IL PUNTO SULL’IRAN

Insieme alla guerra imperialista internazionale che si combatte (con le armi) in Ucraina, il movimento di lotta che dallo scorso settembre scuote dalle fondamenta la Repubblica Islamica dell’Iran è stato a mio avviso l’evento più significativo dell’anno appena trascorso. Questa protesta di massa rappresenta il quarto movimento sociale su larga scala che sì è prodotto negli ultimi dodici anni in quel Paese; le precedenti proteste hanno avuto un esito a dir poco deludente e scoraggiante: repressione e promesse, puntualmente tradite, di qualche miglioramento nelle condizione di lavoro e di vita degli iraniani. Nel corso dell’ultimo decennio, segnato dalla crisi economica indotta anche dalle sanzioni imposte all’Iran dai Paesi occidentali (dagli Stati Uniti, in primis), si è consumato il divorzio fra le giovani generazioni e la cosiddetta “ala riformista” del regime. La pandemia da Covid-19 ha poi colpito duramente la società iraniana, già prostrata dalla lunga crisi economica, e ha permesso il riflusso del ribellismo sociale. Ma le tensioni non hanno smesso di prodursi e di lavorare in profondità ed è bastata una piccola scintilla per innescare un nuovo incendio. Una piccola goccia ha fatto traboccare il vaso della rabbia e della disperazione probabilmente come mai era accaduto negli ultimi quarant’anni in Iran. La dittatura teocratica al potere sembra con le spalle al muro, ma è difficile, oggi, fare previsioni sul suo destino.

Avvertendo nell’aria un forte odore di regime change, ieri Sergio Mattarella ha approfittato del suo incontro con il nuovo ambasciatore iraniano, Mohammad Reza Sabouri, per piazzare l’Italia in pole position: «Il rispetto con cui l’Italia guarda ai partner internazionali e ai loro ordinamenti trova un limite invalicabile nei principi della Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo». Davvero commovente! Continua invece il silenzio del Presidente italiano sui lager in Libia e sugli aguzzini libici chiamati a gestire il flusso migratorio anche per conto di Roma – che difatti li finanzia. Come sempre la sacra causa dei “diritti umani” è subordinata agli interessi nazionali.

Qui di seguito riprendo il filo del discorso che ho tirato nei mesi scorsi, mettendo insieme, come sempre, spunti di riflessione “teorica” e analisi politica – con quali risultati non spetta a me dirlo.

Un cambio di regime (magari ottenuto anche grazie al sostegno  economico e militare degli Stati Uniti e dell’Unione Europea), una più accentuata modernizzazione capitalistica della società, un riposizionamento geopolitico del Paese: è questa la “rivoluzione” all’ordine del giorno in Iran? In ogni caso non si tratterebbe certo di un cambiamento da sottovalutare, anche osservato dal particolare punto di vista di chi scrive, tutt’altro; si tratta piuttosto di precisarne i contenuti politici, ideologici e sociali. E questo sforzo di chiarificazione naturalmente non può prescindere da quanto avviene in primo luogo nelle strade, nelle scuole, nelle università, nelle fabbriche e nelle carceri iraniane. Quanto scrivo sconta il limite di essere un prodotto esogeno, per così dire, e di questo chi legge deve naturalmente tener conto.

In generale e per come la vede chi scrive, l’anticapitalista sostiene con partecipazione politica ed umana la lotta di chi si batte contro l’oppressione politica e sociale, e tutte le volte che può egli si sforza di inserire in questa lotta elementi di riflessione e di critica che possano favorire la crescita di una più chiara e radicale  visione dei processi sociali nella coscienza di chi lotta. Radicale, beninteso, nell’accezione marxiana, e non infantilmente “eversiva”, del concetto: cogliere i problemi sociali alle radici e agire di conseguenza. La “coscienza di classe” è l’arma di gran lunga più potente di cui le classi subalterne hanno bisogno per emanciparsi dall’ideologia dominante (che ha nel nazionalismo, comunque “declinato”, la sua più odiosa espressione) e lottare per affermare i loro interessi. In ogni caso, e come sempre, l’entusiasmo dell’anticapitalista non deve far venire meno nella sua coscienza la necessità di una lucida e critica valutazione dei fatti come si danno nella realtà – non nelle sue speranze, nelle sue antipatie, nelle sue idiosincrasie. 

Come ho scritto nei precedenti post dedicati al movimento di lotta iraniano, osservo con entusiasmo il suo spirito di combattimento, il suo coraggio, il suo potenziale eversivo, il messaggio che esso lancia agli oppressi e agli sfruttati di tutto il mondo – e che essi non hanno ancora recepito e che quasi certamente non recepiranno nel breve periodo, e forse nemmeno nel medio periodo. Appoggio senza riserve la rivendicazione di una maggiore “agibilità” politica, culturale, sindacale, “esistenziale” lanciata dalla parte più avanzata di quel movimento. Si tratta poi di vedere in quali concreti termini politici dovrà tradursi questa rivendicazione. Trovo particolarmente importante il ruolo che in questo movimento stanno giocando le giovani donne iraniane, oppresse in modo odioso e violento da un regime misogino che sfrutta il maschilismo di stampo patriarcale per dividere il fronte degli oppressi in maschi e femmine, in modo da difendere la struttura del regime venuto fuori dalla cosiddetta “rivoluzione islamica” del 1979; un regime che deve fare i conti con le accelerazioni che il capitale, nazionale e internazionale, imprime sempre di nuovo sul corpo della società civile. Una società civile, peraltro, molto giovane e aperta ai cambiamenti – e per questo strettamente controllata dagli ayatollah. «Produci e consuma per la Repubblica Islamica», diceva il Presidente “pragmatico” Hashemi Rafsanjani al cittadino iraniano stremato dalla lunga guerra con l’Iraq (1980-1988), senza tuttavia mettere in conto i cambiamenti che la “nuova politica economica” avrebbe prodotto nella società iraniana affamata di pace e di prosperità economica, e sempre più attratta dal “demoniaco” stile di vita occidentale – soprattutto da quello americano: Vade retro, Grande Satana!

Le rivendicazioni delle donne stanno avendo un’importantissima funzione di unificazione e orientamento politico e ideologico del movimento di lotta, e il carattere interclassista di quelle rivendicazioni non ne depotenzia affatto la portata, non inficia il loro contributo alla radicalizzazione di quel movimento. La “questione femminile” come detonatore e collante del ribellismo sociale è più che un auspicio di natura “femminista”: è un fatto che soprattutto il regime sta valutando nel modo più appropriato – come si evince dal pugno di ferro usato contro le “traviate” che osano sfidare i sacri principi della legge islamica, a cominciare dall’obbligo del velo: «Sostenere la fine del velo è fare politica alla maniera degli americani».

Molti interessi economici, politici e geopolitici si coagulano intorno alla difesa dello status quo, mentre altri interessi della stessa natura spingono invece per un suo cambiamento, più o meno “radicale” – o “rivoluzionario”, per usare il gergo che impazza anche sui nostri quotidiani. Ciò che appare certo, è che l’attuale regime politico-istituzionale non abbandonerà il campo prima di aver giocato tutte le carte economiche, politiche, diplomatiche, poliziesche e militari che ha – o crede di avere – a sua disposizione. Detto altrimenti: il bagno di sangue repressivo continuerà e si allargherà, probabilmente replicando il parossismo di violenze di 44 anni fa. Intanto i segnali di una crescente divisione all’interno dello stesso regime si moltiplicano, e sempre nuove crepe si aprono nell’apparato repressivo dello Stato, che oggi può contare solo sull’incrollabile fedeltà dei macellai chiamati – con odioso e cinico paradosso – “Guardiani della Rivoluzione” – i famigerati pasdaran, i quali con il tempo sono diventati sempre più importanti nella sfera economica e nella politica estera del Paese. «Oggi, le forze paramilitari – divenute centro economico-corporativo incontrastato e poi perno politico –  difendono dunque il potere acquisito» (ISPI). Invece fra i bassij (“mobilitazione”, le forze di polizia volontarie che appartengono alle Guardie della rivoluzione islamica) si notano le prime crepe, tanto è vero che i pasdaran sono costretti a reclutare mercenari dalla Siria, dal Libano, dall’Iraq, da Gaza, dall’Afghanistan e dallo Yemen per reprimere soprattutto le minoranze etniche iraniane che in questo momento rappresentano la punta di lancia più avanzata del movimento di lotta. Le comunità curde, baluce, arabe e azere, da sempre maltrattate in tutti i sensi da Teheran (anche, alla bisogna, con cure di gas letale), pongono al regime anche problemi di tenuta dell’unità nazionale, e questo può influire in qualche modo sul decorso degli eventi. In quale modo oggi è difficile dirlo.

Scrive Stella Morgana: «Il potenziale rivoluzionario della partecipazione dei lavoratori è tanto promettente quanto di difficile esplosione. I numeri degli operai che partecipano agli scioperi, dalla famosa fabbrica d’acciaio di Isfahan a quelli dell’industria petrolifera nel sud del Paese, sono ancora limitati. Le iniziative sono prive di un coordinamento nazionale e di leadership consolidata. A gestire le proteste indipendenti sono principalmente lavoratori precari, assunti con contratti a tempo determinato. Un vero e proprio movimento dei lavoratori coeso, forte e su base nazionale al momento non esiste, nonostante le spinte dal basso di iniziative come quelle del sindacato autonomo degli autisti Sherkat-e Vahed di Teheran o quello della fabbrica di zucchero Haft Tapeh nel Khuzestan iraniano, che sono state obiettivo di diverse ondate di repressione negli ultimi anni. In un Iran dove quasi il 90% dei contratti è temporaneo e le agenzie mediano i rapporti di lavoro, il potenziale del movimento operaio è precario, privo di leader nazionali e reso vulnerabile dalla paura di perdere anche quel minimo introito economico» (Il mulino, 8/12/22). È bene ricordare che sindacati autonomi non hanno alcun riconoscimento giuridico nella Repubblica islamica, e che le avanguardie sindacali corrono costantemente il rischio non solo di perdere il lavoro, ma anche di essere sbattuti in galera.

Per Amiry Moghaddam, direttore di Iran Human Right, «Più che una protesta, sembra l’inizio di una rivoluzione. La gente vuole cambiamenti fondamentali e il primo passo è cambiare il regime. Purtroppo in passato i governi occidentali si sono concentrati solo sull’accordo nucleare e non sul problema principale, ossia un regime totalitario che non gode del sostegno del suo popolo. L’Occidente dovrebbe pensare e agire a lungo termine e mettere la situazione del popolo iraniano in cima alla sua agenda» (Vita.it). «Non possiamo sapere se le rivolte in Iran daranno vita, nel loro esito, a una rivoluzione. Se cambieranno, cioè, quel sistema di potere – già parecchio mutato – che domina il paese dal 1979» (ISPI). Per Ramin Bahrami, noto musicista iraniano, «È in corso una rivoluzione, ne ha tutti i caratteri. E ha il sapore della libertà. Non va letta come una sommossa, non lo è più. Stavolta possono farcela, perché il regime perde consenso» (L’espresso). Il radicale cambiamento dell’attuale «sistema di potere» si configura dunque come una rivoluzione? Come scrivevo sopra, si tratta di intendersi sulle parole e sulla natura degli eventi di cui parliamo, perché non ha alcun senso accapigliarsi appunto sulle parole, le quali possono dire tutto oppure niente, possono dirci questo oppure il suo opposto (in Iran, ad esempio, il termine “rivoluzione” è un marchio di fabbrica del regime), possono dirci la verità oppure mentire spudoratamente. Il celebre fisico Werner Heisenberg diceva, probabilmente con qualche fondamento, che «ogni parola o concetto, per chiari che possano sembrare, hanno soltanto un campo limitato di applicabilità». Come sempre il problema non è “terminologico” ma squisitamente politico, riguarda cioè il significato che attribuiamo ai termini che usiamo per dar conto di un fenomeno sociale – che intanto deve essere compreso. Veniamo dunque alla sostanza politica del problema.

Teocratico o laico che sia, autoritario o “democratico” lo Stato capitalistico rimane pur sempre il più importante cane da guardia dei rapporti sociali capitalistici. Non si tratta di essere indifferenti nei confronti della “sovrastruttura” politico-istituzionale del dominio di classe, ma di avere ben chiari i termini essenziali del problema, i quali si annodano intorno alla natura classista della società capitalistica. Chiarito questo fondamentale concetto, si può anche (non necessariamente) discutere “laicamente” e sensatamente se sia corretto o meno definire rivoluzionario il movimento sociale che dallo scorso 16 settembre scuote dalle fondamenta la Repubblica Islamica dell’Iran. In che senso quel movimento può essere definito rivoluzionario?

Molti sedicenti anticapitalisti che nel 1979 si entusiasmarono per il movimento di massa che spazzò via il regime dello Scià sostenuto dall’imperialismo occidentale (e giapponese) non peccarono di eccessivo entusiasmo, e fecero anzi benissimo ad entusiasmarsi (anche chi scrive allora molto si entusiasmò); peccarono piuttosto di una visione terzomondista che non li mise in grado di capire la reale dinamica del processo sociale che travagliava l’Iran, soprattutto in relazione alla posizione politica dell’elemento decisivo che allora rese possibile il cambiamento di regime: la mobilitazione dei lavoratori che paralizzò l’apparato economico del Paese. La prassi, non – non solo – la teoria si incaricò di dimostrare che senza conquistare l’autonomia di classe i lavoratori finiscono per portare acqua al mulino del nemico, non importa se esso veste gli abiti del prete o del politico (1).

La natura acefala del movimento che quasi tutti gli analisti segnalano potrebbe anche dipendere dagli insegnamenti impartiti alla nuova generazione di ribelli dalla tragica lezione del biennio 78-79, quando soggetti ultrareazionari riuscirono a cavalcare e a strumentalizzare una ribellione sociale che avrebbe potuto innescare cambiamenti ben più radicali e certamente meno ostili alle condizioni di vita e di lavoro delle classi subalterne del Paese. Le prime a farne le spese furono le donne, già alla fine del ’78, quando il clero sciita cominciò a cacciarle dai cortei di massa; poi toccò ai lavoratori, alle minoranza etniche e religiose e infine ai movimenti politici che sostennero, “tatticamente”, lo sforzo di Khomeini di unificare la ribellione sociale sotto la bandiera della “rivoluzione islamica”. Alla luce di quella amarissima esperienza il – presunto – carattere acefalo del movimento non costituisce necessariamente un limite, un problema che non possa trovare una feconda soluzione. Tanto più quando vediamo affollarsi intorno al regime barcollante il vecchio personale politico filo monarchico e antimonarchico che oggi vive all’estero e che è pronto a ritornare in patria per guidare la “nuova rivoluzione”.

Dentro questo movimento sociale (o “rivoluzione” che dir si voglia) le classi subalterne hanno specifici interessi economici e politici da far valere, e l’anticapitalista è a questi interessi che guarda con particolare attenzione. Non vivendo in Iran, chi scrive non si sentirebbe mediamente intelligente se provasse a dare consigli circa la strada da seguire alle donne e agli uomini che oggi in Iran lottano contro il regime rischiando di morire (magari “attinti” da una pallottola Made in Italy), di finire in carcere e dinanzi al boia.

Sostengo tuttavia con grande simpatia il movimento di lotta iraniano da un punto di vista anticapitalista (da quello che io credo sia tale), prospettiva che mi consente di vederne la reale natura e le reali potenzialità, senza nulla concedere al “pessimismo della coscienza” e all’”ottimismo della rivoluzione”. Che per le classi subalterne di tutto il pianeta i tempi siano oltremodo “interessanti” (cioè tragici), non è argomento difficile da sostenere al cospetto di “pessimisti” e “ottimisti”.

Sulla feccia stalinista/imperialista che sostiene il regime sanguinario degli ayatollah (2) forse scriverò qualcosa tra qualche giorno. Forse. E sempre per definire meglio la mia posizione, non certo per polemizzare con gli escrementizi personaggi che sostengono uno dei poli imperialisti (quello antiamericano) che si contendono il potere sistemico mondiale. 

(1) Il 17 febbraio 1979 il clero sciita impartì ai lavoratori l’ordine di riprendere il lavoro: «Gli scioperi servivano al movimento rivoluzionario, come oggi alla nazione serve che cessino; chi sostiene che debbano continuare è un traditore, e come tale sarà punito» (dichiarazione dell’ayatollah Khomeini del 27/2/’79, Le Monde). «Per l’ayatollah Behechti [capo del Partito Repubblicano Islamico], i sindacati dividono la nazione. “Per “liberare i lavoratori dall’oppressione dei proprietari bisogna creare dei consigli operai islamici”»(Le Monde, 3/5/’79). Soprattutto nel settore petrolifero, strategicamente fondamentale per l’Iran, il clero sciita agli ordini di Khomeini sciolse con la forza i comitati dei lavoratori che si erano formati nel 1978 e li sostituì con “comitati islamici” direttamente nominati e controllati dal nuovo “governo rivoluzionario”. Il partito stalinista Tudeh (Partito delle Masse, nato nel 1941 come filiazione diretta dell’Unione Sovietica) sostenne con entusiasmo le direttive emanate dal nascente regime islamico, giustificando la sua attiva collaborazione con esso con l’esigenza di «non dividere in questa fase il fronte rivoluzionario antimperialista». Quando il nuovo regime deciderà di eliminare politicamente e fisicamente ogni forma di opposizione, attuale e potenziale, non si farà scrupoli di sorta dinanzi agli ex alleati “comunisti”, prima usati (anche per ottenere un qualche sostegno da Mosca) e poi buttati via come robaccia inservibile. «I marxisti sono agenti dello Scià. Gli operai devono essere al servizio del popolo e di Dio» (Ayatollah Behechti, Le Monde, 5/5/’79). Dal 1983 il Tudeh è stato vittima di una spietata repressione che ha costretto i suoi militanti a rifugiarsi all’estero, soprattutto negli ex “Paesi socialisti” europei. 

(2) Una solo esempio, solo per suscitare in chi legge qualche crassa risata: «Le posizioni neotrotskiste e bordighiste che sono emerse nel movimento comunista contraddicono questa analisi. […]  Così assistiamo a un partito comunista venezuelano che si scontra violentemente con Maduro, un partito comunista messicano che passa il tempo ad attaccare il nuovo presidente che si è distaccato dalla tradizionale politica di destra del paese o un partito come il Tudeh che sostiene uno sciopero dell’industria petrolifera iraniana nel momento della massima pressione imperialista contro il governo che in questo momento tiene duro contro gli USA e Israele e mantiene solidi legami con la Russia» (Sinistrainrete).

INFERNO IRANIANO

LA SUPERCAZZOLA DELLA GUIDA SUPREMA

 SULLA “RIVOLUZIONE” IRANIANA

SI FA PIÙ FEROCE LA GUERRA DEL REGIME IRANIANO CONTRO I MANIFESTANTI

IRAN. LA LOTTA CONTRO IL REGIME NON SI ARRESTA

CON I RIBELLI IRANIANI! CONTRO IL REGIME OMICIDA DEGLI AYATOLLAH!

CADE ANCORA UNA VOLTA IL VELO DEL REGIME SANGUINARIO

IRAN. OGGI E IERI

SUL – CONTROVERSO – CONCETTO DI “RIVOLUZIONE”

2 pensieri su “IL PUNTO SULL’IRAN

  1. CATASTROFE DONNA!

    «La siccità in Iran? Colpa della ribellione delle donne che non vogliono più indossare il velo religioso secondo il precetto islamico. La follia delle autorità religiose iraniane è arrivata ad incolpare le ragazze che hanno dato il via a moti di protesta dopo la morte di Masha Amini e di centinaia di persone uccise brutalmente dalla polizia. Se non piove la responsabilità è di chi offende Dio. A sostenere questa tesi è il rappresentante della Guida Suprema nella città di Karaj che ha affermato che la ragione delle basse precipitazioni nel Paese è legata alla mancanza di osservanza del hijab, dopo che molte donne si sono tolte il velo in seguito a mesi di proteste. Le parole di Mohammad-Mehdi Hosseini Hamedani, l‘imam che guida la preghiera del venerdì della città, sono state riportate con grande enfasi sulla stampa locale. In pratica l’osservanza dell’hijab è necessaria e chi trasgredisce è un nemico. Non è la prima volta che gli integralisti della Repubblica islamica collegano i riti islamici alla siccità o ai disastri naturali ma stavolta la visione oscurantista di Hosseini Hamedani sembra avere superato ogni limite. Ahmad Alamolhoda, un altro religioso aveva recentemente invitato la popolazione a pregare per la pioggia per risolvere il problema della siccità nel Paese. Persino un procuratore generale – Mohammad Jafar Montazeri, – nel 2019 aveva messo in guardia: “Il sistema giudiziario non permette alle donne di svelarsi in pubblico, perché provoca disastri naturali come inondazioni e terremoti”» (Il Messaggero).

    Azzardo un’ipotesi tanto inquietante quanto altamente scientifica: e se ci fossero le donne di tutto il mondo bramose di emancipazione alla base dell’attuale “crisi ecologica” planetaria? Hai visto mai! Imam Hosseini Hamedani, sto scherzando. Non vorrei che i macellai di Teheran mi proponessero come candidato al nobel per la fisica o per la pace nel mondo. Tanto più che porto il cognome del grande Profeta.

  2. Pingback: IRAN 2023. È L’ANNO DEL REGIME CHANGE? | Sebastiano Isaia

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