SUL RIFLESSO CONDIZIONATO AUTORITARIO

Scrive il costituzionalista Gustavo Zagrebelsky: «In Italia si può donare un rene, ma non si può venderlo, e questo lo trovo giusto. Ciò che importa è che nessuno possa commercializzare il proprio corpo. Gestazione per altri? Distinguerei tra utero in affitto a pagamento, che è inaccettabile, e un approccio solidale». Per Zagrebelsky è dunque giuridicamente lecito ed eticamente corretto la gestazione per altri che non abbia uno scopo economicamente sensibile, che non sia cioè finalizzata a uno scambio mercantile, ma che si configuri piuttosto come un dono a vantaggio di chi non può avere un figlio mentre lo desidera più di ogni altra cosa.

È dunque sul cosiddetto utero in affitto, ossia sulla compravendita del “servizio gestazione” che si concentrano le condanne o quantomeno le perplessità dei “progressisti”, i quali ci tengono a differenziare la loro contrarietà da quella espressa dalla “destra” omofoba e che riconosce come “naturale” solo «la famiglia composta da una madre, da un padre e dai figli». Qui è solo il caso di ricordare che la cosiddetta famiglia naturale non è mai esistita, se non nella testa appunto degli ultrareazionari. La famiglia è sempre stata per società, non per natura. Nell’ambito del solo patriarcato si contano, nel tempo, diversi modelli di famiglia, soprattutto in relazione alla differenza che corre tra città e campagna. Un noto attore italiano ha lamentato qualche tempo fa il fatto che «i genitori sono diventati dei bancomat»: non sanno più dire un solo no alle pretese dei figli, che infatti approfittano in tutti i modi della debolezza dei genitori. C’è del vero, anzi c’è molto di vero in quel che dice l’attore; ma anziché concludere la lamentela con la solita triviale banalità del «si stava meglio quando si stava peggio», o con il consiglio di ripristinare la perduta autorità genitoriale sui figli (magari imponendo loro di usare meno i cosiddetti social: come se la cosiddetta realtà virtuale non fosse la continuazione della realtà “propriamente detta”!), dovremmo interrogarci su quella autorità alla luce dello strapotere delle forze sociali capitalistiche – le quali spesso si manifestano come tecnologia mediatica e come marketing orientato alla spesa compulsiva. Ci si illude forse di poter mettere al riparo la famiglia (“naturale” o meno che sia) da quelle forze che premono da tutte le parti (anche da quelle della cui esistenza non si sospettava nemmeno) la società e ogni singolo individuo?

Contrapporre poi il bisogno (buono perché “naturale”) al desiderio (cattivo perché “artificiale”) sulla base di una concezione antistorica (1) delle relazioni umane, significa porsi su una strada lastricata di pessime decisioni personali e politiche – distinzione che com’è noto è anch’essa assai dubbia. Storicamente siamo passati dalla repressione dei corpi e dei bisogni alla loro graduale e poi sempre più accelerata integrazione nella logica capitalistica, che ne ha fatti dei zelanti quanto potenti alleati del dominio sociale capitalistico: in questo contesto contrapporre i bisogni ai desideri (ad esempio, desiderare un figlio anche se si è omosessuali) è francamente ridicolo e spiana la strada che conduce il pensiero su posizioni autoritarie. Ma ritorniamo al punto scottante.

Cosa possiamo dire sul cosiddetto utero in affitto? Prendo in considerazione solo questa “fattispecie” perché la gestazione per altri come dono, come puro atto altruistico, “non fa problema” in gran parte degli ambienti progressisti del nostro Paese. Bisogna invece fare i conti con la pratica che crea scandalo e indignazione pressoché universali. Troppo facile camminare sul soffice e piano terreno della gratuità, del dono e dell’altruismo! Non ci sarebbe alcun merito, per dirla con Nostro Signore.

Intanto si può dire che quella di cui ci stiamo occupando è una pratica estremamente minoritaria a cui ricorrono in larga maggioranza le coppie eterosessuali. Nonostante l’esiguità dei numeri la questione tocca molti nervi scoperti di diversa natura, e ci si pone alla riflessione come un classico tema controverso e divisivo, come dimostra il dibattito interno a ciò che rimane del movimento femminista. Per la “femminista storica” Marina Terragni «Il femminismo radicale è convinto che lo sfruttamento delle donne e il mercato dei bambini vada perseguito ovunque, anche all’estero» (Avvenire). Si tratta della proposta di legge, avanzata anche da molti politici sinistrorsi, intesa a far diventare «reato universale» (nientedimeno!) la vendita del servizio gestazione (2).

Per chi scrive non si tratta di schierarsi a favore o contro un fenomeno sociale che ha i requisiti appena accennati, ma di capirne la natura sociale, collocandolo nel contesto sociale di cui esso  è parte e da cui riceve il suo autentico significato. Se infatti isoliamo una pratica sociale, di qualsiasi genere e impatto sociale, da questo contesto non solo non ne comprendiamo il significato profondo  (il nesso che lega il particolare al generale, la singolarità alla totalità), ma non riusciamo nemmeno a individuarne la dinamica, la tendenza, e soprattutto ci esponiamo al rischio di connotarla in termini ideologici e moralistici, cosa che non può non ripercuotersi negativamente anche sul piano delle nostre scelte politiche. È esattamente quel che accade a chi approccia la cosiddetta gestione per altri con un atteggiamento punitivo, repressivo e proibizionista. Il processo di mostrificazione dell’utenza del servizio in questione in questi giorni ha superato abbondantemente i limiti del parossismo, in una gara a chi la spara più grossa contro «i ricconi che vogliono soddisfare un desiderio sfruttando il corpo di una donna bisognosa». Grande scoperta sociologica: nel migliore dei mondi possibili (cioè nella società capitalistica) esistono i “ricconi” e le donne bisognose! Prendo la notevole scoperta e la porto a casa.

Non ci piace un fenomeno sociale? Vietiamolo! Dinanzi a un fenomeno sociale che non comprendiamo o che esecriamo con tutte le nostre forze si attiva in noi una sorta di riflesso condizionato autoritario. La formazione della personalità autoritaria ha molto a che fare con l’impotenza dell’individuo sussunto sotto la totalità sociale ostile all’umano. La personalità autoritaria è la faccia opposta dell’individualismo come illusione e come ideologia: «La società è giunta ad esercitare sul singolo una pressione strapotente, e le reazioni individuali sono ristrette entro limiti più che mai ridotti:  quanto meno individui abbiamo, tanto più individualismo (3). In effetti non abbiamo individui, ma atomi sociali che spesso “fanno massa” aggregandosi con altri individui atomizzati.

Azzardo un’analogia. Come dimostrano le politiche italiane intese a governare l’uso delle droghe e il mercato della prostituzione, l’approccio di cui sopra da me stigmatizzato si rivela una mera illusione autoritaria che realizza solo un plus di sofferenze e di problemi a carico delle persone coinvolte a vario titolo in quei due fenomeni. Non solo non si risolvono i problemi, com’è peraltro ovvio sul fondamento della vigente società, ma si finisce per aggravarli e per creare nuovi problemi, e questo a prescindere dalle ottime intenzioni che ispirano i proibizionisti chiamati a governare i fenomeni sociali. Peraltro le organizzazioni criminali che gestiscono il mercato delle sostanze proibite sono da sempre contrarissime alla loro legalizzazione che ne farebbe crollare il prezzo nel giro di qualche giorno. In ogni caso il proibizionismo è un’illusione che genera effetti deleteri assai concreti (4).

Parliamo della prostituzione: è “bello”, è “giusto”, è rispettoso della dignità della persona offrire un “servizio sessuale” in cambio di denaro? Prima di rispondere alla domanda intanto bisogna capire la natura del fenomeno in questione alla luce della realtà sociale che lo rende possibile. Qui naturalmente intendo riferirmi alla prostituzione esercitata da una persona, donna o uomo che sia, esercitata come “libera attività”, e non alla prostituzione come pratica sfruttata da un’organizzazione criminale o dal classico magnaccia. “Libera attività”, beninteso, come può essere libera qualsivoglia attività economica esercitata nella società dominata dal Dio denaro, nella società plasmata dai rapporti sociali capitalistici di produzione di beni, servizi e individui – cioè di merci. Scrive l’avvocato Francesco Dandria: «L’attività di meretricio, ossia offrire una prestazione sessuale in cambio di denaro, da parte di una persona adulta, non costituisce reato se la prestazione sessuale viene compiuta liberamente e volontariamente. In altre parole, se non vi è costrizione da parte di alcuno ognuno può scegliere di fare ciò che vuole con il proprio corpo. Ciò rientrerebbe nelle scelte individuali della persona umana e dunque nel principio costituzionale della libertà personale». Su questo tema vige ancora la cosiddetta Legge Merlin varata nel lontanissimo 20 febbraio 1958. In Italia vendere il servizio sessuale non è un reato mentre lo è acquistarlo: come si spiega questo incredibile paradosso? Con la tradizionale moralistica ipocrisia del nostro Paese? Fatto sta che l’utente sessuale corre il rischio di incorrere nel reato di favoreggiamento della prostituzione.

Una persona mercifica il suo corpo per ottenere denaro: vogliamo forse punirla? Io no! Opporsi all’intenzione punitiva significa considerare bella e buona la prostituzione (magari indotti da un “conflitto di interessi”…)? Solo uno sciocco può pensare questo. C’è anche chi, pur non volendo criminalizzare sul piano giuridico quella pratica, avverte tuttavia il bisogno di consigliare a chi esercita “liberamente” «l’attività di meretricio» di cambiare lavoro, di sceglierne uno “meno riprovevole” sul piano etico: «Magari guadagni di meno e fatichi di più, ma in compenso acquisti in dignità e autorispetto». Personalmente non ho alcun consiglio da dare né una predica da fare a chi ritiene più utile alle proprie aspettative di vita vendere un servizio sessuale a qualcuno anziché venderne un altro di diversa qualità. Per come la vedo io, sul terreno della compra-vendita tutte le vacche sono grigie! Posta la domanda (un bisogno sociale di qualsiasi genere), segue l’offerta: nel capitalismo la mercificazione di entrambi i poli del mercato è fisiologica – e difatti si chiama mercato. Ti vendo un bene o un servizio e in cambio tu mi dai dei soldi. Come scriveva Marx, la domanda in grado di pagare è la sola domanda che può vantare giusti diritti nella società capitalistica. E chi non può pagare? Si arrangi!

A chi si riempie la bocca di mercificazione del corpo delle donne e del nascituro, faccio rispettosamente notare la tremenda realtà della mercificazione universale. La mercificazione del corpo del lavoratore (e non solo del suo lavoro) è ad esempio una realtà che da sola è sufficiente, sempre a mio avviso, a relativizzare, se non a ridicolizzare, tanti indignati discorsi sull’utero in affitto e sul mercato dei bambini. 

Mi si può sempre obiettare, soprattutto “da sinistra”, che comunque occorre organizzare una resistenza nei confronti della disumana potenza del Moloch capitalistico, senza attendere che la palingenesi sociale (aspetta e spera!) ce ne liberi una volta per sempre. «Occorre mettere un argine alla strapotenza del Mostro!» Sono perfettamente d’accordo! Resistere, resistere, resistere! Il problema è semmai come resistere, con quali strumenti politici e con quale approccio concettuale. Solo resistendo oggi è possibile preparare (sempre si spera) la rivoluzione sociale di domani. Resistendo alle continue pressioni del Capitale i lavoratori imparano la solidarietà di classe, si rafforzano, possono sperare di conquistare sempre nuove posizioni contro gli interessi dei padroni e del loro Stato. L’anticapitalista non ha mai contrapposto il futuro al presente, la strategia alla tattica, la teoria alla prassi. Ebbene, io credo che la resistenza alla continua disumanizzazione degli individui (di ogni loro relazione, di ogni loro attività) imposta dai vigenti rapporti sociali basata su un approccio punitivo, repressivo e proibizionista ai fenomeni sociali, anche di quelli che ci appaiono più lontani dalla nostra sensibilità umana e politica; penso che questo approccio sorrida alla conservazione sociale e volti invece le spalle all’emancipazione universale. Questo tipo di resistenza non mi piace neanche un poco.

(1) Qualche epigono di Freud non particolarmente profondo e soprattutto l’intero esercito di neuroscienziati inchiodano alla croce del determinismo biologico il “padre della psicoanalisi” a causa del suo celebre enunciato che recita «L’anatomia è il destino». «Modificando una nota frase del grande Napoleone, si potrebbe dire a questo proposito: “l’anatomia è il destino”. I genitali stessi non hanno seguito l’evoluzione delle forme corporee verso la bellezza, sono rimasti animaleschi, e così anche l’amore è rimasto nella sua essenza animale come è sempre stato. Le pulsioni erotiche sono difficilmente educabili, la loro educazione ora dà troppo, ora troppo poco. Ciò che la civiltà vuol fare di esse non pare raggiungibile senza sensibile scapito di piacere, la persistenza degli impulsi inutilizzati è riconoscibile nell’attività sessuale come mancato soddisfacimento.

A questo punto, dovremmo forse abituarci all’idea che un adeguamento della pulsione sessuale alle esigenze della civiltà non sia affatto possibile; che rinuncia e sofferenza nonché, in lontanissima prospettiva, il pericolo di estinzione del genere umano in seguito alla sua evoluzione civile non possano venir evitati» (S. Freud, Contributi alla psicologia della vita amorosa, in Opere, vol. 6, p. 431, Boringhieri, 1974). L’enunciato freudiano non può venir isolato da altri enunciati di analogo argomento senza perdere il suo autentico significato. Due soli esempi: «Le differenze [biologiche] di sesso non possono pretendere ad alcuna caratterizzazione psichica particolare» (L’interesse per la psicoanalisi, in Opere, vol. 7, p. 265); «Ciò che costituisce la mascolinità o la femminilità [è] un carattere sconosciuto, che l’anatomia non è in grado di cogliere» (Introduzione alla psicoanalisi (nuova serie di lezioni), Lezione 33. La femminilità, in Opere, vol.11, p. 221). L’anatomia non è in grado di cogliere, mentre una psicologia che fosse orientata in senso critico-sociologico potrebbe farlo. L’enunciato freudiano va anche letto alla luce dei che passi che seguono, i quali hanno come loro obiettivo polemico la morale sessuale repressiva borghese del tempo in cui scriveva il Nostro: «Che i bambini non abbiano alcuna vita sessuale – eccitamenti e bisogni sessuali e una specie di soddisfacimento – ma la acquistano improvvisamente tra i 12 e i 14 anni, sarebbe (a prescindere da tutte le osservazioni) biologicamente inverosimile, anzi insensato: come se dicessimo che non vengono al mondo con i genitali, ma che questi si formano in loro solo all’epoca della pubertà» (La vita sessuale umana, in Introduzione alla psicoanalisi, p. 281, Boringhieri, 1985). Scriveva Lacan: «Freud ci dice: L’anatomia è il destino. Lo sapete bene, in certi momenti mi è capitato di protestare contro questa formula per quello che ha di incompleto. Essa diventa vera se diamo al termine anatomia il suo senso stretto e, se così posso dire, etimologico, il quale mette in rilievo, ana-tomia, la funzione del taglio» (J. Lacan, Il Seminario. Libro X. L’angoscia, p. 256, Einaudi,  2007). La formula freudiana non è sbagliata ma incompleta: come completarla?  Lacan suggeriva di collocare «la sessualità […] nelle reti della costituzione soggettiva, nelle reti del significante», cosa che a mio avviso chiama in causa il processo sociale inteso nella sua complessa totalità.

(2) Qualche sinistro personaggio ha tirato in ballo un articolo di Gramsci scritto nel 1918 per suffragare la bontà della rivendicazione. Scriveva Gramsci: «Il dottor Voronof ha già annunziato la possibilità dell’innesto delle ovaie. Una nuova strada commerciale aperta all’attività esploratrice dell’iniziativa individuale. Le povere fanciulle potranno farsi facilmente una dote. A che serve loro l’organo della maternità. Lo cederanno alla ricca signora infeconda che desidera prole per l’eredità dei sudati risparmi maritali. Le povere fanciulle guadagneranno quattrini e si libereranno di un pericolo. […] Venderanno la possibilità di diventar madri: daranno fecondità alle vecchie gualcite, alle guaste signore che troppo si sono divertite e vogliono ricuperare il numero perduto. I figli nati dopo un innesto? Strani mostri biologici, creature di una nuova razza, merce anch’essi, prodotto genuino dell’azienda dei surrogati umani, necessari per tramandare la stirpe dei pizzicagnoli arricchiti. […] Il quattrino deturpa, abbrutisce tutto ciò che cade sotto la sua legge implacabilmente feroce. La vita, tutta la vita, non solo l’attività meccanica degli arti, ma la stessa sorgente fisiologica dell’attività, si distacca dall’anima, e diventa merce da baratto; è il destino di Mida, dalle mani fatate, simbolo del capitalismo moderno» (A. Gramsci, Scritti 1913-1926, p. 88, Einaudi, 1984). Detto che non sono mai stato un grande estimatore di Gramsci (essendomi formato alla scuola di Amadeo Bordiga), mi sembra che qui egli si “limiti” a denunciare acutamente un fenomeno sociale, nei termini in cui poteva farlo un socialista che scriveva un secolo fa, riconducendolo alle sue radici sociali e, soprattutto, senza rivendicare leggi repressive.

(3) M. Horkheimer, T. W. Adorno, Lezioni di sociologia, p. Einaudi, 2001.

(4) «Ogni anno circa 4.000 giovani, quasi tutte ragazze, perdono la vita per anoressia e disturbi alimentari. È la prima causa di morte dopo gli incidenti stradali sotto i 25 anni. Il partito della Meloni vuole introdurre un nuovo articolo del codice penale: il 580 bis, ovvero il reato di istigazione ai disturbi alimentari, l’anoressia su tutti. La norma prevede la reclusione in carcere fino a due anni e sanzioni da 20 mila a 60 mila euro per chiunque “determina o rafforza l’altrui proposito di ricorrere a condotte alimentari idonee a provocare o rafforzare i disturbi del comportamento alimentare”, primo fra tutti l’anoressia» (Ansa).

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