedesca. Il predominio tedesco trasferirebbe anche il centro di gravità del movimento operaio nell’Europa occidentale dalla Francia alla Germania, e basta confrontare il movimento nei due paesi dal 1866 ad oggi per vedere che la classe operaia tedesca è superiore a quella francese sia teoricamente che organizzativamente. Il loro predominio sui francesi sulla scena mondiale significherebbe anche la predominanza della nostra teoria su quella di Proudhon, ecc.» (Lettera di Marx a Engels del 20 luglio 1870). Marx ed Engels consideravano il proudhonismo come la massima espressione del socialismo piccolo borghese che aveva mostrato tutti i suoi limiti e negatività per la maturazione di un’autentica coscienza di classe rivoluzionaria proprio durane la breve ma assai significativa esperienza comunarda.
(4) Lettera di Engels a E. Bernstein, 22-25 febbraio 1882, cit. in R. Gallissont, Nazione e nazionalità nei dibattiti del movimento operaio, in A. V., Storia del marxismo, II, pp. 794-795, Einaudi, 1979.
(5) «Marx individuava e stigmatizzava tre forme di “dispotismo” (il termine di totalitarismo gli era sconosciuto): in Francia, il bonapartismo, argomento che io ho trattato nel mio Marx davanti al bonapartismo; in Germania, il prussianesimo; e soprattutto, in Russia, lo zarismo. Ma l’archetipo è senz’altro il primo Napoleone, di cui il nipote, Napoleone III, non è che un’immagine sbiadita. Nella critica di questi tre generi di assolutismo di Stato, noi possiamo già trovare quella del totalitarismo moderno! E la Russia è il bersaglio preferito di Marx. Tanto da far parlare di una sua “russofobia”» (M. Rubel, Intervista rilasciata a Le Monde del 29/9/1995).
(6) «Lo zarismo ce la farà a superare questa crisi? Io ne dubito. Vi sono troppi elementi ribelli nelle grandi città e soprattutto a Pietroburgo perché non si tenti di sfruttare l’occasione che si presenta per deporre Alessandro III l’ubriacone, o per sottoporlo al controllo di un’assemblea nazionale. […] La Russia (vale a dire il governo e la giovane borghesia) ha lavorato enormemente per la creazione di una grande industria nazionale; quest’industria verrà bloccata violentemente nel suo sviluppo in quanto la carestia le chiuderà il suo unico mercato – il mercato interno. Lo zar si accorgerà che cosa significa aver portato la Russia a self-sufficient country, indipendente dall’estero; vi sarà una crisi agricola doppiamente aggravata da una crisi industriale» (Lettera di Engels a Paul Lafargue del 2 settembre 1891, Opere Marx-Engels, IL, p. 155).
(7) Ibidem, pp. 180-181.
(8) Ibid., p. 194.
(9) Ibid., p. 195.