Non appena da qualche parte si verifica un tumulto,
ecco tutti i rivoluzionari latini delirare, senza alcun
atteggiamento critico (F. Engels).
Ciò che a mio avviso definisce sul piano storico-sociale la natura di una rivoluzione non è, in primo luogo e fondamentalmente, la sua base sociale, ma piuttosto gli interessi sociali che in modo determinante, rispetto ad altri interessi in gioco, la orientano attraverso la mediazione di una soggettività politica. La rivoluzione borghese rappresenta un esempio “classico” di quel che qui si intende affermare: la sua base di massa fu infatti costituita dagli strati più poveri della società: contadini, operai, disoccupati, piccolo borghesi, “plebaglia” di vario genere, mentre la sua testa politica, incarnata perlopiù dagli intellettuali borghesi, rappresentava gli interessi della nuova classe dominante, della classe storicamente ascendente che reclamava il potere politico dopo aver conquistato, su una base però ancora ristretta e contraddittoria, quello economico – ma in larga misura anche quello culturale. Per dirla con Franco Battiato, «Le barricate in piazza le fai per conto della borghesia che crea falsi miti di progresso». In realtà allora il progresso fu reale, e i «falsi miti» verranno dopo, con il consolidamento della nuova società borghese. In questo senso le grandi rivoluzioni borghesi (olandese, inglese, francese, americana) furono indubbiamente movimenti popolari sotto l’aspetto sociologico e politologico, e non a caso il concetto di popolo diventerà quello più usato dalla classe dominante per celare la natura classista della società capitalistica – a cominciare dalla sua democrazia.
Quando parlo di «soggettività politica» non intendo riferirmi in modo esclusivo né determinante a una volontà politica chiaramente espressa ed organizzata (ad esempio in un partito), ma in primo luogo alla coscienza, alla visione e alla volontà della classe sociale che in una data epoca storica si trova all’avanguardia del processo storico-sociale ed è in grado di spazzare via il vecchio regime sociale (sociale, si badi bene, non meramente politico-istituzionale), e costruirne uno nuovo.
La rivoluzione nazionale-borghese cinese culminata nel 1949 con la proclamazione della Repubblica Popolare ebbe soprattutto i contadini poveri come sua base di massa, nonostante avesse come sua guida un soggetto politico (il PCC) che si fece strumento della costruzione in Cina di una moderna società capitalistica in grado di mantenersi politicamente indipendente dalle due superpotenze uscite vincitrici dal Secondo macello mondiale – Stati Uniti e Unione Sovietica. La Rivoluzione d’Ottobre conservò la sua natura proletaria fin tanto che il proletariato d’avanguardia russo, orientato e organizzato dal Partito Bolscevico di Lenin e Trotsky, conservò i suoi legami con il proletariato internazionale ed ebbe la forza di influenzare politicamente i contadini poveri. Quando il proletariato russo perse quella capacità, insieme sociale e politica, e che ebbe nel Soviet la sua espressione più genuina e potente, la Rivoluzione d’Ottobre lasciò il campo alla controrivoluzione stalinista che pose le basi dell’accumulazione capitalistica a tappe forzate in Russia: la natura proletaria del processo rivoluzionario apertosi nel febbraio del 1917 si spense a vantaggio della sua natura capitalistica. Morta la rivoluzione proletaria, rimase in piedi quella borghese, che assunse nuovi caratteri rispetto a quelli che aveva avuto nel febbraio del 1917 – e che probabilmente avrebbe avuto se la Rivoluzione d’Ottobre non avesse avuto luogo. Ricordiamoci che senza l’appoggio di una parte dei contadini russi e la neutralità di un’altra parte (com’è noto, i bolscevichi attuarono il programma dei Socialisti Rivoluzionari, cioè del partito dei contadini poveri) la Rivoluzione d’Ottobre non sarebbe stata possibile. I contadini in Russia rappresentavano infatti la classe sociale di gran lunga più numerosa. Eppure né la Rivoluzione di Febbraio, iniziata quando i soldati-contadini abbandonarono il fronte per prendersi la terra, né quella di Ottobre furono, sul piano storico-sociale, delle rivoluzioni contadine.
Marx ed Engels sostenevano che i contadini non sono erano in grado di generare una loro autonoma rivoluzione sociale perché da sempre il potere risiede nella città, non nella campagna, la cui disgregazione ad opera del capitale genera i moderni rapporti sociali capitalistici. «Si vede che il loro [dei contadini] sfruttamento differisce dallo sfruttamento del proletariato industriale ormai soltanto per la forma. Lo sfruttatore è il medesimo: il capitale. […] Il titolo di proprietà del contadino è il talismano con cui il capitale ha potuto finora affascinarlo, il pretesto col quale finora lo ha aizzato contro il proletariato industriale. Solo la caduta del capitale può far rialzare il contadino; solo un governo anticapitalista, proletario, può spezzare la sua miseria economica, il suo degradamento sociale» (*). Analogo discorso si può fare con gli strati sociali urbani che per la loro posizione nella società possono solo appoggiare le due classi fondamentali della società capitalistica: i detentori di capitali e i nullatenenti, la classe di chi sfrutta e la classe di chi viene sfruttato.
Detto questo, e ricordato come il termine rivoluzione sia tra quelli più inflazionati e svuotati di significato, non polemizzerò fino alla morte, per così dire, con chi parla di rivoluzione riferendosi, ad esempio, al vasto, importante e complesso movimento di lotta che sta investendo l’Iran. Qui, e va detto a scanso di equivoci, non siamo dinanzi al tumulto di cui parlava Engels in una lettera a Bernstein. Ma possiamo parlare di rivoluzione (o di «situazione rivoluzionaria»)? E se sì, in che termini è corretto parlarne? Qui nemmeno proverò a dare una risposta, e posso solo rinviare ai miei post dedicati all’Iran. In ogni caso, l’«atteggiamento critico» nell’approcciare i fenomeni sociali è sempre quello più corretto e fecondo.
Più in generale, per chi scrive ciò che conta è intendersi sui concetti, ossia sul significato che attribuiamo alle parole che usiamo per dar conto dei fenomeni sociali, anche se lo sforzo di adeguare le parole ai concetti ai quali esse rinviano non è del tutto ozioso, tutt’altro. Rivoluzione sociale, rivoluzione politica, rivoluzione economica, rivoluzione culturale: di quale tipo di rivoluzione vogliamo parlare (sempre in termini astratti, generali, senza un puntuale riferimento all’attualità)?
In effetti, il concetto di rivoluzione sociale contiene, almeno nella mia concezione, tutte le altre tipologie di “rivoluzione”. Per Marx il modo di produzione capitalistico genera continue rivoluzioni sociali, nel senso che le trasformazioni che necessariamente avvengono nella struttura economica della società capitalistica danno luogo, con un ritardo più o meno grande e attraverso complesse mediazioni “sovrastrutturali” spesso di difficile interpretazione, a trasformazioni più o meno profonde anche nella sfera politica, in quella culturale, relazionale (ad esempio nella famiglia, nel rapporto uomo-donna), psicologica e così via. Sotto questo aspetto, si può ben parlare di rivoluzione capitalistica, e sempre Marx sostenne che quello capitalistico è il solo modo di produzione rivoluzionario prodotto dalla storia delle società classiste, proprio perché esso può vivere, superando sempre di nuovo le contraddizioni che esso mette in campo, solo attraverso continui cambiamenti nella sua base tecnologica e organizzativa. Di qui, anche, la sua tendenza ad abbattere qualsiasi ostacolo (di natura economica, istituzionale, culturale, psicologica, etica, ecc.) posto alla massima valorizzazione del capitale investito nella produzione del profitto – con ciò che ne segue nella sfera della circolazione del capitale, in quella del mercato delle materie prime e del lavoro, e così via. Di qui, la naturale tendenza imperialistica del capitalismo, il quale tende a conquistare l’intero spazio sociale: da quello geoeconomico a quello esistenziale – facendo cioè degli individui creature a immagine e somiglianza del Capitale. Il progressismo borghese guarda con apologetico entusiasmo alla capacità del capitalismo di cambiare continuamente “usi e costumi”, di svecchiare la società, di modernizzarla, a partire dalla sua “cellula fondamentale”, la famiglia. Tutto è fluido, tutto è relativo, nulla è immodificabile, assoluto, niente rimane vero per sempre. Il corpo della società e degli individui è plasmato e riplasmato sempre di nuovo, sotto l’autoritario input delle necessità economico-sociali. Il conservatorismo borghese, che spesso ama presentarsi al mondo (in primis a sé stesso) come “anticapitalismo”, si oppone a questa tendenza “rivoluzionaria” del capitalismo, un po’ come faceva, mutatis mutandis, il «socialismo reazionario» a suo tempo combattuto e deriso da Marx e da Engels, secondo i quali la società capitalistica andava (e va!) superata con un movimento in avanti dell’umanità, non andando indietro verso forme meno sviluppate e disumane dello stesso capitalismo – piccola industria, artigianato, piccolo commercio e così via. Per i due amici comunisti solo spezzando definitivamente il rapporto sociale di dominio e di sfruttamento capitalistico l’umanità si sottrae al rischio sempre incombente del «ritorno della vecchia merda»: i bisogni umani non soddisfatti spalancano infatti le porte al Dominio, all’oppressione economica, alla divisione in classi dell’umanità. Progressismo e conservatorismo rappresentano indubbiamente le due facce di una stessa odiosa ed escrementizia medaglia.
La rivoluzione sociale anticapitalista è dunque quel processo sociale rivoluzionario che intende mettere in discussione lo status quo sociale, e non solo quello meramente politico-istituzionale; non solo la forma giuridica della proprietà – ad esempio, con il passaggio dal capitalismo “privato” a quello “di Stato” – o la struttura tecnologico-organizzativa dell’economia. Solo la fuoriuscita dell’umanità dalla disumana dimensione del dominio di classe rappresenta nel XXI secolo un programma autenticamente rivoluzionario. Personalmente è pensando a questo tipo di processo sociale, a questo eccezionale Programma, che “applico” il termine di rivoluzione, anche per non contribuire a mia volta al suo abuso inflazionistico e non fare come i «rivoluzionari latini» inclini al delirio “rivoluzionario” di cui parlava il vecchio Engels.
(*) K. Marx, La lotta di classe in Francia dal 1848 al 1850, p.131, Editori Riuniti, 1976.
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