Per Molinari «il ritorno degli imperi è destinato a segnare gli anni che verranno, con conseguenze inevitabili sulle nostre vite. L’invasione russa dell’Ucraina risveglia i mostri della storia europea, costringendoci a vivere gli incubi di un passato che speravamo sepolto per sempre. Negare per principio il diritto all’esistenza di uno Stato sovrano, muovere i carri armati per cancellare l’indipendenza e la libertà di un altro popolo, ricorrere alla forza degli aerei e dei missili per obbligare milioni di persone alla resa, ritenere che i confini possano essere cambiati con le armi e le famiglie spostate con la paura: tutto ciò azzera la sicurezza di un’Europa costruita sul rispetto dei singoli e delle nazioni dopo le immani stragi della Grande Guerra, l’abisso della Seconda guerra mondiale e le dolorose lacerazioni della Guerra Fredda». Solo chi si è cullato nel “sogno europeo” (difeso dall’esercito statunitense) ha potuto pensare che «i mostri della storia europea» avessero abbandonato per sempre la scena del Vecchio Continente, mentre essi hanno continuato a vivere e prosperare sotto altre forme. E lo abbiamo visto non solo nello spazio ex sovietico dal 1989 in poi, o nei Balcani (sempre caldi e pronti a esplodere), ma nella stessa Unione Europea travagliata dalla crisi economica internazionale iniziata negli Stati Uniti nell’estate del 2007. Il crollo dell’economia greca e la Brexit sono stati solo i due fenomeni più eclatanti della battaglia economica e politica che si è combattuta all’interno dell’Unione e che ha visto la Germania nei panni del Paese vincente. Dopo la Seconda guerra mondiale la Germania raggiunge i suoi scopi usando la “pacifica” macchina economica (1).
Tutto concentrato a godersi il “sogno europeo”, Molinari evidentemente non trovava il tempo per denunciare le tantissime guerre che dal 1945 hanno insanguinato il pianeta, mentre oggi egli è costretto a un «terribile risveglio», ossia a scoprire «la brutalità della guerra proprio nel cuore dell’Europa». Il passaggio dal “sogno” all’incubo è stato dunque traumatico per il direttore di Repubblica, il quale individua quattro imperi, «reali o potenziali: la Russia, l’Unione Europea, gli Stati Uniti e la Cina popolare. Ognuno di questi ha un’identità, una genesi, degli interessi e un orizzonte assai peculiare, ma ciò che più conta è la sfida che si apre fra loro». «La Russia esprime la versione più tradizionale e ottocentesca dell’impero, centrato sulla capacità militare», mentre «la sfida cinese è orientata alla conquista del mercato commerciale globale»: «La strategia cinese, pertanto, può dirsi “imperiale” perché tende a imporsi in aree geografiche estese e molto distanti tra loro facendo leva principalmente e in maniera aggressiva sui rapporti commerciali». Qui Molinari ha centrato in pieno non il concetto di impero ma quello di imperialismo – e non a caso personalmente parlo di Celeste Imperialismo.
«Il conflitto innescato da Vladimir Putin nel cuore dell’Europa accelera un mutamento che sconvolge il mondo in cui viviamo, fa emergere in maniera brutale come sul pianeta vi siano quattro grandi attori, le cui caratteristiche e capacità sono a tal punto superiori rispetto al resto della comunità internazionale da poter rispolverare la definizione di imperi. Il termine “impero” che usiamo per definirle viene dalla Storia e fotografa la volontà o la capacità da parte di un’entità di governo di estendere il proprio controllo – con metodi e forme differenti – in un’area geopolitica assai più vasta dei propri confini». Ma allora perché scomodare quel vetusto termine e non usare quello assai più attuale e soprattutto adeguato ai fenomeni descritti di imperialismo? Perché di questo, e di nient’altro, parla Molinari nel suo libro quando caratterizza i singoli “imperi” – come sempre al netto di ideologismi e anacronismi che nel suo libro abbondano (2). Azzardo una risposta. Molinari parla di Impero, mentre in realtà evoca il concetto di Imperialismo come esso si dà ai nostri giorni, perché il termine Imperialismo ha assunto un connotato fortemente negativo, polemico e politicamente caratterizzato nell’imminenza della cosiddetta Grande Guerra, la Prima guerra imperialista mondiale della storia. Le nazioni che si combatterono sul suolo europeo si accusarono a vicenda di praticare una politica imperialistica, e la stessa cosa accadde, mutatis mutandis, nella Seconda carneficina mondiale, anche se qui riscontriamo un tasso di mistificazione ideologica e propagandistica di gran lunga superiore a quello che fecero registrare gli “attori” della Prima tragedia (3).
Il direttore di Repubblica non ha alcun problema nel definire senz’altro come imperialista l’aggressione russa dell’Ucraina, e ai suoi occhi le mire cinesi su Taiwan e sul Sud-Est asiatico sono rubricabili senza alcun dubbio come imperialiste. Gli Stati Uniti e soprattutto l’Unione Europea, cioè i Paesi “amici”, non meritano invece in linea di principio quella famigerata definizione, e anche quando si muovono sul terreno militare ben oltre le loro frontiere lo fanno quasi sempre per ragioni “umanitarie”: istaurare la “pace”, difendere o affermare i “diritti umani” e la “democrazia”. «Ecco perché oggi le democrazie del Vecchio Continente si sentono colpite nel vivo e hanno scelto fin da subito di seguire gli Stati Uniti e fornire armamenti alla resistenza ucraina. Ecco perché impongono pacchetti sempre più incisivi di sanzioni nei confronti della potenza che aggredendo l’Ucraina mina la convivenza internazionale; ecco perché, in un orizzonte di medio-lungo termine, aderiscono a misure di deterrenza aggressiva, mirando a un isolamento crescente della Russia affinché il nemico venga contenuto e in ultima istanza respinto». Da un lato l’Impero del Male (Russia e Cina, punti di riferimento delle autocrazie di tutto il mondo), dall’altro l’Impero del Bene (Unione Europea e Stati Uniti, cuori pulsanti della «Comunità delle democrazie»): insomma, niente di nuovo sotto il cielo.
«Tanto l’ambizione imperiale russa, di stampo ottocentesco, che la sfida globale cinese, sulle ali del commercio, dell’alta tecnologia e dell’intelligenza artificiale, puntano in primo luogo a ridimensionare il ruolo internazionale degli Stati Uniti». In questa contesa interimperialista, che spiega anche la guerra in Ucraina, Molinari si schiera ovviamente dalla parte degli Stati Uniti, e auspica che quanto prima l’Unione Europea sappia darsi una struttura imperiale così da rafforzare l’Asse del Bene guidato ancora da Washington, nonostante tutto – compreso «il populista» Donald Trump. D’altra parte l’Unione Europea può rivaleggiare con gli altri «Imperi del XXI secolo» quanto a Pil e a capacità tecno-scientifiche. «Bruxelles può essere in grado di giocare una partita di primo piano. Ma per riuscirci deve portare a termine l’integrazione economico-finanziaria, militare ed energetica fra gli Stati, da cui dipende la possibilità di diventare una potenza planetaria, seconda a nessun’altra». Un patriottismo di stampo europeista davvero commovente! Purtroppo molte “problematiche” continuano a ostacolare, annacquare e procrastinare la realizzazione di un polo imperialista europeo unitario; tra queste “problematiche” naturalmente spicca ancora la Questione Tedesca.
All’inizio degli anni Duemila Michael Hardt e Antonio Negri proclamarono la fine dell’imperialismo e l’emergere dell’Impero «al crepuscolo della sovranità europea». Tuttavia la loro “suggestiva” descrizione della «nuova sovranità» aderiva perfettamente alla sovranità del Capitale in quanto potenza sociale astratta, ossia impersonale e incorporea, e quindi in grado di penetrare fin nei più reconditi recessi ogni persona e ogni corpo – sociale, umano, geopolitico. «Né gli Stati Uniti, né alcuno stato-nazione costituiscono attualmente il centro di un progetto imperialista. Nessuna nazione sarà un leader mondiale come lo furono le nazioni moderne» (Impero, Rizzoli, 2002). A prescindere dall’esattezza di questa analisi, occorre intanto dire che il «progetto imperialista» non ha alcun bisogno di un centro identificabile con uno Stato nazionale, con una sola potenza capitalistica. Tale «progetto» si dà in primo luogo come processo sociale capitalistico di portata mondiale, il quale riplasma sempre di nuovo la società, gli individui, le mappe geopolitiche. Al cuore del fenomeno che chiamiamo imperialismo batte il cuore mostruoso del moloch capitalistico, riconducibile ai rapporti sociali di dominio e di sfruttamento peculiari di questa epoca storica – quella definita appunto come capitalistica. È la natura stessa del Capitale ad essere imperialista, cioè a dire aggressiva, espansiva, antagonista, bellicosa, e alla fine questa sua natura malignamente volitiva si è rispecchiata anche nella sovranità propriamente politica, trasformando lo Stato in un potente strumento posto al suo servizio. La costituzione materiale dell’Imperialismo è dunque il rapporto sociale capitalistico. Esattamente come il Capitale nella sua essenza più pura, l’Imperialismo è la guerra sistemica (economica, tecnologica, scientifica, militare, ideologica) tra le grandi (e le medie) nazioni per l’accaparramento di mercati, di materie prime, di forza-lavoro, di profitti. Dicendo che il capitalismo (o l’imperialismo) è guerra non si fa dell’ideologia: ci si limita a registrare un dato di fatto. Questa guerra può anche dare luogo con assoluta necessità (ossia senza alcuna contraddizione) al conflitto armato, che si dà appunto come continuazione della guerra sistemica con i mezzi adeguati a raggiungere determinati obiettivi altrimenti irraggiungibili.
Presentando il suo ultimo libro (A sinistra. Da capo: sic!), Goffredo Bettini, già teorico del veltronismo, poi teorico del “renzismo” e oggi teorico del “contismo”, ha detto che «essere riformisti significa controllare ciò che di smisurato c’è nel capitalismo»: mettere le brache al Moloch è da sempre la miserabile “utopia” dei riformatori sociali. Il capitalismo o è smisurato, in tutti i sensi, o semplicemente non è: tertium non datur, come scrivono quelli che la sanno assai più lunga di chi scrive.
Il declino e l’ascesa delle nazioni sulla scena mondiale costituiscono un fenomeno interno alla dialettica della Società-Mondo dominata dal rapporto sociale capitalistico di produzione. Il fatto che oggi la Cina contenda agli Stati Uniti la leadership capitalistica dimostra ancora una volta come il fondamento primo dell’Imperialismo sia la potenza economica di un Paese, mentre l’apparato militare può solo in minima parte surrogare la mancanza di quella potenza, come nel caso della Russia, che difatti oggi cerca il sostegno, anche solo diplomatico, del gigante asiatico ma al contempo teme, giustamente, di esserne fagocitata, assorbita, ridotta a mera provincia del Celeste Imperialismo. Com’è noto, l’economia cinese oggi è dieci volte più grande di quella russa, se non più. La stessa dimensione e aspirazione imperiale della Federazione Russa deve insomma fare i conti con la realtà mondiale dell’imperialismo, come stiamo vedendo anche in questi giorni: non basta volere, bisogna anche potere, e il potere oggi è in primo luogo fondato sull’economia – che rende anche possibile la creazione e il mantenimento di una potente macchina bellica.
L’Unione Sovietica era costretta a usare vecchi metodi colonialisti o semicolonialisti nella sua area di influenza diretta proprio a causa della sua arretratezza capitalistica, e non a caso le direttrici dell’imperialismo russo in epoca sovietica erano orientate verso i suoi satelliti europei e verso i paesi arretrati del resto del mondo, mentre l’imperialismo statunitense rivaleggiava sul terreno economico (fondamento della politica imperialista) con i Paesi capitalisticamente più sviluppati del mondo. Questa divisione imperialistica del lavoro tra Unione Sovietica e Stati Uniti rifletteva la diversa potenza capitalistica delle due Super Potenze, come allora venivano chiamate. La rapida emancipazione della Cina e dall’India dall’oppressiva tutela economica e politica dell’Urss testimonia appunto della debolezza strutturale dell’imperialismo russo di quel tempo. La Russia di Putin eredita gran parte delle magagne strutturali dell’Unione Sovietica. Ecco perché non va molto distante dalla realtà chi oggi definisce l’aggressione dell’Ucraina da parte della Russia una guerra imperialista e coloniale – o neocoloniale.
La “maldestra” concettualizzazione dell’Impero da parte di Hardt e Negri li portò su una posizione apologetica nei confronti della globalizzazione capitalistica, anche questo un fenomeno immanente alla natura del Capitale, come si ricava già dagli scritti giovanili di Marx ed Engels. «Sosteniamo che l’Impero è meglio di ciò che l’ha preceduto, allo stesso modo in cui Marx insisteva che il capitalismo era meglio delle forme di società e dei modi di produzione che aveva soppiantato». Solo degli indigenti in fatto di dialettica storica possono mettere sullo stesso piano la rivoluzione capitalistica antifeudale e antiartigianale (avversa cioè al capitalismo piccolo-borghese che tanto piaceva a Proudhon) di cui scriveva Marx, con la rivoluzione capitalistica che sempre accompagna lo sviluppo capitalistico – e infatti Marx definì quello capitalistico il primo modo di produzione rivoluzionario che sia mai comparso sulla scena storica: il Capitale non può sopravvivere senza rivoluzionare sempre di nuovo la società nel suo complesso. Questa incomprensione della natura del Capitale ha portato Negri a teorizzare almeno ogni dieci anni epocali svolte storiche aventi la forza di mutare le “leggi” fondamentali nel modo di produrre e distribuire la ricchezza sociale capitalistica – a cominciare dalla marxiana legge del valore. L’approccio marxiano alla rivoluzione capitalistica fu rivoluzionario, anche sul piano squisitamente storico (considerato che ai suoi tempi in molti Paesi occidentali anche la borghesia giocava un ruolo storicamente progressivo); l’approccio di Hardt e Negri alla rivoluzione capitalistica è invece ultrareazionario, a dimostrazione che la teoria ha sempre modo di “riflettersi” puntualmente sulla prassi.
Scriveva Dario Fabbri su Limes dell’aprile 2018, dopo aver descritto in modo assai dettagliato il modo in cui gli Stati Uniti difendono lo status quo geopolitico mondiale e consolidano il loro status privilegiato di «monopotenza globale»: «Dopo aver considerato a lungo il disordine una pericolosa minaccia al primato globale, adesso Washington tollera e favorisce una moderata dose di caos. Dopo aver pensato di imporsi in ogni crisi, ha compreso che l’entropia può rivelarsi utile. Specie se convogliata nei teatri in cui sono attivi i suoi rivali. Perché può palesarne le incongruenze, inquinarne la traiettoria, costringerli a impantanarsi in sua vece. Consapevolezza tipica di un egemone di lungo corso, contemporaneamente contento del proprio successo e affaticato dallo sforzo profuso. Così da soggetto revisionista, l’America si è tramutata in esponente dell’ancien régime. Da imperialista si è fatta imperiale. In formula: ha smesso di fare la guerra semplicemente perché può, scegliendo di intervenire soltanto quando deve, ovvero quando è in pericolo la sua supremazia. Il resto è lasciato alla cura o all’imperizia degli altri». Da imperialista si è fatta imperiale? Non mi pare proprio. Se mai si può dire che le due dimensioni continuano a coesistere secondo una dialettica adeguata ai tempi, ed è soprattutto vero che gli Stati Uniti cercano, oggi come ieri e come sempre, di adattare il più rapidamente possibile la loro strategia egemonica al contesto mondiale, cercando di far fruttare al massimo la posizioni di vantaggio sistemico che hanno conquistato nell’ultimo secolo. D’altra parte molte cose sono cambiate dal 2018, e lo stesso Fabbri forse parlerebbe di un ritorno degli Stati Uniti a una postura decisamente imperialista, in ogni caso assai diversa dal precedente approccio “imperiale”.
Concettualizzo l’imperialismo del XXI secolo come sistema unitario. Ai suoi tempi Lenin parlò di «Fronte unico livellato delle potenze imperialiste, della borghesia imperialista» (4). Mi cito e mi scuso: «Il conflitto totale (economico, tecnologico, scientifico, ideologico, geopolitico) tra le grandi nazioni si dà all’interno di un sistema sociale che oggi ha le dimensioni del nostro pianeta. Esiste dunque un solo sistema sociale, una sola società, quella dominata dai rapporti sociali capitalistici. In questo peculiare senso l’imperialismo del XXI secolo ha un carattere unitario nei suoi presupposti sociali e nella sua dinamica: sfruttamento del lavoro umano, saccheggio delle risorse naturali, lotta tra le imprese, tra le nazioni e tra i sistemi di alleanze imperialistiche per la conquista dei mercati, il controllo delle materie prime e la spartizione del plusvalore sociale mondiale. Questo sistema sociale altamente complesso, contraddittorio, conflittuale e fortemente diseguale al suo interno, che ha nelle diverse nazioni del mondo i suoi nodi locali reciprocamente connessi da mille relazioni (il concetto di “sovranità nazionale” deve confrontarsi con questa realtà), si oppone unitariamente alle classi subalterne di tutto il mondo. Queste classi avrebbero quindi tutto l’interesse a formare un fronte altrettanto unitario contro il nemico comune, ma questo oggi purtroppo è lungi dal verificarsi; l’anticapitalista deve porre questo problema al centro della sua riflessione politica e teorica, senza nulla concedere al consolatorio – quanto impotente – “ottimismo della rivoluzione”: la realtà è pessima e bisogna comprenderne le ragioni vicine e lontane, contingenti e storiche. L’imperialismo mondiale come fenomeno sociale di prima grandezza si dà dunque come lotta tra le diverse potenze imperialistiche; ciò che definisco Sistema Imperialistico Mondiale ha questo preciso significato, il quale esclude in radice una pacifica convivenza tra quelle potenze. Per questo ciò che definisco Imperialismo Unitario è l’esatto opposto del Superimperialismo a suo tempo concettualizzato da Kautsky – e smentito mille volte dai fatti. Chi sostiene, per qualsiasi ragione, un imperialismo o un’alleanza di Paesi imperialisti in realtà sostiene il sistema imperialista nella sua compatta e disumana totalità» (La natura della guerra in corso in Ucraina).
Per ritornare al libro di Molinari (meglio, al suo titolo) e concludere rapidamente questa breve riflessione, sostengo con una certa convinzione che non c’è alcun ritorno e nessun Impero: c’è piuttosto la disumana e violenta continuità del capitalismo – considerato nella sua totalità sociale. Detto questo, ritengo opportuno precisare che non sono affatto affezionato al termine imperialismo o ad altri termini che ci derivano anche dalla storia del movimento operaio: in generale ciò che per me conta è chiarire il concetto della cosa, anche se trovarle il nome più adeguato non mi sembra uno sforzo del tutto ozioso e “dottrinario”. «Proprio il vigore dell’analisi porta a distinguere fra ciò che appartiene alla storia sempre ripetuta dei predomini politici e ciò che vi è di nuovo nella mondializzazione imperialistica, lasciando all’eclettismo descrittivo e analogico la nozione di Impero» (5).
(1) «Di qui la crescente avversione americana per la volontà tedesca di costruire un proprio nucleo nel cuore del continente, tanto nella zona euro quanto in una futuribile Kerneuropa. Cominciata ai tempi di Obama, quando la teutonica urgenza di acquisire sovranità si è fatta patente, l’aggressione economica e diplomatica ai danni di Berlino è proseguita sul piano fattuale e retorico, attraverso il lancio del Trimarium, schema polacco concepito per creare distanza tra tedeschi e russi. Cui si è sommato lo strumentale sostegno fornito dalla superpotenza al prospetto francese di ribilanciamento dell’asse renano, frustrato dall’ascesa degli europei centro-orientali che non riconoscono in Parigi un legittimo interlocutore ma che dipendono da Washington per la loro sopravvivenza» (D. Fabbri, Limes, 2018). Nel 2017 raccolsi in un PDF «una parte dei post da me dedicati alla Guerra in Europa, ossia al conflitto sistemico che in questa prima parte del XXI secolo sta travagliando il Vecchio Continente. Crisi del cosiddetto “sogno europeo”, Questione Tedesca, crisi greca, Brexit, conflitto in Ucraina, ruolo dell’imperialismo energetico della Russia, l’Unione Europea nel nuovo scenario mondiale, l’Europa alle prese con il “populismo”: questi i temi affrontati nei post qui presentati in ordine cronologico, il quale rispetta abbastanza anche un ordine tematico».
(2) «Il presidente della Federazione russa ha polverizzato ciò che resta del progetto della globalizzazione e imposto agli equilibri internazionali una riedizione dei secoli passati, dove a contare è solo la più ampia aggregazione di potere, risorse, armi e ambizioni». Ma quale «riedizione dei secoli passati»: si tratta del capitalismo del XXI secolo, bellezza!
(3) Tipico fu il caso dell’Unione Sovietica, che prima (1939) si alleò con la Germania di Hitler, «che si trova nella situazione di uno Stato che aspira a vedere la cessazione rapida della guerra e che desidera la pace» (Molotov) e dichiarò potenze imperialiste e guerrafondaie la Francia e la Gran Bretagna, interessate alla «continuazione della guerra»; e che solo dopo il “tradimento” tedesco si schiererà con le ex potenze del male. «Per nascondere la loro essenza reazionaria e brigantesca, gli hitleriani attaccano il regime interno anglo-americano come un regime plutocratico. Ma in Inghilterra e negli Usa esistono le libertà democratiche, vi sono i rappresentanti operai di lavoratori, vi sono i partiti del lavoro, vi è un parlamento, mentre in Germania il regime di Hitler ha abolito queste istituzioni» (Discorso pronunciato da Stalin a Mosca il 7 novembre 1941). Nel secondo dopoguerra la storiografia sovietica cercherà di cancellare il giudizio di «guerra imperialistica» che i vertici del Cremlino avevano attribuito alla guerra fino all’aggressione tedesca dell’Urss del 1941, e che in ogni caso quell’aggressione aveva mutato radicalmente la natura della guerra: «Francia e Inghilterra si videro costrette a pensare meno alla realizzazione dei loro progetti imperialistici e più alla salvaguardia della loro dipendenza nazionale, grazie all’influenza esercitata dal popolo» (Lineamenti di storia del Pcus, 1962, in Storia del Marxismo, III, Einaudi, 1980). Inutile dire che lo stalinismo internazionale, a cominciare da quello italiano, sostenne senza alcuna esitazione (salvo rare eccezioni, puntualmente punite dai “compagni” fedeli alla linea) tutte queste perle “dialettiche”.
(4) Lenin, Risultati della discussione sull’autodecisione, 1916, Opere, XXII, Editori Riuniti, 1966.
(5) R. Gallissot, L’imperialismo e la questione coloniale e nazionale, in Storia del Marxismo, II, Einaudi, 1980.
Pingback: L’ESITO CHE CI INTERESSA | Sebastiano Isaia
Pingback: IL TOPO È GIÀ NELL’ANGOLO? | Sebastiano Isaia
Pingback: SULLA PAROLA D’ORDINE “DIFENDERE LA PACE” | Sebastiano Isaia