Ernesto Galli della Loggia torna sul Corriere della Sera a parlare dell’«ossessione spaziale» della Russia, dagli Zar a Stalin per giungere, senza alcuna soluzione di continuità, fino a Putin. «Tra il XVII e il XIX secolo una particolarissima condizione geografica consentì alla Moscovia, il cuore dello Stato russo, di divenire, prima grazie alla conquista della sterminata Siberia e all’annessione di gran parte della Polonia-Lituania, dell’Ucraina e della Crimea, e poi grazie all’occupazione coloniale dei confinanti altrettanto immensi territori dell’Asia centrale, l’unico Stato transcontinentale del pianeta: da Varsavia all’Alaska (russa fino a metà ’800), dall’Artico alle vette dell’Hindu-Kush. Ciò che peraltro non impedì alla medesima Russia zarista di aspirare costantemente anche a una sfera d’influenza nei Balcani e a uscire dal Mar Nero verso il Mediterraneo.La Russia sovietica fu la degna erede di questa storia». Su quest’ultima affermazione chi scrive non ha mai nutrito alcun dubbio. Riprendo la citazione: «Ma finito il tempo degli zar dal 1917 Mosca ha un problema cruciale: cercare di nascondere o contraffare di fronte al mondo il carattere reazionario e le brutali conseguenze imperialistiche del suodrammatico e irrisolto rapporto con lo spazio». Un’incombenza ideologico-propagandistica che cadde anche sulle spalle dello stalinismo internazionale, a cominciare da quello italiano magistralmente incarnato da Palmiro Togliatti, il Migliore fra i devoti alla Chiesa Moscovita, probabilmente il più intelligente fra i Guardiani della controrivoluzione occidentali.
Della Loggia prende di mira soprattutto la narrazione propagandistica di stampo stalinista, poi ripresa da Putin, centrata sulla necessità della Russia di difendersi perennemente dal «nemico esterno, dal quale quindi cautelarsi allontanandolo alla maggiore distanza possibile»: di qui l’annessione all’impero russo di immensi territori durante la Seconda guerra mondiale, iniziata cronologicamente con il famigerato Patto Ribbentrop-Molotov del 23 agosto 1939. Dal punto di vista di chi scrive la politica delle annessioni praticata dall’Unione Sovietica dopo quella data avrebbe avuto una natura ultrareazionaria e imperialista anche se davvero fossero state ragioni di sicurezza nazionale a motivarla: solo dal punto di vista nazionale, che è il punto di vista delle classi dominanti, è infatti legittimo difendersi dal nemico anche sulla pelle di altri Paesi, sacrificando cioè i loro interessi nazionali. Qui nazionalismo e imperialismo si fondono, necessariamente.
Considerate dalla prospettiva anticapitalista, le ragioni degli Stati che compongono il sistema mondiale dell’imperialismo (ciò che chiamo imperialismo unitario) non hanno altra giustificazione se non quella di preservare, rafforzare ed estendere la propria potenza sistemica.
Soprattutto nel XXI secolo, nell’epoca del dominio globale e totale del Capitale, la distinzione tra Paese che aggredisce e Paese aggredito ha un valore assoluto e dirimente solo dal punto di vista degli interessi nazionali, i quali sono radicalmente ostili agli interessi delle classi subalterne, in particolare, e, più in generale, a quelli dell’umanità e della natura. È da questa prospettiva che, ad esempio, approccio il conflitto in corso in Ucraina. Ma riprendiamo il filo del discorso interrotto sul più bello, per così dire, cioè sull’evocato Patto Ribbentrop-Molotov giustificato da Mosca in chiave difensivista.
Scrive l’autorevole editorialista del Corriere della Sera: «Ed è precisamente da questo punto di vista che appare davvero esemplare, simbolicamente esemplare, il comportamento tenuto dal potere russo rispetto al documento-chiave, all’atto in un certo senso fondativo, della sua vertiginosa crescita territoriale e di potere geo-politico in coincidenza con la Seconda guerra mondiale. Comportamento sul quale oggi possiamo dire di sapere tutto grazie a un importante libro appena uscito di Antonella Salomoni (Il protocollo segreto. Il patto Molotov-Ribbentrop e la falsificazione della storia, il Mulino) che ne ha ricostruito tutte le tappe. Si tratta del protocollo firmato dall’Urss e dalla Germania nazista contemporaneamente al Patto di non aggressione del 23 agosto ’39 – che entrambe le parti s’impegnarono a tenere segreto – con il quale non solo in pratica i due Paesi si spartirono la Polonia ma si dividevano altresì in due grandi sfere d’influenza tutta l’area dalla Finlandia alla Moldavia (dove come ho già detto, la Russia si affrettò subito a fare man bassa in attesa di completare l’opera dopo il 1945). Un protocollo segreto che cambiava completamente la vera natura e il significato del patto. Il fine sbandierato della “non aggressione”, diveniva infatti la maschera di tutt’altro: della piena partecipazione dell’Urss ai frutti dell’aggressione hitleriana alla Polonia, atto d’inizio della guerra europea. Era cioè il consenso sovietico a quell’aggressione in cambio di un enorme ampliamento territoriale sul Baltico e della creazione di una potenziale sfera d’influenza nei Balcani sudorientali. Da parte russa, dunque, era non già un modo per guadagnare tempo e cercare di ritardare l’attacco della Germania considerato prima o poi inevitabile – come l’ Unione sovietica si sforzò da subito e poi sempre in seguito di presentare l’accordo – bensì si trattava di una vera e propria alleanza in cui Berlino metteva le armi e Mosca il suo placet (oltre che una vera e propria valanga di materie prime per la macchina bellica tedesca, con un’altra intesa): ovviamente comune, pertanto, la divisione degli utili. Come avrebbe ammesso il presidente della Commissione d’indagine russa nominata un anno prima del crollo del comunismo, il protocollo “inficiava lo status ufficiale dell’Urss come neutrale”: insomma ne faceva virtualmente un’alleata del Terzo Reich e perciò suo complice nello scatenamento della guerra.L’intero senso del secondo conflitto mondiale ne usciva profondamente cambiatorispetto alla versione corrente: era dunque davvero necessario che il protocollo restasse segreto».
Il «comunismo» di cui parla Galli della Loggia va a mio avviso rubricato come stalinismo, che con il comunismo (di Marx e di Engels) non ha alcuna relazione di parentela ma ne è piuttosto l’esatto opposto, la sua più completa negazione: il nostro Professorone sta insomma parlando, a sua insaputa, del capitalismo mondiale.
Chi ha avuto la ventura di conoscere la storia del movimento operaio internazionale dal punto di vista dell’antistalinismo di matrice comunista non solo non ha alcuna difficoltà a recepire come sostanzialmente corrette le informazioni fornite da della Loggia, ma le ha sempre conosciute e divulgate nell’ambito appunto della lotta politica e teorica contro lo stalinismo in quanto espressione della controrivoluzione capitalistica che spazzò via l’esperienza rivoluzionaria dell’Ottobre 1917 e come ideologia dello Stato Russo e delle sue sezioni nazionali. Per questo sono curioso di conoscere le novità storiografiche apportate dal libro di Antonella Salomoni, che mi riprometto di leggere al più presto.
Personalmente, e sulla scia dei comunisti che già negli anni Venti denunciarono il processo di degenerazione in atto nella Russia Sovietica, ho sempre avuto ben chiara la natura imperialista del Secondo macello mondiale, definito “Guerra di liberazione” dalle potenze che uscirono vittoriose da quel conflitto. Il Patto Russo-Tedesco del 1939 conferma insomma la natura imperialista di quella guerra: si trattò di un patto di spartizione dell’Europa, un accordo tra due briganti imperialisti, come avrebbe detto Lenin, il quale è, insieme a Marx ed Engels, tra i personaggi storici più odiati dagli sciovinisti russi, da Stalin a Putin. Odiati a ragione, occorre dirlo, dal punto di vista di quella gentaglia.
Difendere l’Unione Sovietica non significava, come sostenevano gli stalinisti di tutto il mondo (e anche i trotskisti, per la verità) (1), difendere le ragioni del «primo Paese socialista del mondo», per definizione «amante della pace», ma sostenere gli interessi di un Paese che alla fine degli anni Trenta mostrava di essere capitalista e imperialista al pari della sua agguerrita concorrenza. Esattamente come nel caso della Prima guerra mondiale, per i comunisti (autentici) si trattava di trasformare la guerra imperialista in guerra civile, in rivoluzione sociale. Purtroppo la controrivoluzione fascista e quella stalinista operarono congiuntamente, e con pieno successo, per ridurre il comunismo militante ai minimi termini, così che la parola d’ordine rivoluzionaria del 1914 non ebbe modo di circolare se non in un ambito politico e sociale ristrettissimo. Questo detto, beninteso, a onore degli sconfitti dal fascismo, dallo stalinismo e dalla democrazia – tre modi di apparire dello stesso dominio sociale.
Scrive Giovanni Pardi su Limes: «Dietro l’ipocrita definizione di “patto di non aggressione” tra Berlino e Mosca vi fu in realtà una vera e propria alleanza strategica e politica, militare e ideologica». Esattamente. Si può parlare di «patto contro natura», come in molti hanno fatto e continuano a fare, solo se si dà credito alla natura comunista del regime stalinista, una ciclopica menzogna che la democrazia occidentale ha peraltro avuto (ed ha, mutatis mutandis) tutto l’interesse a difendere per combattere più facilmente l’autentico comunismo, presentato dai suoi nemici dichiarati come una prospettiva indegna di essere agognata da parte delle classi subalterne: «Tenetevi il capitalismo, ché con il comunismo ci scapitate!». Come sempre però i nemici più insidiosi del comunismo si trovano soprattutto fra quelli che si definiscono “comunisti” – e poi magari difendono le ragioni della Cina, di Cuba, della Russia… In Russia (e altrove: vedi la Cina) non c’è mai stato un solo atomo di socialismo, né reale né irreale. Rinvio ai miei diversi scritti dedicati a questo tema.
«Evocato durante il processo di Norimberga e pubblicato negli Stati Uniti in base a copie non certificate, il protocollo segreto scatenò una controversia che prese nome dall’opuscolo I falsificatori della storia. Da quel momento le interpretazioni in Occidente e in Urss si sono divaricate: per il campo occidentale il protocollo era “vero”; per quello sovietico era “falso”. Il ritrovamento, nel 1992, del “plico” che lo conteneva, invece di ricongiungere la storiografia russa a quella occidentale, ha dato inizio ad un processo di restaurazione delle tesi dei Falsificatori della storia che arriva, con Putin, fino ai nostri giorni» (2). Ho letto l’opuscolo di cui si parla; tutta la difesa del Cremlino si riduce nel tentativo di dimostrare che Mosca fu costretta ad allearsi “tatticamente” (meglio: furbescamente, grazie alla grande lungimiranza di Stalin) con Berlino perché Parigi e Londra rifiutarono di allearsi con la prima, nonostante tutti gli sforzi messi in essere dalla diplomazia russa. Furono piuttosto gli inglesi e i francesi a spingere la Germania contro la Russia, ormai isolata sul piano internazionale e ancora impreparata sul piano militare. Ci si alleò insomma con l’imperialismo tedesco perché non fu possibile allearsi con l’imperialismo francese e britannico! Intanto occorre dire che se l’alternativa si pose per l’Unione Sovietica in quei termini ciò fu dovuto unicamente alla natura altrettanto imperialista di quel Paese, che ormai faceva parte a pieno titolo del sistema imperialista mondiale. In secondo luogo con le dichiarazioni contenute in quell’opuscolo Mosca rivoltava per l’ennesima volta la frittata circa i suoi rapporti con le potenze “democratiche”.
Scrive Paolo Spriano: «Dalla fine di settembre e nel corso del mese di ottobre [del 1939] assistiamo a due prese di posizione concordi, l’una di Molotov e l’altra di Dimitrov, che sono altresì documenti e sanzioni del nuovo indirizzo comunista. Molotov, prendendo la parola il 31 ottobre davanti al Soviet supremo, sostiene che “certe vecchie formule” non hanno più né senso né corso legittimo: non si deve, ad esempio, parlare più di “potenze pacifiche”, intendendo le democrazie occidentali [come aveva fatto lo stesso Stalin ancora nel marzo 1939]. Semmai, quelle potenze vanno chiamate guerrafondaie: “Se si parla oggi di grandi potenze europee, la Germania si trova nella situazione di uno Stato che aspira a vedere la cessazione rapida della guerra e che desidera la pace, mentre l’Inghilterra e la Francia cono per la continuazione della guerra e contro la conclusione della pace”. […] Molotov, nell’agosto del 1940, blandirà anche Mussolini, vantando le buone relazioni tra l’Urss e l’Italia fascista. Ma, al di là delle ragioni “tattiche”, che fondamento dare al giudizio sulla seconda guerra mondiale come guerra imperialistica? Non si può scordare che esso verrà esplicitamente confutato dallo stesso Stalin, il quale dirà nel 1946 ciò che Dimitrov e Molotov negano nel 1939-40, che “la seconda guerra mondiale prese sin dall’inizio un carattere di guerra antifascista e di liberazione”» (3). Primo tempo (1939-giugno 1941): per Mosca, Francia e Gran Bretagna sono potenze imperialiste e guerrafondaie; secondo tempo: (giugno 1941-1946): per il Cremlino Francia, Gran Bretagna e (soprattutto) Stati Uniti sono Paesi pacifisti e antifascisti; terzo tempo (inizio Guerra fredda): gli ex alleati non sono che dei «falsificatori della storia che cercano di sottrarsi alla responsabilità per la loro politica, che ha armato l’aggressione hitleriana, ha aperto la strada alla seconda guerra mondiale e a una guerra catastrofica mai vista prima nella storia, costata all’umanità milioni e milioni di vittime» (4). Morti che ovviamente ricadono sulla coscienza, per così dire, dell’imperialismo unitario, Unione Sovietica compresa, la quale tra l’altro spesso cercò di compensare la scarsa qualità tecnologica del suo esercito con la quantità dei soldati gettati nella fornace bellica – con i commissari pronti a sparare sui soldati russi che cercavano di fuggire o di arrendersi al nemico.
Scrive Claudia Weber, autrice del libro Il patto. Stalin, Hitler e la storia di un’alleanza mortale. 1939-41 (Einaudi, 2021): «Quando ho iniziato a interessarmi per un altro libro al massacro di Katyn, commesso dall’Unione Sovietica ma negato fino all’epoca di Gorbachev, tra i miei colleghi ho percepito una difficoltà, un disagio ad affrontare questo genere di temi e la questione della responsabilità del massacro: se fosse stata l’NKVD o le SS di Himmler. Io invece ho pensato che fosse una questione interessante e mi sono chiesta come mai ci fosse così tanto unbehagen, disagio, e perché sia così difficile affrontare queste storie così complesse, certo contraddittorie, ma proprio per questo più interessanti. Poi, mentre scrivevo del massacro della foresta di Katyn, mi sono resa conto che fu commesso quando Hitler e Stalin erano non amici, ma alleati. Così ho cominciato a interessarmi a questo primo periodo della Seconda Guerra Mondiale che, soprattutto in Germania, tendiamo a trascurare. Si tratta di un tema scomodo, qualcosa che non conoscevo e che nessuno vuole davvero affrontare. Ma volevo sapere cosa è successo in quel periodo, nei primi due anni della guerra, e mi sono trovata dinnanzi a questa storia affascinante della collaborazione tra Nazionalsocialismo e Stalinismo». Più che affascinante, «la collaborazione tra Nazionalsocialismo e Stalinismo» mi appare sommamente istruttiva, e potrebbe esserlo anche per chi desideri approcciare quella tragica vicenda da un punto di vista radicalmente alternativo tanto alla storiografia di tendenza “progressista”, quanto a quella di matrice stalinista e fascista.
Il massacro della classe dirigente polacca (civile, intellettuale e militare) da parte dell’Armata Russa nel 1940 dimostra come per l’Unione Sovietica si trattò di una vera e propria annessione imperialista della Polonia Orientale, e non della creazione di uno spazio “vitale” avente un carattere meramente difensivo. In totale furono circa 21mila gli ufficiali polacchi uccisi dall’esercito russo in vari luoghi del territorio sovietico. È anche importante ricordare che nel 1938 Mosca liquidò il PC polacco, decisione che getta altra luce sull’aggressione delle truppe sovietiche del 17 settembre 1939 ai danni dei territori polacchi abitati in maggioranza da ucraini e bielorussi, «sulla base delle clausole segrete del patto stipulato il 23 agosto a cui subentra, il 28 settembre, un più impegnativo accordo di “amicizia” tedesco-sovietico, nonché di un trattato di collaborazione economica» (5). Corollario del Patto fu infatti anche un accordo commerciale che permetteva alla Germania di avere materie prime fondamentali, grano, petrolio, caucciù e altre materie prime fondamentali per lo sforzo bellico e prodotti agricoli in notevole quantità. Per l’Urss invece navi da guerra tedesche, macchinari industriali e l’apertura di una linea di credito. Dopo il “tradimento” dei camerati tedeschi Stalin si rivolse agli Stati Uniti pregandoli di estendere all’Unione Sovietica la linea di credito illimitato che dava al Presidente americano il potere discrezionale di orientare la produzione bellica americana, secondo la legge Affitti e prestiti promulgata l’11 marzo 1941 a favore della Gran Bretagna. Per dimostrare agli alleati la sua assoluta affidabilità, il 10 giugno 1943 Stalin scioglie il Comintern; nel nuovo ordine mondiale disegnato dalla guerra, il Comintern non era più funzionale come strumento di difesa e promozione degli interessi russi. «Ecco l’ironia della storia. Nata con un programma di rivoluzione mondiale a breve scadenza, l’Ic moriva venticinque anni dopo postulando un orizzonte di fraterna collaborazione tra lo Stato sovietico e gli Stati capitalisti» (6). In realtà qui l’ironia della storia c’entra assai poco: l’Internazionale Comunista nata nel marzo 1919 come embrione di un futuro Partito Comunista Internazionale morì infatti negli anni Venti, nel momento in cui cioè la tanto sperata (soprattutto da Lenin e Trotsky) «rivoluzione mondiale a breve scadenza» non arrivò in tempo a salvare dal mortale isolamento l’ancora fragile potere sovietico. Lo stalinismo si limitò a seppellire ciò che rimaneva di un cadavere. La «fraterna collaborazione tra lo Stato sovietico e gli Stati capitalisti» si comprende benissimo alla luce della natura capitalistica dello «Stato sovietico».
Secondo lo storico polacco Viktor Gaiduk, «La liquidazione del Pc polacco fu il corollario di una operazione staliniana incominciata con la fucilazione del maresciallo Tukhacevskii e culminata nel patto Molotov-Ribbentrop» (7). Lo storico ricorda anche come sotto il documento del Comintern ci fosse anche la firma di Ercoli, cioè di Togliatti. Tutto torna, tutto quadra.
Il mito della Grande Guerra patriottica, oggi rivitalizzato da Putin e dai putiniani sinistrorsi di casa nostra, ha inizio insomma solo dopo il “tradimento” operato dalla Germania di Hitler ai danni della Russia di Stalin, il quale, a differenza di quanto sosterrà successivamente per giustificare il Patto del 1939, non si aspettava un’aggressione tedesca né si preparava a contrastarla sul piano militare, almeno nel breve periodo, mentre al contrario sosteneva economicamente e politicamente l’espansione dell’imperialismo tedesco verso Ovest, ai danni cioè delle odiate “plutodemocrazie”. Solo il 7 novembre 1941, quando Mosca è minacciata ormai da molto vicino dall’esercito tedesco, Stalin “scopre” che «in Inghilterra e negli Usa esistono le libertà democratiche, vi sono i rappresentanti operai di lavoratori, vi sono i partiti del lavoro, vi è un parlamento, mentre in Germania il regime di Hitler ha abolito queste istituzioni» (8).
(1) Nel settembre del 1939 Trotsky affermò che in caso di aggressione da parte della Germania i comunisti di tutto il mondo dovevano incitare le masse russe alla resistenza militare, senza peraltro attenuare la lotta contro la «casta burocratica del Cremlino». Non ho mai condiviso la tesi trotskista della «degenerazione burocratica» del Partito bolscevico e del regime sovietico, il quale avrebbe comunque lasciato sostanzialmente in vita le conquiste sociali dell’Ottobre rivoluzionario, nonostante e contro la «cricca burocratica stalinista». Affronto la questione della burocrazia (e oggi della tecnocrazia) come – supposta – nuova classe dominante in uno scritto intitolato Dialettica del dominio capitalistico.
(2) Google Book.
(3) P. Spriano, Il movimento operaio tra guerra e dopoguerra, in Storia del marxismo, III, p. 682, Einaudi, 1981. Nell’ottobre del 1940 il “socialista” Pietro Nenni scrisse che «la natura della guerra è imperialistica, in cui l’Inghilterra difende la sua vecchia egemonia europea e mondiale e in cui l’hitlerismo, il fascismo e il militarismo giapponese combattono per sostituirsi all’Inghilterra e alla Francia in Europa, in Africa e in Asia» (Lo Stato operaio, ottobre-novembre 1940). Giudizio impeccabile, il quale va però esteso all’Unione Sovietica e agli Stati Uniti, allora non ancora “ufficialmente” in guerra. Tra l’altro, furono soprattutto gli Stati Uniti ad ereditare «la vecchia egemonia europea e mondiale» degli inglesi e dei francesi, come ebbe a lamentarsi con gli stessi americani Churchill.
(4) Ufficio d’informazioni sovietico, 1948. «Il governo sovietico dispone di un’importante documentazione, catturata dalle truppe sovietiche nel corso della disfatta della Germania hitleriana, la cui pubblicazione aiuterà a far luce correttamente sull’effettivo corso della preparazione e dello sviluppo dell’aggressione hitleriana e della seconda guerra mondiale». La minaccia dei russi, intesa a rispondere per le rime alla pubblicazione del Protocollo aggiuntivo segreto, non impressionò affatto gli ex alleati, mentre animò l’orgoglio degli stalinisti occidentali, i quali peraltro erano ormai abituati a ingoiare qualsiasi rospo pur di rimanere fedeli alla “Patria del Socialismo” e di poter agitare lo spauracchio del “comunismo” dinanzi all’odiato Occidente – ovviamente avendo cura di rimanere il più lontano possibile dall’Unione Sovietica. «Fu la pioggia dorata di dollari americani a fecondare l’industria pesante della Germania hitleriana e, in particolare, l’industria bellica. Quei miliardi di dollari americani, investiti dai monopoli d’oltreoceano nell’economia militare della Germania hitleriana, ricostituirono il potenziale bellico tedesco e misero in mano al regime hitleriano le armi necessarie per le sue aggressioni». Si tratta della stessa «pioggia dorata» che dall’estate del 1941 cadrà anche sul suolo russo.
(5) P. Spriano, Il movimento comunista tra guerra e dopoguerra p. p. 679.
(6) F. Claudin, La crisi del movimento comunista, in Storia del Marxismo, III, p. 703.
(7) L’Unità, 3/7/1990.
(8) Discorso di Stalin pubblicato in Lo Stato operaio, I, novembre-dicembre 1941, p. 168.
IL “REVISIONISMO STORICO” DI PUTIN