«Mi son fatto l’idea che quella in corso in Iran non sia una protesta, bensì una rivoluzione. L’ingresso dei bazarini – cioè dei commercianti, anima economica del sistema – nell’agone, insieme al movimento femminile, ai giovani, ai lavoratori e ai tanti diseredati dell’inferno iraniano – vero sostegno o stampella del sistema, sinora, degli ayatollah –, conferma che questa è proprio una rivoluzione» (Settimananews). La stessa idea si sta facendo strada anche nell’ambiente degli analisti politici e geopolitici del mondo occidentale, mentre gli alleati del regime iraniano, come i russi e i cinesi, parlano ovviamente di “rivoluzione colorata”, ossia di un complotto ordito dall’imperialismo occidentale a guida statunitense per annientare la Repubblica Islamica e instaurare un regime fantoccio agli ordini del Grande Satana. I manifestanti, nella migliore delle ipotesi, non sarebbero che degli ingenui che si lascerebbero strumentalizzare dalla propaganda dei nemici regionali e internazionali dell’Iran. Ma è corretto parlare di rivoluzione riferendoci a ciò che accade in questi giorni in Iran? Riformulo la domanda per espanderne il significato: di che rivoluzione stiamo parlando? In che senso insomma si può parlare di un evento rivoluzionario in Iran senza scadere in oziose dispute dottrinarie?
Nella sua versione più radicale, il movimento di lotta (che non cessa di svilupparsi nonostante la sanguinaria ferocia repressiva del regime iraniano) potrebbe conseguire i seguenti risultati di breve, medio e lungo termine: un cambiamento del regime politico-istituzionale, una modernizzazione complessiva della società iraniana (una sua “occidentalizzazione” tanto nella sua “struttura” economico-sociale, quanto nella sua “sovrastruttura” culturale), una ristrutturazione del rapporto tra centro e periferie (tra Teheran e le minoranze etniche: curde, azere, armene, beluci, arabe), una revisione nelle alleanze geopolitiche del Paese. Tutto questo non sarebbe certamente poca roba, e non pochi analisti ricorrono all’analogia con la caduta del Muro di Berlino e con il crollo dell’Unione Sovietica, per il ruolo che l’Iran ha nel mondo e non solo nella regione centro-asiatica e in Medioriente. Se non rivoluzionati, gli equilibri geopolitici del pianeta potrebbero uscirne significativamente modificati, senza contare l’effetto di emulazione che potrebbe investire molti regimi della regione, e non solo di essa. A scanso di antipatici equivoci, chi scrive non “promuove” né desidera alcun cambiamento negli assetti interimperialistici del pianeta e si batte (che grossa parola!) contro tutti gli imperialismi, grandi, medi o piccoli che siano. Su questo aspetto del problema rimando a un mio post.
Se a questo importante, ancorché potenziale, cambiamento della società iraniana colta nella sua necessaria relazione con il mondo, vogliamo dare il nome di rivoluzione (politica, sociale, culturale, ideale, geopolitica) personalmente non ho nulla da obiettare, una volta che si siano definiti con cura i contorni di questo processo sociale, che per gli anticapitalisti è soprattutto interessante perché esso potrebbe portare un miglioramento nelle condizioni di vita e di lavoro delle classi subalterne e delle donne, odiosamente discriminate da un regime misogino, oppressivo e ipocrita che costringe la gente a comportarsi in un modo nella vita privata, e in un altro nella vita pubblica – tenendo sempre presente che anche fra gli amici, al chiuso delle case trasformate in “discoteche” e sale di bellezza si possono celare delatori al servizio della Santa Moralità imposta dagli ayatollah a tutti gli iraniani. Da questa – cosiddetta – rivoluzione potrebbe anche derivare una maggiore agibilità politica e sindacale in grado di promuovere una più vasta e autonoma organizzazione dei lavoratori, dei disoccupati, dei contadini poveri, dei diseredati. Oggi non pochi sindacalisti e operai iraniani sono rinchiusi nelle carceri del Paese, colpevoli, ad esempio, di essersi opposti negli anni scorsi alle privatizzazioni di molte aziende statali, cosa che ha generato disoccupazione e più sfruttamento.
Senza spingerci oltre nelle potenzialità di un movimento di lotta che molti chiamano rivoluzione, già quanto sinteticamente affermato basta, almeno a chi scrive, per ritenere molto interessante il processo sociale in corso in Iran, il cui limite più grande agli occhi di un anticapitalista è ovviamente quello di dipanarsi all’interno della società capitalistica, con ciò che ne segue anche sul terreno geopolitico. Il cambiamento di regime politico-istituzionale non scalfirebbe minimamente il regime sociale fondato, in Iran come nel resto del mondo, sui rapporti sociali capitalistici di dominio e sfruttamento. Non dimentichiamoci che anche il movimento di lotta che nel 1979 portò alla caduta del vecchio regime sostenuto dall’imperialismo americano fu definito da molti osservatori nei termini di una rivoluzione sociale, salvo poi scoprire nel giro di qualche mese tutti i limiti, tutte le contraddizioni di quella “rivoluzione”, limiti e contraddizioni peraltro già ben visibili prima della caduta del Pavone ad un’analisi che non fosse viziata da pregiudizi ideologici – allora per molti “antimperialisti” occidentali ciò che più contava era il numero di bandiere a stelle e strisce bruciate dai manifestanti nelle strade delle città iraniane. Oggi molti “antimperialisti” non sostengono il movimento di lotta iraniano e ne parlano anzi nei termini di una “rivoluzione colorata” perché i manifestanti non bruciano le odiate bandiere americane e soprattutto perché temono che il polo imperialista che essi sostengono (quello che ha come nucleo centrale la Cina e la Russia) possa indebolirsi.
Come ho scritto altrove, i limiti, le contraddizioni e gli errori del movimento di lotta iraniano di questi giorni (come quello di appellarsi alle Nazioni Unite e alle democrazie occidentali) vanno visti anche alla luce dello stato comatoso nel quale riversano le classi subalterne di tutto il mondo, come dimostra anche la guerra in Ucraina, la quale non ha ancora suscitato un vasto movimento di lotta a essa ostile nei Paesi che ne pagano le conseguenze in termini di sacrifici economici imposti alla gente.
Scrivevo lo scorso 19 ottobre: «Possiamo benissimo parteggiare per gli iraniani oppressi e sfruttati senza per questo condividere le loro attuali illusioni. Possiamo altrettanto bene assumere un atteggiamento radicalmente contrario alla brutalità del regime iraniano senza che ciò significhi in alcun modo sostenere gli interessi dei regimi (regionali e globali) suoi avversari. È da questa peculiare prospettiva che esprimo, per quel che vale, la mia forte simpatia a chi oggi in Iran manifesta conto il regime rischiando di finire in una cella, in un letto di ospedale o all’obitorio».
SI FA PIÙ FEROCE LA GUERRA DEL REGIME IRANIANO CONTRO I MANIFESTANTI
IRAN. LA LOTTA CONTRO IL REGIME NON SI ARRESTA
CON I RIBELLI IRANIANI! CONTRO IL REGIME OMICIDA DEGLI AYATOLLAH!
Ciao Sebastiano,
debbo dire che non condivido l’analisi benchè apprezzo lo sforzo e l’onestà e coerenza di pensiero.
Partiamo dall’anello debole secondo me dell’analisi, che caratterizza anche le posizioni di quelli che parlano di “complotto” e “rivoluzione colorata”: il soggettivismo politico che attribuisce allo stato di non autonomia politica del soggetto proletario come fattore determinante sul corso degli eventi Iraniani. Tu scrivi: “ le contraddizioni e gli errori del movimento di lotta iraniano di questi giorni (come quello di appellarsi alle Nazioni Unite e alle democrazie occidentali) vanno visti anche alla luce dello stato comatoso nel quale riversano le classi subalterne di tutto il mondo…”. Non è così e cerco di spiegarlo in questo articolo del 31 ottobre.
http://noinonabbiamopatria.blog/2022/10/31/iran-composito-nella-crisi/
Ciao. Ti ringrazio per l’apprezzamento ancorché critico, che in genere risulta più stimolante. «… vanno visti anche alla luce»: ho scritto «anche», non esclusivamente o essenzialmente. Ho letto il tuo interessante articolo, ma non sono riuscito a cogliere il nesso tra la critica che mi fai e le tesi che vi si trovano, soprattutto a proposito del “complottismo” e della “rivoluzione colorata”. Ma ho copiaincollato l’articolo e mi riservo di leggerlo con l’attenzione che merita e che adesso non posso dedicargli. Ti ringrazio nuovamente e ti saluto. Ciao!
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