Chi avesse ancora dubbi sulla natura pienamente imperialista della Cina, farebbe bene a prendere atto della relazione economica e politica che si sta venendo a realizzare tra questo Paese e la Russia – peraltro definita imperialista da Lenin e da Rosa Luxemburg già ai tempi dello zarismo (*). Ma non è su questa importante questione che adesso voglio riflettere – sebbene non escludo affatto che i lettori potranno trovare non pochi “agganci” tra quello che ho appena scritto e ciò che scriverò qui di seguito.
Un mio amico mi ha fatto notare come sia una «missione impossibile» quella intesa a convincere gli estimatori sinistrorsi della Cina, già nostalgici dello stalinismo “sovietico”, che quel Paese non ha niente di socialista mentre ha invece tutto (economia, regime politico-istituzionale, politica interna ed estera, ecc.) di capitalista. Gli ho suggerito una diversa strategia comunicativa, per così dire, un diverso approccio “dialettico” se proprio ci tiene a mantenere un qualche rapporto con quelle eccellenti persone: abbandonare l’assurda idea di convincerle circa la natura capitalista/imperialista della Cina (e della Russia di Stalin e “compagni”), e anzi dare loro pienamente ragione proprio su questo rognoso punto. Fatto questo, si può azzardare il ragionamento “per assurdo” (più che per ipotesi) che segue.
Se il socialismo, non quello “ideale” che esiste nei sogni degli utopisti ma quello che è realisticamente possibile realizzare in questa imperfetta dimensione umana, è quello che dite voi; se sulla base del “marxismo” si realizza quello che abbiamo imparato a conoscere come socialismo reale: se tutto questo è vero, come fate a dirvi socialisti e marxisti senza provare vergogna? A meno che non vi piaccia lo sfruttamento e l’oppressione sociale che si consuma ogni giorno in Cina (e nel passato in Unione Sovietica) ai danni delle classi subalterne del grande Paese asiatico. Lo stesso sfruttamento e la stessa oppressione sociale che, beninteso e mutatis mutandis, osserviamo in Occidente: chi scrive rema (come può e come sa) contro tutti i Paesi del mondo, a cominciare dal suo.
Personalmente se mi convincessi che quello realizzato nella Russia “sovietica” e nella Cina (da Mao a Xi) andrebbe in effetti definito come socialismo, che esso sia veramente una coerente realizzazione del marxismo (il “salto dialettico” dalla teoria alla prassi); ebbene se pervenissi a questa tragica conclusione non esiterai un attimo a dirmi radicalmente antisocialista e antimarxista. Getterei Marx, barba compresa, non in soffitta, ma dentro il cesso delle ideologie, con rispetto parlando, e mediterei molto sulla mia passata incoscienza. Affiancherei insomma al mio vecchio anticapitalismo/antimperialismo un antisocialismo e un antimarxismo nuovi di zecca, perché io sono contro lo sfruttamento e contro l’oppressione sociale a prescindere dalla loro radice sociale. Sono contro la società disumana (dagli Stati Uniti alla Cina, passando per l’Unione Europea) e contro i regimi ultrareazionari (dagli Stati Uniti alla Cina, passando sempre per l’Unione Europea) a prescindere appunto dalla loro natura sociale: capitalismo e socialismo per me pari sono (sarebbero)! Con rispetto parlando, la cacca rimane cacca in ogni sua possibile “declinazione” sociale, politica e ideologica.
E quindi voi tifosi del «socialismo con caratteristiche cinesi nella nuova era» mi state dicendo che vi piace la cacca cinese, sempre per usare una terminologia rigorosamente materialistico-dialettica (e dunque oggettivamente scientifica!), solo perché essa esibisce l’etichetta “Socialismo”? Mi state dicendo che solo per questo la preferite a quella statunitense o a quella europea? E al contempo mi state dicendo che per voi internazionalisti, così almeno dite di essere, la cacca che la società cinese propina alle classi subalterne vi sta bene mentre non vi sta bene quella che viene propinata alle classi subalterne nel cosiddetto Occidente Collettivo? O forse, più semplicemente, per voi non si tratta affatto di cacca in salsa cinese, ma di una eccellente e profumatissima pietanza alternativa alla robaccia che offre l’odiato Occidente a chi per vivere è costretto a vendere una qualche capacità lavorativa (cosa che peraltro vale anche in Cina)? Ho inteso bene?
D’altra parte tutto è relativo, come si dice, e ciò che a me appare oltremodo ripugnante e da combattere, a un altro, che guardasse la stessa cosa ma da un diverso punto di vista, informato cioè da una ben diversa “concezione del mondo” (ad esempio su ciò che chiamiamo libertà, umanità, felicità, prosperità e così via), a un altro, dicevo, la cosa potrebbe benissimo apparire in una guisa radicalmente diversa. Bisogna dunque rassegarsi al “relativismo” concettuale e abbandonare ogni illusione circa l’esistenza di una realtà oggettiva assolutamente indipendente dal soggetto che ne sperimenta gli effetti. Il mio “correlazionismo ontologico” mi suggerisce questa conclusione, benché sia difficile da digerire.
E qui mi rendo conto che questo ragionamento “per assurdo”, già viziato dai troppi richiami al prodotto della digestione (e a questo proposito bisogna ammettere che ci vuole uno stomaco di ferro per digerire certe panzane ideologiche!) rischia di avvitarsi in un circolo vizioso; forse la mia strategia “comunicativa” non è poi così intelligente e “dialettica” come pensavo. Forse il mio amico ha ragione: è impossibile insinuare dubbi nella testa dei filocinesi.
In ogni caso, e vado rapidamente a concludere questa sconclusionata riflessione, preferisco di gran lunga avere a che fare con chi pensa, a torto, che cacca socialista e cacca capitalista si equivalgono, e che occorre dunque sbarazzarsi quanto prima di entrambe le sostanze escrementizie, che discutere con chi trova tutt’altro che repellente e comunque meritevole di rispetto («bisogna rispettare tutte le culture»: come se si trattasse di un problema culturale!) il regime sociale cinese – e quello “sovietico” dei vecchi tempi. Con il primo condividerei quantomeno lo stesso desiderio di emancipazione umana dallo sfruttamento e dall’oppressione sociale, e magari l’idea che sia possibile, oltre che auspicabile, l’uscita dell’umanità dalla dimensione classista della società. Il secondo è meglio, è più igienico, diciamo così, lasciarlo sguazzare nelle sue escrementizie convinzioni. «Del resto non si può escludere, in linea di principio, che egli possa scoprire da solo che non si tratta affatto di socialismo ma di capitalismo, e che quindi si può essere contro il Celeste Imperialismo senza per questo dar ragione all’Imperialismo Occidentale e torto a Karl Marx». Dopo tutto il mio amico si conferma essere un’inguaribile ottimista, e soprattutto – e per fortuna! – non ha bisogno dei miei consigli.
(*) Particolarmente interessante mi sembra a questo proposito l’analisi di Rosa Luxemburg: «L’imperialismo in Russia, come negli altri Stati occidentali, risulta dall’intreccio di diversi elementi. Il principale tuttavia non è costituito, come in Germania, o in Inghilterra, dall’espansione economica del capitale avido di sacculazione, ma dall’interesse politico dello Stato. Naturalmente l’industria russa, com’è tipico per la produzione capitalistica in generale, malgrado l’impreparazione del mercato interno, da molto tempo cerca di avviare la sua esportazione verso Oriente, in Cina, in Persia e nell’Asia centrale ed il governo zarista cerca con tutti i mezzi di incoraggiare questa esportazione come un fondamento desiderato per la sua “sfera di interessi”. ma la politica dello Stato è qui la parte determinante, non la parte determinata. Da un lato, nelle tendenze conquistatrici dello zarismo si estrinseca l’espansione tradizionale del potente impero […] che per ragioni economiche e politiche cerca di raggiungere lo sbocco sul mare libero, all’ Oceano Pacifico in Oriente, al Mediterraneo al sud. D’altro lato dice qui la sua parola anche l’interesse vitale dell’assolutismo, la necessità di mantenere nella gara generale delle grandi potenze nel campo della politica mondiale una posizione onorevole, per assicurarsi all’estero capitalista il credito finanziario, senza il quale lo zarismo è assolutamente incapace di esistere. […] Anche moderni interessi borghesi però entrano sempre più in considerazione come fattori dell’imperialismo degli zar. Il giovane capitalismo russo […] vede innanzi a sé un brillante avvenire per le smisurate risorse naturali di quell’impero gigantesco. […] Lo zarismo non è più soltanto un prodotto della situazione russa: le sue seconde radici si possono cercare nella situazione capitalistica dell’Europa occidentale» (R. Luxemburg, La crisi della socialdemocrazia, 1915, in Scritti politici, pp. 481-497, Editori Riuniti, 1967). Inutile dire che, mutatis mutandis e senza abbandonarsi acriticamente alle analogie storiche, i passi luxemburghiani si armonizzano senza forzature con la Russia di oggi. Rosa Luxemburg non aveva «alcun dubbio» sul fatto che non appena la Russia avesse fatto «piazza pulita dell’assolutismo», questo Paese si sarebbe sviluppato «rapidamente fino a diventare il primo Stato capitalistico moderno». La previsione non è stata azzeccata, ed è piuttosto la Cina, che al tempo in cui scriveva la comunista di Zamość viveva la triste condizione di Paese vittima dei famelici interessi imperialistici occidentali e giapponesi, si candita oggi a diventare «il primo Stato capitalistico moderno»: “dialettica” del processo storico-sociale!
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