Scrive il Collettivo Euronomade: «La guerra in Ucraina deve dunque essere fermata al più presto, mentre i rifornimenti di armi all’Ucraina da parte dell’Occidente (con i Paesi europei ormai in prima fila) non fanno che prolungarla, prolungando così lo strazio di corpi, città e territori. Ma devono essere fermati al tempo stesso i regimi di guerra che, ben al di là di Russia e Ucraina, stanno proliferando in molte parti del mondo, e in particolare in Europa. Va da sé che per regimi di guerra non intendiamo una forma di organizzazione politica interamente (totalmente) definita dalla guerra. Ci riferiamo piuttosto a una penetrazione flessibile della logica della guerra (dell’“interesse nazionale”) nella vita politica e nell’economia al di là del diretto impegno bellico di un Paese. L’aumento delle spese militari, la militarizzazione di settori “civili” dell’economia, l’inclusione nel calcolo “geopolitico” di questioni come il governo delle migrazioni, la politica energetica e le infrastrutture digitali sono tre esempi delle molteplici manifestazioni del regime di guerra. Altri se ne potrebbero facilmente aggiungere. […] E se le immagini che provengono dal fronte ucraino riportano alla mente le trincee e le “tempeste d’acciaio” della grande guerra, quando la pace sociale e l’unità patriottica vennero imposte in tutti i Paesi coinvolti, risuonano per noi da quegli anni le parole di Rosa Luxemburg: “è la guerra come tale, e quale ne sia l’esito militare, a significare la maggiore sconfitta per il proletariato europeo; farla finita con la guerra e forzare al più presto la pace con l’azione combattiva del proletariato, ecco ciò che può rappresentare l’unica vittoria per la causa proletaria” (Juniusbroschüre, aprile 1915)».
La citazione luxemburghiana è tratta dall’importante saggio La crisi della socialdemocrazia scritto da Rosa Luxemburg nell’aprile del 1915 e pubblicato il 2 gennaio dell’anno successivo (1). Come si armonizza la posizione radicalmente antimperialista (e del resto non è possibile concepire un antimperialismo che non sia radicale, che non colga cioè il problema alle sue radici storico-sociali) della grande rivoluzionaria con la posizione sostenuta dal Collettivo Euronomade? Non si armonizza neanche un poco, a mio avviso. Di più: le due posizioni mi appaiono radicalmente (ci risiamo!) inconciliabili. Provo a dimostrarlo in termini assai sintetici.
Il Collettivo Euronomade è schierato non contro l’imperialismo colto nella sua totalità e unità (estremamente contraddittoria e conflittuale), ma solo contro l’imperialismo occidentale a trazione statunitense. Esprimo questo giudizio sulla base di due articoli che ho letto firmati appunto Collettivo Euronomade. Il titolo di uno di essi non lascia alcun dubbio a proposito: Autonomia europea contro euroatlantismo. Si allude forse all’autonomia delle classi subalterne europee? Nient’affatto! Si auspica piuttosto l’autonomia dell’Unione Europea come centro imperialista indipendente dall’imperialismo statunitense. Perché di capitalismo/imperialismo si tratta, ovviamente, quando si parla di Unione Europea. Si auspica dunque un’Europa autonoma, magari ben integrata nel nuovo ordine mondiale multipolare di cui parlano ormai da tempo Putin e Xi Jinping.
I due menzionati articoli lamentano una ridottissima «autonomia europea, la marginalizzazione dell’asse franco-tedesco [che] non lascia altra alternativa che un’Europa atlantica e, dentro l’alleanza, subalterna. […] In sintesi: un’Europa all’angolo, che vive la fine dell’Europa a traino franco-tedesco amministrando la sua residualità sulla scena globale e che, contemporaneamente, assiste al tramonto della possibilità intravista in pandemia di rinvigorire la migliore eredità del suo modello sociale welfaristico». Ripeto: qui non c’è solo la constatazione di un fatto (la relativa marginalizzazione dell’imperialismo europeo soprattutto nei confronti dell’imperialismo statunitense che cerca di reagire alla stretta “multipolare” Russo-Cinese), ma c’è anche e soprattutto l’espressione di un rammarico, di una delusione, ma anche di un auspicio (neanche troppo nascosto ma sufficientemente esplicito): il ritorno delle «politiche di coesione europee che, sia pure tra contraddizioni e resistenze, avevano animato la risposta alla pandemia».
Per il Collettivo l’europeismo può anche andare bene, soprattutto se è declinato in termini “progressisti” (nella “migliore tradizione” welfaristica europea…), mentre esso condanna senza appello l’euroatlantismo, il quale «segna l’aspirazione a liquidare ogni accenno di autonomia europea. […] Noi abbiamo sempre insistito sulla questione dello spazio europeo come problema non aggirabile per l’efficacia delle lotte. Il punto ora si qualifica ulteriormente – e drammaticamente: mettere in questione l’euroatlantismo, ponendo all’agenda delle lotte dei movimenti sociali la questione della centralità politica dell’autonomia europea. Provare a disarticolare l’euroatlantismo è il presupposto perché le lotte possano ritrovare ora capacità politica di mordere, possano ricostruire un proprio cervello collettivo. […] Rivendicare l’autonomia del modello sociale europeo è così, per le lotte, un presupposto per rivendicare alternative al blocco delle dinamiche salariali e all’ulteriore destrutturazione del welfare come uniche possibili “cure” dell’inflazione».
L’autonomia europea, comunque declinata politicamente e ideologicamente, non solo non ha nulla a che fare con l’autonomia di classe ricercata dagli anticapitalisti (anche seguendo le gigantesche orme della comunista di Zamość), ma ne è piuttosto la sua più radicale negazione. Porre «all’agenda delle lotte dei movimenti sociali la questione della centralità politica dell’autonomia europea» significa lavorare per incatenare le classi subalterne europee al carro dell’imperialismo europeo comunque esso venga a configurarsi nel breve o nel medio termine. Che l’antiamericanismo non sia sinonimo (tutt’altro!) di antimperialismo è un concetto che non riesce a farsi largo nella testa di molti “antimperialisti”.
Ecco come invece impostava il “problema europeo” Rosa Luxemburg: « Niente sarebbe più fatale per il proletariato che voler salvare dall’attuale guerra mondiale la minima illusione e speranza sulla possibilità di un ulteriore sviluppo idillico e pacifico del capitalismo. […] Solo dal’Europa, solo dai più antichi paesi capitalistici può partire, quando l’ora sarà matura, il segnale della rivoluzione sociale liberatrice. Soltanto i lavoratori inglesi, francesi, belgi, tedeschi, russi, italiani uniti possono guidare l’esercito degli sfruttati e degli oppressi dei cinque continenti» (2). Il Collettivo Uninomade non “aggiorna” il pensiero di Rosa Luxemburg: lo respinge nel modo più netto.
Tra l’altro, e a proposito di “aggiornamento”, la posizione antimperialista di Junius appare più attuale oggi, nelle’epoca del dominio totale (totalitario, mondiale) del rapporto sociale capitalistico di produzione (di beni, servizi ed esseri umani, in una sola parola: di merci), che al tempo in cui essa venne elaborata per reagire alla «capitolazione del proletariato socialista» e al «processo imperialistico di spartizione del mondo». Un solo esempio: «La politica imperialistica non è opera di uno o di alcuni Stati, è il prodotto di un determinato grado di maturazione nello sviluppo mondiale del capitale, un fenomeno internazionale per definizione, un tutto indivisibile, che si può riconoscere in tutti i suoi vicendevoli rapporti e al quale nessuno Stato singolo può sottrarsi. Solo da questo punto di vista può essere giustamente valutata la questione della “difesa della nazione” in questa guerra» (3).
In quegli anni Lenin poteva ancora criticare con un certo fondamento la posizione luxemburghiana in materia di autodecisione delle nazioni (soprattutto per colpire al cuore l’imperialismo russo che opprimeva popoli e nazioni: di qui il comprensibile odio putiniano nei confronti di Lenin); ma nel XXI secolo questa critica non troverebbe più alcun appiglio, non avrebbe più alcun senso. Nei passi sopra citati si trova il concetto di imperialismo unitario che è centrale nella mia riflessione sulla guerra in Ucraina come conflitto sistemico (economico, tecnoscientifico, geopolitico, ideologico, militare) mondiale.
Ma allora che senso ha citare Rosa Luxemburg in un contesto concettuale che nulla a che vedere ha con le sue posizioni rivoluzionarie, ma che ne sono anzi la frontale negazione? Si tratta a mio avviso di mera fuffa ideologica intesa ad affettare una postura politica pseudo radicale.
(1) R. Luxemburg, La crisi della socialdemocrazia, in Scritti politici, p. 540, Editori Riuniti, 1967.
(2) Ibid., p. 544. «La pace mondiale non può essere assicurata con piani utopistici o a base reazionaria, come tribunali arbitrali internazionali dei diplomatici capitalistici, accordi diplomatici su “disarmo”, “libertà dei mari”, abolizione del diritto di preda marittima, “federazione degli stati europei”, “unione doganale europea”, stati nazionali cuscinetto et similia. Imperialismo, militarismo e guerre non si potranno evitare o arginare finchè le classi capitalistiche eserciteranno indisturbate il loro predominio di classe. L’unico mezzo di opporre loro vittoriosa resistenza e l’unica certezza di pace mondiale sta nella capacità politica di azione e nella volontà rivoluzionaria del proletariato internazionale, di gettare sulla bilancia la sua forza» (R. Luxemburg, Princípi direttivi sui compiti della socialdemocrazia internazionale, in Appendice a La crisi della socialdemocrazia, pp. 548-549).
(3) Ibid, p. 519.
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