UNA RIFLESSIONE SUL CARCERE A PARTIRE DAL CASO COSPITO

Inizio subito con il dare la mia piena solidarietà umana e politica ad Alfredo Cospito, del cui orientamento politico-ideologico peraltro non condivido nulla. D’altra parte la mia avversione al 41 bis e all’ergastolo ostativo riguarda ogni tipologia di “rei” e di reati. Più in generale, non accordo alla giustizia capitalistica (o borghese, come si diceva una volta) alcuna giustificazione che non sia quella di essere al servizio dello status quo sociale, delle classi dominanti, del dominio sociale capitalistico. Qui evidentemente pulsa, per così dire, il concetto dello Stato come cane da guardia del sistema capitalistico. Questa bestia è pronta ad azzannare senza alcun riguardo chiunque osi creare problemi all’«ordine e alla sicurezza della nazione», ed è per questo che l’anticapitalista non può certo rimanere indifferente dinanzi alla pratica repressiva dello Stato, soprattutto quando essa si rivolge contro l’opposizione politico-sociale del Paese, per quanto essa possa essere, come lo è oggi, estremamente debole, minoritaria e “frastagliata”.

Sulla forma di lotta praticata da Alfredo Cospito, in carcere già da 10 anni, non ho nulla da dire, e tanto meno da obiettare, visto che si tratta di una sua decisione; posso solo dire che mi auguro il suo pieno successo, tanto più che egli dice di lottare, se ho capito bene (e mi scuso se ho capito male), anche per gli altri 748 detenuti che subiscono il regime speciale del 41 bis, non a caso definito da non pochi giuristi «una tortura democratica». L’esito infausto della sua lotta avrebbe in ogni caso come solo responsabile lo Stato che lo tiene in custodia. Va anche ricordato che il cambio di regime detentivo, con il passaggio di Cospito al carcere (più) duro, è stato deciso il 4 maggio 2022 dal precedente governo; questo per sottolineare la continuità del regime politico.

Scrivono Elton Kalica e Francesca Vianello (in difesa dello «Stato di diritto» e «dell’umanità della pena»): «Si tratta di una storia che si ripete nel tempo: dalla legislazione di emergenza degli anni Settanta, a quella pensata per le stragi di mafia degli anni Ottanta, fino alle disposizioni che pretendono di far fronte al cosiddetto terrorismo islamico, ci troviamo di fronte a quello che penalisti e sociologi hanno chiamato “diritto penale del nemico”: la previsione della possibilità della giustizia di dislocarsi in uno spazio altro rispetto ai confini che la definiscono, di negare se stessa e i propri principi, continuando comunque a definirsi giustizia» (Il Mulino). Ma di che giustizia stiamo parlando? Siamo proprio sicuri che la legislazione di emergenza passata, presente e futura contraddica il concetto di giustizia – e quello di diritto?

A mio avviso chi vede un’opposizione di principio tra la cosiddetta giustizia ordinaria, considerata “buona cosa”, come il corretto modo di “amministrare giustizia”, e giustizia cosiddetta eccezionale, ritenuta una grave rottura con lo Stato di diritto, una patologia all’interno della società democratica, non comprende come le due forme di giustizia condividono una stessa radice storico-sociale, come esse si presuppongano e si completino a vicenda. «Gli economisti borghesi vedono soltanto che con la polizia moderna si può produrre meglio che, ad es., con il diritto del più forte. Essi dimenticano soltanto che anche il diritto del più forte è un diritto, e che il diritto del più forte continua a vivere sotto altra forma nel loro Stato di diritto» (K. Marx, Grundrisse). Il diritto, come la politica, ha la sua radice nell’esistenza del dominio di classe.

Se non si coglie la natura classista del diritto, si rimane impigliati in una concezione ingenua, illusoria e impotente del potere politico che trova una puntuale smentita e derisione nel reale processo sociale.

Questa breve e schematica riflessione va naturalmente estesa anche alla falsa opposizione tra carcere ordinario (“buono”) e carcere speciale o duro (“cattivo”): il problema è il carcere in quanto tale, come “istituzione totale” la cui genesi e realtà si spiegano benissimo appunto con la struttura classista della moderna società borghese, con il dominio di classe a prescindere dalla sua contingente espressione politico-istituzionale: democratica, autoritaria, totalitaria. «Ma chi sbaglia deve pagare!» Ma sbagliata (disumana, ingiusta, irrazionale, violenta, oppressiva) è in primo luogo la società! È con questa realtà che deve fare i conti il pensiero che non vuole farsi arruolare dall’ideologia dominante. Non si tratta di “relativismo etico”, né di astratto giustificazionismo: si tratta di osservare e giudicare i fenomeni sociali da un punto di vista radicalmente umano, ossia dalla prospettiva che individua nella divisione classista degli individui l’origine di ogni male. Non si tratta di giustificare un bel niente, come pensa la massa del gregge; si tratta piuttosto di capire con quale realtà siamo costretti a fare i conti tutti i giorni. E per capirlo occorre appunto rompere tutti i ponti con l’ideologia dominante, la quale, come diceva quello, è l’ideologia delle classi dominanti – anche e soprattutto quando sono gli “ultimi” a incarnarla.

Come ho scritto altrove, questa società produce sempre di nuovo fenomeni sociali che disturbano, diciamo così, il “normale” flusso della vita quotidiana, che entrano in conflitto con la “pace sociale”, creando problemi, contraddizioni e disarmonie d’ogni tipo, e che costringono lo Stato a mettere in campo una vasta gamma di provvedimenti repressivi: dai più blandi ai più duri, ma fatti tutti della stessa sostanza. La reclusione dei “rei” in luoghi afflittivi che chiamiamo carceri si colloca al centro del sistema punitivo di cui la società è capace, affinché tutti possano rendersi conto di dove può condurre una condotta particolarmente “criminosa”. Guarda dove potresti finire! Come dicono i bravi teorici del diritto, già il processo è per il (presunto) reo una pena, alla quale può poi aggiungersi la pena della detenzione. Il carcere come luogo di recupero è mera ideologia, e in ogni caso il recupero dei cosiddetti rei costituisce per questa disumana società un “bonus” aggiuntivo.

Perché «cosiddetti rei»? È una questione di prospettiva concettuale e politica. Dal mio punto di vista è la società, non il “reo”, che crea la possibilità, i presupposti oggettivi del “reato”, e quindi se dobbiamo per forza parlare di un colpevole, è alla società che dobbiamo guardare. Pensiamo ai reati connessi alle attività delle organizzazioni di “stampo mafioso”: sono concepibili queste attività altamente redditizie, che alimentano il fiume di denaro che scorre nelle vene di questa società, senza l’esistenza appunto del «denaro come merce universale», «come oggetto della brama di arricchimento» , «come ricchezza universale», «come potere sociale universale e sostanza della società»? La risposta è, ovviamente, no. Ecco perché il mio problema non sono, in modo particolare, gli imprenditori del settore illegale e criminale del capitalismo, bensì il rapporto sociale di dominio e sfruttamento di cui essi sono la puntuale e naturale (fisiologica, inevitabile) espressione. Non mi stancherò mai di dire e di scrivere che, posta la vigente società mondiale (non si tratta infatti di Italia o di qualsiasi altro Paese del pianeta), stabilire anche una seppur labile distinzione concettuale e reale tra “denaro sporco” e “denaro pulito”, tra “profitto illecito” e “profitto lecito” e così via di seguito è semplicemente ridicolo, e ha il solo significato di esibire una totale cecità e passività nei confronti del pessimo mondo che ci “ospita”.

Tra l’altro la gran parte delle persone “oneste” (quelle che non avrebbero nessun timore nel farsi intercettare dalle forze dell’ordine 24 ore al giorno: «Non abbiamo niente da nascondere, noi!»), crede nella sua infinita ingenuità che la legislazione orientata a combattere la criminalità organizzata non sarà mai applicata a chi ogni giorno fa “il suo dovere”: lavora, paga le tasse, paga le multe, non sporca, cura la famiglia, non si droga. E magari va pure a votare! Tra l’altro, l’applicazione alle organizzazione di “stampo mafiose” della legislazione eccezionale varata negli anni Settanta inizio Ottanta del secolo scorso per contrastare il terrorismo, dimostra che il diritto non conosce compartimenti stagni.

Il carcere è una tortura; il carcere duro è una doppia tortura che ha come evidente obiettivo quello di “stimolare” nel prigioniero” ravvedimenti” e “pentimenti” che devono tradursi in nomi e fatti criminosi documentabili. Se non parli, sei tumulato vivo. Non è difficile capire perché molti “pentiti” hanno inventato di sana pianta fatti e nomi da dare in pasto al carnefice – per poi magari ammettere, dopo dieci o venti anni, di aver accusato persone che non avevano commesso alcun reato. Sono i “danni collaterali” della lotta alla criminalità.

Il «carcere umano» è un cinico ossimoro, una contraddizione in termini, una bestemmia urlata contro l’umanità, contro la stessa possibilità di un assetto umano (umanizzato) della nostra esistenza. Splendida possibilità che postula la fuoriuscita dell’umanità dalla dimensione del dominio di classe.

Parlare di «umanità della pena» significa, che lo si voglia o meno, portare acqua al mulino della società che rende possibile ogni forma di oppressione, di violenza, di sopruso. Il carcere non va “umanizzato”, secondo i secolari auspici dei riformatori sociali, ma combattuto e denunciato per quel che è necessariamente: un luogo di afflizione fisica, psicologica, morale, esistenziale. Le violenze che la polizia penitenziaria esercita sui reclusi e il fiume in piena dei suicidi  in penitenziari ridotti a discarica sociale non contraddicono affatto la natura del carcere, tutt’altro. Questo ovviamente non significa rifiutare di battersi, qui e ora, per migliorare le condizioni di vita dei detenuti, tutt’altro; significa piuttosto dire la verità su questa escrementizia società che ha nel carcere una delle sue più odiose e rivelatrici creature. Significa non alimentare false speranze e non concedere a questa società crediti che essa non merita nel modo più assoluto.

 

DENARO CHI?

IL DELITTO DELLA PENA. UNA RIFLESSIONE SUL CARCERE

IL CARCERE E (È) LA SOCIETÀ

RISTRETTI ORIZZONTI. Breve riflessione sul carcere.

2 pensieri su “UNA RIFLESSIONE SUL CARCERE A PARTIRE DAL CASO COSPITO

  1. SEMPRE A PROPOSITO DI TORTURA DI STATO

    Da Dagospia, 4/02/2023

    Centro di Permanenza per il Rimpatrio (CPR) di Palazzo San Gervasio (Potenza). Immigrati ex “ospiti” del centro (perché sprovvisti del permesso di soggiorno), hanno trovato il coraggio di condividere la loro terribile esperienza.
    «Non ho mai visto un posto più brutto in vita mia», racconta un ex “ospite” serbo del centro, che aggiunge: «Stavo chiuso 24 ore su 24 in gabbie come un animale. Ho visto persone con crisi epilettiche, altri ingoiavano batterie per tentare di suicidarsi. Un ragazzo, che si era appena tagliato le vene, è stato preso a sberle davanti a tutti, forze dell’ordine incluse, da un responsabile del CPR. Devi essere forte per stare lì dentro, altrimenti vai giù di terapia con il rischio che poi non ti riconoscano nemmeno i tuoi famigliari quando esci».
    Una terribile pressione fisica e psicologica confermata anche dalla testimonianza di un ex “ospite” cubano: «A chi perdeva la lucidità veniva somministrata la “terapia”: è la cosa più diffusa nel centro, più di acqua e cibo. Molti la prendevano per “sfuggire” dalla realtà, per altri era proprio una sedazione». E il testimone aggiunge: «C’era un personaggio del CPR che girava sempre con delle fascette per immobilizzarci, dato che le manette non si possono utilizzare. È molto peggio del carcere, una tortura legalizzata».

  2. GENESI DEL 41BIS

    Scrive Frank Cimini (Il Riformista, 8/02/2023):

    C’era ospite a Domenica in Margareth von Trotta la regista del film “Anni di piombo”. Scorrevano le immagini del colloquio tra la detenuta e la sorella che era andata a farle visita. Non potevano abbracciarsi neanche toccarsi con le mani. A dividerle una parete di vetro. In applicazione dell’articolo 90 del regolamento penitenziario, l’antenato del 41bis. Pippo Baudo rivolgendosi ai telespettatori disse: “Ecco che cosa accade in Germania”. Certo, in Germania. In Italia era pure peggio. Ma nel nostro paese gli intellettuali che avevano capito poco o fatto finta di non capire per lungo tempo scelsero di parlare di rischi di “germanizzazione”. Invece era l’Italia con la sua emergenza che sarebbe diventata infinita per arrivare fino si nostri giorni a dare lezioni al mondo.
    L’articolo 90, l’antenato del 41bis, faceva parte della riforma penitenziaria della metà degli anni ‘70. Il carcere duro fece il suo esordio a partire dal rapimento Moro e in pratica non ha mai smesso di esistere. Le condizioni di detenzione puntavano all’annientamento psico-fisico dei detenuti, a negare la loro identità politica. In pratica i reclusi non avevano diritti, per loro non esistevano regole. Sui libri che potevano tenere in cella, sui giornali da leggere, sulla socialità, sulle visite dei familiari osteggiate in ogni modo possibile e immaginabile soprattutto per gli “ospiti” dell’Asinara carcere che poi venne chiuso in seguito alla vicenda relativa al rapimento del giudice D’Urso.
    Va ricordato come abbiamo tutti potuto vedere in un recente documentario su Sky che vi furono numerosi episodi di tortura a cominciare da quello di Enrico Triaca, formalmente riconosciuto in un processo a Perugia a anni di distanza dopo che all’epoca il diretto interessato era stato condannato per diffamazione. La finta esecuzione ai danni di Francesco Giordano. Giovanni Senzani ricevette un trattamento speciale a suon di botte e il suo arresto comunicato ufficialmente solo cinque giorni dopo.
    Il regime delle carceri speciali raggiunge il suo culmine come disumanità nei cosiddetti “braccetti morti” in funzione nei primi anni ‘80 alle Nuove di Torino, a Foggia, Ariano Irpino, Ascoli Piceno, come ricorda l’avvocato Giuseppe Pelazza. Soltanto 4 ore d’aria la settimana in un passeggio ricoperto di grate che ostacolavano la vista del cielo. Era consentito detenere una sola matita fornita dal carcere e un numero ridotto di fogli.
    L’articolo 90 del regolamento penitenziario faceva parte del pacchetto preteso e ottenuto dalla magistratura alla quale la politica aveva delegato interamente la risoluzione della questione relativa alla sovversione interna insieme alle leggi premiali per pentiti e dissociati. Tutto incostituzionale o no? È semplice rispondere. Si è anche no. Perché la Costituzione formale del 1948 venne messa da parte e sostituita con una Carta sostanziale adeguata alle leggi di emergenza.
    Nel 1986 formalmente l’articolo 90 fu accantonato dalla riforma Gozzini ma i detenuti continuarono a ricevere il trattamento carcerario a seconda del comportamento processuale. Una vera e propria differenziazione. Fino alle stragi mafiosi di Capaci e via D’Amelio che porteranno al varo del 41bis che sarà utilizzato anche per i detenuti politici nonostante la lotta armata fosse finita da tempo.

    ORDINE PUBBLICO

    Scriveva Antonio Bevere nel 1980 (Dizionario critico del diritto, pp. 274-276, Savelli, 1980):

    Negli ultimi anni stiamo assistendo a un massiccio ricorso, da parte di tutta la classe politica, al sempre più vago e onnicomprensivo principio dell’ordine pubblico per giustificare una notevole serie di leggi eccezionali in materia penale, contenenti rilevanti limiti ad alcuni diritti fondamentali. Queste leggi sono caratterizzate dall’attribuzione di incontrollabili poteri discrezionali a polizia e magistratura: la libertà personale, il diritto alla segretezza delle comunicazioni telefoniche, la stessa incolumità fisica dei cittadini possono essere posti in pericolo da provvedimenti statali , adottati sulla base di un libero apprezzamento dei loro presupposti. Si è avuto, così, con la legge Reale un rilancio delle misure di prevenzione, le cosiddette pene da sospetto: la polizia ha incontrollabili poteri nell’uso delle armi e nelle perquisizioni. Nella legge n. 110 del 1975, è previsto il potere discrezionale di arrestare chi è trovato in possesso in luogo pubblico di qualsiasi strumento, “chiaramente utilizzabile, per le circostanze di tempo e di luogo, per l’offesa della pesona”. Con il decreto legge 21 marzo 1978 n. 59 è stato introdotto il fermo di identificazione, in cui è lasciato ampio margine discrezionale alla polizia nel valutare i casi di dubbia identificazione del cittadino inoltre, gli organi dll’esecutivo e la magistratura possono limitare il diritto alla segretezza delle comunicazioni telefoniche in una serie di casi difficilmente preventivabili.
    In conclusione, ci troviamo dinanzi a due dati difficilmente confutabili: a) la vaghezza concettuale e terminologica della formula ordine pubblico, a cui fa riferimento costantemente la nostra classe politica, nei momenti in cui ha inteso limitare, con leggi e con prassi di polizia, le libertà fondamentali (del resto, dottrina e giurisprudenza nulla hanno fatto per fare uscire questa formula dalla sua nebulosità); b) tutte le norme imposte in nome della difesa dell’ordine pubblico sono caratterizzate dalla previsione di un’ampia sfera di discrezionalità per gli organi statali.

    ***

    Va solo ricordato che il PCI di Enrico Berlinguer e la CGIL di Luciano Lama furono in prima linea nel sostenere la linea dura nella repressione dei movimenti politico-sociali degli anni Settanta che sfuggirono al loro controllo. Fa ridere chi oggi accusa i loro eredi di essere “troppo garantisti” con anarchici e mafiosi. La “linea della fermezza” fa parte del loro DNA politico-ideologico.

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